martedì 30 aprile 2013

THE FOLLOWING, Stagione 1 (2013), Kevin Williamson


USA, 2013
Regia: Marcos Siega, Liz Friedlander, Henry Bronchtein, Phil Abraham, Nick Gomez,  Joshua Butler, Adam Davidson, David Von Ancken, Nicole Kassell
Cast: Kevin Bacon, James Purefoy, Natalie Zea, Shawn Ashmore, Valorie Curry, Nico Tortorella, Annie Parisse, Kyle Catlett
Sceneggiatura: Kevin Williamson, Adam Armus, Kay Foster, Rebecca Dameron, Shintaro Shimosawa, Seamus Kevin Fahey, Amanda Kate Shuman, David Wilcox, Vincent Angell


Trama (im)modesta – Dopo poco meno di dieci anni di prigionia, il serial killer Joe Carroll evade di prigione, dopo aver massacrato sei guardie carcerarie. L’ex-agente FBI Ryan Hardy, che l’aveva catturato la prima volta, tenendosi un peacemaker e una cicatrice sul petto come ricordo, viene richiamato in servizio. Il quadro è più complicato dalla presenza della ex-moglie di Carroll, Claire, che con Hardy aveva intrecciato una relazione amorosa. Quando Carroll viene riarrestato tutto pare essere tornato alla normalità, ma gli omicidi continuano. Verrà poco a poco fuori l’esistenza di un culto di seguaci di Carroll, trovati dopo anni e anni di visite in carcere e affiliazioni a milizie di guerriglieri, che si muovono secondo un certo percorso sconosciuto alle autorità. E quando il figlio di Carroll verrà rapito dai suoi seguaci la trama s’infittirà come non mai. Quale è il piano di Carroll? E chi sono i suoi seguaci, che paiono essere infiltrati in ogni dove?


La mia (im)modesta opinione – Come posso descrivere in poche righe The Following? Non l’adoro come fanno altri, né la serie ha motivi per farsi adorare: trama pedestre e confusa, evidente deficienza stilistica, improbabili impennate narrative. Diciamo solo che seguire The Following vuol dire allenare la nostra incredulità, più che a restare sospesa, a rimanere in lunghissima apnea. Nulla di quello che succede sullo schermo è pur minimamente verosimile, la trama (che vorrebbe essere così ampia) è grossolanamente impalcata e fa acqua (o sangue) da tutte le parti. La serie è sciocca, infantile, abnorme; eppure, come i feuilletons francesi che tanto ricorda (più che Kevin Williamson pare che il creatore della serie sia stato Alexandre Dumas), The Following è spazzatura televisiva che si fa guardare e che, alla fin fine, fa desiderare allo spettatore di voler sapere che succede nella puntata successiva.


Chiariamoci, circa a metà della serie anche io avevo pensato di lasciarla perdere: ci mancava solo che gli alleati di Carroll annoverassero fra le loro armi un drago e il bastone di Gandalf e che l’FBI arrivasse sulla scena del crimine sopra l’Enterprise. Una fantasia troppo libera, che facilitava più del lecito il lavoro agli sceneggiatori, lasciando peraltro svariate questioni non concluse. E improbabile non è tanto il singolo colpo di scena che ricorre di tanto in tanto, quanto l’intera idea di un culto di serial killer fanatici come talebani, armati come un esercito, con computer e sofisticate armi d’assalto, che vivono nel lusso d’una magione di campagna mentre l’intera polizia federale gli va dietro. Banalissima e scontata è la storia, al punto che basta un qualunque habitué per vedere a cento metri le sorprese e per vedere negli altri colpi di scena abusatissimi espedienti narrativi fra i quali primeggia uno stragonfiato deus ex machina che finisce, a un certo punto, col perdere credibilità.


