mercoledì 12 febbraio 2014

THE COUNSELOR (2013), Ridley Scott


























USA, 2013
Regia: Ridley Scott
Cast: Michael Fassbender, Cameron Diaz, Javier Bardem, Brad Pitt, Penélope Cruz
Sceneggiatura: Cormac McCarthy


Trama (im)modesta – Il counselor (mi rifiuto di chiamarlo procuratore, insensato in italiano) è uomo dalla doppia vita. Quello che il pubblico vede, quello che vedono le autorità, è un rispettabile avvocato arricchitosi con una brillante carriera. Ma sono in pochi a sapere che il counselor investe, per arricchirsi, nel traffico della droga insieme allo spacciatore/imprenditore Reiner. Tutto pare andare per il verso giusto fino a quando un carico scompare e il counselor, insieme alla sua squadra, è accusato di averlo rubato...


La mia (im)modesta opinione – Avrei voglia di dire che in questo film non c’è una cosa che vada per il verso giusto. Ma non amo generalizzare. E in effetti né la regia di Ridley Scott m’è parsa qui tanto orrenda (tranne per l’imperdonabile stupidità di seguire religiosamente uno script in cui poco o nulla c’era di buono), né perché gli attori mi hanno deluso particolarmente. Anzi. Penélope Cruz, che di solito non mi sta affatto simpatica, mi è parsa convincente e brava, sprecato rispetto alla sua esagerata bravura è stato Michael Fassbender e in generale tutto il resto del cast. Unico problema, il cocktail letale di bravi attori e scarsa caratterizzazione conduce a una trafila di ruoli macchiettistici e insensati come sono stati non solo quelli dei comprimari (Pitt, Bardem, Diaz) ma anche di tutte le belle comparse sparse in giro del tutto a caso (parlo di Toby Kebbell, Natalie Dormer e Dean Norris) con l’unica eccezione del sempre piacevole Bruno Ganz.


Il grande, grandissimo problema sembra essere proprio il blasonato sceneggiatore, ossia il premio Pulitzer Cormac McCarthy, autore di gran pregio, già saccheggiato con abbondanza dall’industria cinematografica con gran bei risultati (ricordiamo Non è un paese per vecchi, La strada e The Sunset Limited). Questa volta l’amaro pessimismo cosmico dello scrittore del Rhode Island non viene integrato nella storia ma sforzato con violenza in fondo alla gola di tutti i personaggi che, ironicamente, non sono nemmeno approfonditi psicologicamente. Non parlo dell’approfondimento complesso di quelle figure leggendarie del cinema ma del semplice chiaroscuro che permette a qualunque carattere di essere più spesso della carta su cui è scritto. In The Counselor è già raro capire non tanto i nomi, quanto le occupazioni di tutti i suoi protagonisti. Il personaggio di Brad Pitt è un’incognita quasi totale. Ma che fa? Dicono solo che è un “business associate” nulla di più, nulla di meno.


Più interessante è vedere come il cartello messicano di cui tanto si parla non si veda mai. Il film è una sequela di racconti terrificanti su ciò che accade nella selvaggia Juarez, con un flebile cenno alla decadenza della società. Ma tutto si ferma qui, spunti inespressi, abbandonati per strada. Scene intere sono praticamente inutili (Cameron Diaz che va in chiesa, ad esempio), altre invece vorrebbero avere un significato profondo ma riescono solo strane e vagamente disgustose (il famigerato “sesso con la Ferrari”). La storia, nel frattempo, langue. La dimensione umana dei protagonisti non c’è, quella thriller della vicenda latita pure. Cosa resta? Una sfilza di inutili arguzie inanellate con un compiacimento quasi offensivo e impacchettate in una messinscena da rivista che poi è anche l’unico pregio di una pellicola così.


Peccato, era interessante lo spunto della storia che seguiva il carico di droga fino a Chicago, in mezzo a tutte le sue avventure. Fra queste, almeno uno sfida ogni legge della logica. Parlo della scena, già presente nel trailer, del motociclista decapitato. Che poi quale fosse la sua funzione nessuno l’ha spiegato. Lo ricordo soltanto per un discorso mal recitato su una dieta a base di croccantini per cane. Ugualmente confusa è la continuity che lo vede intrecciare il suo cammino con il counselor: quando è finito in prigione? Quando è stato tirato fuori? E a che serviva il dispositivo che portava nel casco? Perché era così essenziale recuperarlo?


Fra sequele di dialoghi filosofici e del tutto insensati (su tutti, la telefonata Laura/Malkina) che culminano nel lungo e immotivato apologo filosofico dell’avvocato (???) del cartello al counselor, l’azione del film si vede poco. Un nuovo spreco: la poca che c’è è ben fatta, divertente, pulp. Ma se almeno l’affine Le Belve di Oliver Stone di due anni fa era divertente e complicato, quest’ultimo lavoro di Scott fa fatica a inseguire le bizze di una scrittura onanistica e capricciosa, prona alla verbosità non richiesta, priva della minima ironia. Un trash sperticato through and through questa novella di dramma morale. Un grande cast del tutto sprecato e una regia che altrimenti avrebbe funzionato buttata via, al servizio di una storia non brutta ma prolissa e pretenziosa. Sconsigliato.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente i precedenti lavori con marchio di fabbrica di McCarthy: Non è un paese per vecchi (2007) di Joel ed Ethan Coen, La strada (2009) di John Hillcoat e The Sunset Limited (2011) di Tommy Lee Jones. Validissimo è Killer Joe (2011) di William Fredkin e il tanto vessato Le Belve (2012) di Oliver Stone. Ricordiamo poi Assassini Nati (1994) sempre di Oliver Stone e Una vita al massimo (1993) di Tony Scott, fratello di Ridley, alla cui memoria questo film è dedicato. C’è poi il funambolico C’era una volta in Messico (2003) di Robert Rodriguez e Traffic (2000) di Steven Soderbergh.


Scena cult – Il sesso con la macchina, ovvio.

Canzone cult – Carina la colonna sonora. Ma non mi sono disturbato a cercare canzoni.

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