sabato 26 maggio 2012

LA PIANISTA (2001), Michael Haneke


Francia, Austria, 2001
Regia: Michael Haneke
Cast: Isabelle Huppert, Annie Girardot, Benoît Megimel, Susanne Lothar, Udo Samel
Sceneggiatura: Michael Haneke


Trama (im)modesta – Erika è un’insegnante di pianoforte che lavora al conservatorio di Vienna. Al culmine della mezza età, vive ancora con la madre, una donna asfissiante e invadente che controlla ossessivamente la sua vita e si intromette nei suoi affari personali. All’apparenza irreprensibile e castigata, in realtà Erika cova dentro di sé un focolaio nascosto di perversioni inenarrabili. L’incontro con un giovane studente che si innamora di lei sarà l’occasione per l’esplosione dei suoi desideri più nascosti.


La mia (im)modesta opinione – Il bianco. Colore acromatico per eccellenza. Alta luminosità, nessuna tinta. Non tanto l’assenza di colore ma tutte le sfumature dello spettro cromatico che si condensano e azzerano in una singola, vaga tinta. Il bianco è il colore dello spirito moderno in cui tutte le spinte  e le suggestioni storiche, morali e culturali si fanno così vicine che finiscono per annichilirsi a vicenda. Insomma, bianco è più sinonimo di amoralità che di candore e questo Haneke lo sa bene. Il bianco ricorre praticamente in quasi tutti i suoi film. È nei completi dei maniaci torturatori di Funny Games, è nell’arredamento e nelle architetture di Niente da nascondere, è legato alle braccia di bambini che, un domani, diventeranno i nazisti ne Il nastro bianco. Anche ne La Pianista il bianco è una presenza perpetua, ossessiva e quando non è l’abbacinante riverbero di una pista di ghiaccio o del marmo della sala del conservatorio è una luminosità lattea che soffonde praticamente ogni inquadratura.


La pianista è un film sconvolgente, perturbante. Dalla visione di questo film si esce estenuati, febbricitanti, tesi come la corda di un violino o, per meglio dire, di un pianoforte. Non tanto per le taglienti e indecifrabili sottigliezze psicologiche di cui sono imbevuti i suoi personaggi, quanto per il clima di tensione costante derivato da uno svolgimento lento che pare quasi centellinare ogni singola inquadratura. Haneke non vuole sbrigarsi, la sua lentezza è studiata, metodica. È uno strumento di tortura con cui sferza lo spettatore. Ogni minimo indugio è una stilettata dritta al cuore. E l’attesa non si risolve tanto nell’attuazione di un evento quanto nella osservazione forzata delle morbosità e delle perversioni cui ci costringe il regista. L’indugio dell’occhio dell’autore su ciascuna scena, quell’analisi che siamo costretti a fare ci sfibra, ci lascia prostrati, ansimanti e adoranti insieme, perché quello che vediamo con La pianista è una vera e propria opera d’arte totale.


Una sceneggiatura che ha la profondità e lo scavo psicologico di un romanzo d’autore (e il romanzo originale l'ha scritto un premio Nobel), delle interpretazioni che paiono cristallizzate, di adamantina perfezione, una regia che sembra un’operazione chirurgica, lancinante e surgelata come un bisturi. Isabelle Huppert è di una bravura terrificante. Fa diventare di carne e sangue una donna che altrimenti sarebbe esistita solo sulla pellicola o sulla carta stampata. Restituisce con impressionante realismo sia l’algida scorza di Erika, sia la sua polpa crudele e depravata. Vediamo in Erika una donna glaciale, al contempo prigioniera e attrice del proprio ruolo, i cui occhi balenano di sadico desiderio, assistiamo allo sviluppo dei suoi pensieri come se fossero fiori che sbocciano, osserviamo le sue perversioni e le sue devianze mettersi in atto senza pietà, senza censura. Haneke ha la lucidità di un chirurgo o di un assassino nel dissezionare una psicologia, analizzarne minutamente le singole parti e poi darci una visione d’insieme.


Il finale del film è ermetico ma ugualmente destabilizzante. È il trionfo di qualcosa ma di che cosa? Dopo due ore di visione, si esce da questo finale come massacrati, sfiancati, pieni di domande. La pianista è un film che non solo va visto, va anche finemente meditato e che una recensione come questa può solo segnalare ma non veramente afferrare nella sua essenza più intima. Come ogni altro film di Haneke anche questo rappresenta una tappa dello studio sulla crudeltà che il regista si propone di fare. Il quesito posto da questa pellicola è questo: cosa succederebbe se invece di assorbire la devianza in maniera passiva, lenta e inconsapevole ci si buttasse a capofitto, ingollandone avidamente il liquore amaro direttamente dalla sua fonte più pura? La distruzione, è l’unica risposta. Insensata, brutale distruzione.


Se ti è piaciuto guarda anche… -  Due film che mi vengono in mente pensando a La pianista sono immancabilmente il grandioso Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich, geniale e cattivissimo dramma da camera, e il più moderno Il cigno nero (2010) di Darren Aronofsky, film bello ma sicuramente meno viscerale e sottile dell’opera di Haneke. Altre profonde analisi sulla crudeltà generata dall’indifferenza ai valori morali sono lo splendido Diario di uno scandalo (2006) di Richard Eyre e Boxing Helena (1993) di Jennifer Chambers Lynch e, per restare nell’ambito del cognome Lynch, è impossibile non citare il Velluto Blu (1986) del grande David Lynch.


Scena cult – La scena del bagno. Definitivo trionfo del sadismo e della cattiveria di Haneke che costringe gli spettatori a un tour de force mentale lentissimo, crudele e vagamente perverso (sempre meno perverso degli hobby serali di Erika).

Canzone cult – Musica classica per questo film. Musica lenta, ponderata, taglientissima. Il pezzo preferito? Il trio per pianoforte,viola e violoncello n. 2 in Mi bemolle maggiore di Schubert.

1 commento:

  1. Concordo in tutto e per tutto.
    Non il mio preferito di Haneke, ma di certo un film capace di entrarti dentro come un coltello nel burro. A suo modo, terrificante.

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