Ma la serie si fa guardare, e nonostante episodi totalmente riempitivi, passaggi imperdonabilmente fumosi e un eccesso di fiducia richiesto allo spettatore, si fa apprezzare. Si fa apprezzare per la profondità con cui una manciata di personaggi, supportati da ottimi attori, riesce a emergere dalla folla di comparse che popola le scene del serial. I primi due sono i protagonisti: Ryan e Carroll, due antieroi violenti, disturbati, distrutti chi dalla vita (e dall’alcolismo) e chi dalla follia che combattono su due opposti fronti; basti dire che con The Following Kevin Bacon sembra aver trovato il personaggio della propria vita, tanto gli calza a pennello il volto e lo spirito dell’agente Hardy. Non lo stesso si potrebbe certo dire per James Purefoy che riesce però a trovare la propria dimensione solo negli episodi finali della serie e, per tre quarti degli episodi, pare la copia macellaia di Hannibal Lecter. Ma laddove il dottore cannibale era un uomo di gusto squisito, il nostro Carroll manca tragicamente in arguzia e conoscenza, come anche in brutalità. Solo negli episodi finali vediamo il personaggio maturare veramente – e nemmeno si può dire che maturi eccessivamente tardi...


Le altre quattro rivelazioni assolute della serie rispondono al nome di Shawn Ashmore, Nico Tortorella, Valorie Curry e Kyle Catlett, rispettivamente il collega di Ryan, due seguaci di Carroll e il figlio di quest’ultimo. Ognuno dei quattro attori crea un personaggio assolutamente originale e sbozzato se non con finezza, almeno con grande precisione. E se da uno come Ashmore potevamo aspettarcelo, la vera sorpresa viene da Nico Tortorella che pareva solo un belloccio piantato lì a far vedere il bel faccino, dalla camaleontica Valorie Curry (che spereremmo di vedere in un film di più ampio spessore) che alterna vezzi di ragazza della porta accanto a scatti di inquietante efferatezza, e dalla rivelazione assoluta Kyle Catlett che, sebbene la giovanissima età, è già un attore di strabiliante bravura e forse uno dei migliori personaggi che gli autori sono riusciti a dipingere.


Il verdetto finale su The Following? Guardatelo e guardatevene. Non fatevelo piacere troppo perché sarebbe sporcarsi le mani, ma apprezzatelo, divertitevene e godetevi il giro di giostra di questa prima, troppo lunga, stagione che, proprio come una giostra che non vuol saperne di fermarsi, intrattiene prima, nausea poi ma, in quale modo, soddisfa. Un polpettone americano, dunque, totalmente diverso da altri prodotti che circolano adesso come il raffinatissimo Hannibal (per quanto conservi le sue evidenti manchevolezze di serie) o il più giovanile Bates Motel. E ormai non ci resta che attendere la seconda stagione (che guarderò: ormai devo capire come va a finire la storia, anche se già lo sospetto grandemente) in arrivo l’anno prossimo, un po’ con malavoglia, un po’ con entusiasmo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ma ovviamente il torbidissimo e iperstiloso Hannibal (2013) di Bryan Fuller, il più disimpegnato Bates Motel (2013) creata da Carlton Cuse, Kerry Ehrin e Anthony Cipriano, abbiamo poi The Killing (2011) di Veena Sud, recentemente rinnovato per una terza stagione e poi la serie Haven (2010) di Sam Ernst e James Dunn. Quanto a riferimenti filmici, richiamiamo al grande classico Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, il mitico Seven (1995) di David Fincher, il debole ma efficace dramma psicologico Mr. Brooks (2007) di Bruce A. Evans, Assassini Nati (1994) di Oliver Stone, ci sono poi le altre buone prove Surveillance (2008) di Jennifer Chambers Lynch, il Behind the Mask (2006) di Scott Glosserman.


Scena cult – Senza dubbio i veri colpi di scena degli ultimi tre-quattro episodi, insieme al triangolo creato dai personaggi di Nico Tortorella, Valorie Curry e Adam Canto.

Canzone cult – Non pervenuta.

martedì 23 aprile 2013

JOSHUA (2007), George Ratliff


USA, 2007
Regia: George Ratliff
Cast: Jacob Kogan, Sam Rockwell, Vera Farmiga, Celia Weston, Dallas Roberts
Sceneggiatura: George Ratliff, David Gilbert


Trama (im)modesta – La famiglia Cairn non potrebbe essere più felice: sono ricchi e vivono in un lussuoso appartamento newyorchese, il loro figlio Joshua è un bambino prodigio con una passion per il pianoforte e la musica classica e un’altra bambina è in arrivo. Ma proprio quando la piccola Lily nasce, tutto comincia ad andare storto: i pianti si protraggono giorno e notte, si sentono continui rumori dall’appartamento di sopra, la moglie Abby sprofonda nella depressione e nella paranoia mentre suo marito Brad comincia a sospettare che qualcosa non vada. E mentre la sua famiglia cade sempre di più a pezzi, l’uomo capisce che dietro a ogni stranezza potrebbe esserci il piccolo Joshua.


La mia (im)modesta opinione – Un minicult, questo Joshua, e insieme una lezione di cinema che dimostra come basti uno script elegante, una pariglia d’attori convincenti e una regia esperta per confezionare un horror insieme elegantissimo e singolarmente spaventoso. E cosa più incredibile è che tutto il senso di storto e pauroso che ci viene dalla pellicola non deriva né da una particolare atmosfera né da situazioni spaventose e disturbanti: basta il compito sguardo di un bambino, l’ossessivo strillare di una neonata, una continua musica di pianoforte e uno scavo psicologico che raramente si vede, specie se effettuato, come qui, su un bambino disturbato.


Joshua è un idolo dell’horror, pare il figlio del Dottor Lecter, di Klaus von Bulow, di Damien Thorn e di Patrick Bateman messi insieme. Non lo vediamo far nulla, eppure sappiamo che sua è la regia di tutti gli eventi che portano alla rovina dei Cairn. Dietro il suo sguardo impettito e gelido, dietro la sua pretesa innocenza, Joshua è un cospiratore – ma, più d’ogni altra cosa, è un cospiratore ferito, che riesce a capovolgere il senso dell’intera pellicola sulle note dell’infantile nenia finale rivelando il movente dei suoi atti: non rancore, ma vendetta verso una famiglia (e, più in generale, una società) che è solo capace di esteriorizzare l’amore, condannando ogni escursione al di fuori di un seminato che rimane sempre ipotetico.


Ed è proprio questo il grande merito di Joshua: far vedere, tramite la cattiveria di un bambino, chi siano i veri cattivi. Certo, il capovolgimento della frittata è un affare forzoso, tanto più che è puramente concettuale, ma questo non impedisce di vedere in Joshua uno dei migliori thriller/horror degli ultimi anni, sobrio eppure stranamente terrificante, tutto permeato da un’atmosfera di malato e morboso che rimane invisibile ma ci fa percepire una tensione sempre costante verso la catastrofe imminente. Grandissime le interpretazioni di Vera Farmiga (una che per il ruolo di mamma di psicopatici ha l’amore) e Sam Rockwell, che si conferma uno degli attori più tragicamente sottovalutati della sua generazione. Meraviglioso è Jacob Kogan, giovanissimo psicopatico, che fa pensare a una brillante carriera nel futuro.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Incredibile cult moderno è ...e ora parliamo di Kevin (2011) di Lynne Ramsay insieme alla tragicommedia Pretty Persuasion (2005) di Marcos Siega. Per altri simpatici psicotici abbiamo Orphan (2009) di Jaume Collet-Serra, il mitico Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich, L'innocenza del diavolo (1993) di Joseph Ruben, il negletto The Omen (2996) di John Moore, il sempre fighissimo Il villaggio dei dannati (1960) di Wolf Rilla e Home Movie (2008) di Christopher Denham. Nutrito dagli stessi succhi di Joshua è il ben celebre Rosemary's Baby (1968) di Roman Polanski e il più perturbante La pianista (2001) di Michael Haneke.


Scena cult – La canzoncina finale, il pestaggio a Central Park e il “video di famiglia” di Joshua.

Canzone cultThe Fly di Dave Matthews, ma anche il terzo movimento della Sonata per Pianoforte No.12 di Beethoven.

martedì 16 aprile 2013

THE RAVEN (2012), James McTeigue


USA, 2012
Regia: James McTeigue
Cast: John Cusack, Luke Evans, Alice Eve, Brendan Gleeson, Kevin McNally
Sceneggiatura: Ben Livingston, Hannah Shakespeare


Trama (im)modesta – 1849. Edgar Allan Poe, ormai impoverito e solitario, vive di stenti ed è preda dell’alcolismo. Quando però la città viene scossa da due omicidi che ripercorrono le dinamiche del racconto I delitti della Rue Morgue, l’investigatore Fields decide di includere Poe nelle indagini, essendo lui l’autore di quel racconto. È così che Poe si ritrova invischiato fra le maglie di un piano diabolico di un assassino che lo vuole distruggere. Gli omicidi continuano, ma quando l’amata di Poe, Emily, viene rapita, per Poe le cose si faranno davvero scottanti.


La mia (im)modesta opinione – Sarò chiaro: io non parlerò di questo The Raven se non per stroncarlo. Ma non tutte le stroncature sono per forza crudeli e nemmeno verso film chiaramente invalidi come questo l’animosità di un fan deluso può essere così totale. Mi spiego meglio: Edgar Allan Poe è uno dei miei scrittori preferiti, uno dei più grandi d’America e del mondo, e sapevo bene che una rivisitazione in salsa detective-story della vita dell’autore poteva essere una baracconata su moltissimi livelli. Da un punto di vista più scontato, il film ha perso in partenza per via della trita ed eccessiva macchinosità degli omicidi, che già azzerano la sospensione dell’incredulità dello spettatore.


In secondo luogo, ho sempre provato una certa antipatia verso le trasformazioni degli autori in personaggi dato che il risultato è sempre stato approssimativo e inutilmente ruffiano. Questo è il caso di The Raven, che dipinge un Edgar Allan Poe politicamente corretto: a partire da John Cusack, chiaramente fuori dal physique du rôle per interpretare l’inquieto ed emaciato scrittore, fino ai drammi vissuti in prima persona da Poe eccessivamente ridotti e banalizzati tanto da farlo sembrare più un uomo con molti problemi che un affetto da depressione e instabilità al punto di tentare il suicidio solo un anno prima degli eventi che riguardano il film.


Ma nonostante tutto ciò, il film riesce a diventare un thriller gotico tanto insufficiente quanto piacevolmente superficiale grazie alla regia di un ottimo mestierante quale è James McTeigue (già direttore del sommo cult V per Vendetta), alla fosca fotografia e alle buone interpretazioni, The Raven riesce a cavarsela come godibile filmetto da serata tranquilla, come thriller estivo che offre generosi riferimenti letterari. Insomma The Raven è il classico film che è gradevole perché non è sgradevole. Un meccanismo alquanto infantile, certo, ma non per questo meno funzionante. Il verdetto? Negativo, ma più che condannare The Raven al patibolo, preferisce spedirlo all’ergastolo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Oltre all’odioso Shakespeare in Love (1998) di John Madden, la più riuscita rielaborazione di un mito vittoriano è lo Sherlock Holmes (2009) di Guy Ritchie; c’è poi il baraccone La leggenda del cacciatore di vampiri (2012) di Timur Bekmambetov che vede il presidente Lincoln massacrare le legioni della notte (e resta comunque un miglior biopic di quello di Spielberg). Edgar Allan Poe non è certo estraneo a versioni cinematografiche che lo dipingono alle prese con gli orrori che lui stesso ha partorito: dal Danza Macabra (1964) e Nella stretta morsa del ragno (1971) di Antonio Margheriti al Twixt (2012) di Francisc Ford Coppola.


Scena cult – La morte di Poe, che ricongiunge fortunosamente la finzione e la realtà storica.

Canzone cult – Non pervenuta.

lunedì 8 aprile 2013

INCEPTION (2010), Christopher Nolan


Regno Unito, USA, 2010
Regia: Christopher Nolan
Cast: Leonardo DiCaprio, Ellen Page, Joseph Gordon-Levitt, Marion Cotillard, Ken Watanabe, Cillian Murphy, Tom Hardy, Michael Caine
Sceneggiatura: Christopher Nolan


Trama (im)modesta – Dom Cobb è il migliore nel proprio campo: il furto di pensieri. Grazie a una modernissima tecnologia, infatti, lui e il suo team di ladri possono infiltrarsi nei sogni di un soggetto e rubargli preziosissime informazioni. Questo tipo di estremo spionaggio non è certo esente da pericoli: il rischio di sprofondare nella follia è grande e lo stesso Cobb ha visto la sua amatissima moglie morire per questo. Fra l’altro, accusato dell’omicidio, il ladro di sogni è braccato dalla polizia internazionale e non può tornare in patria, gli Stati Uniti, e rivedere i propri figli. Ma un giorno un potentissimo industriale giapponese, Saito, gli offre un’opportunità: Cobb potrà tornare in patria e avrà la fedina pulita se riuscirà a entrare nella mente di un ricco ereditiere e innestargli l’idea di frammentare l’impero del padre. La missione si rivelerà pericolosissima e piena di insidie, minacciata com’è dal fantasma della moglie di Cobb: Mal.


La mia (im)modesta opinione – Più che una recensione, questa è una celebrazione. Inception è un film che io stesso ho visto più volte di quante ne possa effettivamente contare, e lo considero come la quintessenza non solo del cinema di Nolan (regista che seguo con passione fin da Memento) ma anche il vero, grande classico epocale degli anni zero che verrà ricordato in tutte le generazioni a venire. Si direbbe un thriller di fantascienza o, piuttosto, di pseudoscienza, ma non lo è del tutto: Inception è una mescolanza tanto pazzesca di azione, dramma, psicologia in-sé-e-per-sé e disquisizione metafisica che classificarlo sarebbe difficile, se non impossibile. E, per di più, è un film che è il massimo su ogni livello: sceneggiatura, regia, recitazione, musiche, ambientazioni, effetti speciali. Non c’è nemmeno un punto debole in tutta il complicato labirinto in cui Nolan ci fa perdere e in cui egli stesso si perde con piacere.


Partiamo dal principale merito del film: lo script. Nolan ci aveva già dimostrato le sue capacità di acrobata narrativo con quell’altro sommo capolavoro che fu The Prestige. Qui, il regista inglese porta ancora più avanti il lavoro: se in The Prestige si sovrapponevano e incontravano tre diversi piani temporali e, sul finale, se ne tiravano magistralmente le fila, in Inception i piani diventano addirittura cinque in una pazzesca architettura drammaturgica che separa per poi riallineare ogni cosa con l’aggiunto barocchismo del finale ad anello, magistralmente caudato con uno stupendo cliffhanger. Siamo insomma davanti alla trama delle trame, un intrigo mai eguagliato tranne forse con l’eccezione del capolavoro di Guy Ritchie, Revolver, che però peccava di ultracomplicazione laddove Inception riesce a essere sempre terso e cristallino e, in ogni momento, sempre chiaramente comprensibile.


Perché non solo la trama di fondo, già complicata, regge con somma grazia: c’è in mezzo anche l’approfondimento del dramma umano di Cobb e la manipolazione infraonirica messa in atto sulla mente dell’ereditiere Fischer. Un grado di studio sull’animo umano eguagliato al cinema solo dal predetto Revolver e da pochi altri film come Le Relazioni Pericolose di Frears o La donna che visse due volte di Hitchcock. Il complesso tranello in cui viene fatto cadere Fischer, la questione dell’inconscio che si esplica tramite immagini e simboli, il problema della “creazione pura” che sta alla base dell’imbastimento di sogni credibili, il labirinto... tutto in questo film ci fa rimettere in discussione qualunque cosa, ci fa entrare nelle profondità dell’animo non tramite visioni oniriche o gesta di singoli individui ma infilandoci, con folle e lucidissima razionalità, dentro una scatola cinese di sogni nel sogno.


Gli attori sono l’altro highlight del film: partendo da un Leonardo Di Caprio che, personalmente, io farei santo per acclamazione popolare (è incredibile come un solo attore si sia trovato a prendere parte non solo in alcuni dei miei film preferiti di sempre, ma anche in film di registi che hanno segnato il cinema moderno) e passando per Joseph Gordon-Levitt, modestamente il mio attore preferito, ed Ellen Page, per finire con Cillian Murphy (lui è il secondo preferito), le turgidissime labbra di Tom Hardy e Nostra Signora di Francia, Marion Cotillard che in Inception è alle vette di sensualità e follia, incarnazione pura della colpa, vittima condannata e boia insieme, sirena o fantasma: non ci è dato sapere nulla tranne che, con una pistola fra le mani o fasciata in un abito da sera, la nostra regina di Parigi fa solo un’immane strage di cuori. Ciliegine sulla torta sono poi i due stilosissimi Michael Caine, in pratica il San Paolo del cinema inglese, e il supercult vivente Ken Watanabe.


Sul versante artistico, poi, non c’è quartiere per nessuno: fotografia che pare scesa dal cielo, con passaggi da metropoli arabe a dorati castelli orientali, passando per gli algori delle Alpi e le sofisticate atmosfere di un albergo di lusso. Montaggio iperchirurgico, musiche trionfanti e delicate che fanno schizzare il nostro cuore dritto in gola. Non c’è dubbio alcuno: con Inception, Nolan ha dimostrato dove possa arrivare il cinema negli anni 2.0, a che vette la nostra strumentazione ci possa fare giungere sempre, beninteso, sulle ali di immaginazione e talento. E Nolan ne ha assolutamente da vendere. Inception, dunque, è il film che ha chiuso il passato decennio e ha aperto il nuovo, dimostrandosi la vera pietra di paragone per tutta la fantascienza cinema a seguire: non c’è spazio per epigoni o imitatori, i cult epocali ora devono essere tutti così.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente consigliamo tutta la produzione nolaniana, dalla discontinua trilogia di Batman il cui episodio più notevole è certamente il centrale Il Cavaliere Oscuro (2008) fino ai film di minor fama: Following (1998), Memento (2000) e il sommo The Prestige (2006). Consigliamo ancora il sopradetto Revolver (2005) di Guy Ritchie e poi i capolavori della fantascienza visionaria 2001: Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick, Matrix (1999) di Lana e Andy Wachowski,  Donnie Darko (2001) di Richard Kelly, Paprika - Sognando un sogno (2006) di Satoshi Kon e il sempre fighissimo The Cell (2000) del grande Tarsem Singh.


Scena cult – Fra le moltissime, la più visivamente intrigante è la lotta a gravità zero nell’albergo che ruota.

Canzone cult – L’intera colonna sonora che, se avete pazienza, troverete qui

mercoledì 3 aprile 2013

CITADEL (2012), Ciaran Foy


Irlanda, 2012
Regia: Ciaran Foy
Cast: Aneurin Barnard, James Cosmo, Wunmi Musaku, Jake Wilson, Amy Shiels
Sceneggiatura: Ciaran Foy


Trama (im)modesta – Tommy è un ragazzo padre che ha visto la propria moglie aggredita e uccisa da un gruppo di misteriose creature basse. La consapevolezza che adesso i mostri sono alla ricerca di sua figlia, la piccola Elsa, lo distrugge: Tommy soffre infatti di una devastante forma di agorafobia, è terrorizzato dagli spazi aperti, dal muoversi fuori di casa, dal separarsi da sua figlia. Sarà un prete che gli spiegherà che quei mostri sono bambini infetti da un male misterioso, che rapiscono bambini per trasformarli in creature come loro – creature che non hanno altro senso oltre a quello che gli permette di vedere la paura delle persone come un serpente vedrebbe il calore. E quando i mostri prenderanno Elsa, Tommy sarà costretto ad affrontare le proprie paure e, aiutato dal prete e da Danny, bambino salvatosi dall’infezione, a distruggere le malvage creature.


La mia (im)modesta opinione – Come al solito, il genere horror si dimostra il più capace, nella sua duttilità, ad affrontare ogni sorta di tematica psicologica e a ottenere, con il minimo impiego di risorse, il massimo del risultato. Con una sceneggiatura a prova di bomba e una manciata di talentuosissimi attori, il regista irlandese Ciaran Foy confeziona uno degli horror più raggelanti dell’anno passato. A riprova del fatto che se sia ha talento non ci sono restrizioni economiche che tengano: girato interamente con una telecamera a mano di rarissima inquietantezza, ambientato nei veri sobborghi malfamati dell’Irlanda, Citadel è un film non solo scritto, diretto e recitato con eccelsa bravura ma anche una potente riflessione sull’io e su come la paura sia solo ostacolo a se stessa e unica fonte di qualsiasi pericolo.


Emblematico, prima di tutto, appare il fatto che le mostruose creature possano percepire la paura intorno a sé. Sono insomma la quintessenza dei mostri del cinema horror. Il protagonista s’incastra dunque alla perfezione con la storia data la sua disarmante agorafobia, di cui sia la regia di Foy sia il talento recitativo del giovanissimo Aneurin Barnard, un nome di certo inusuale, ma che di sicuro non si fa dimenticare facilmente. Grandissima recitazione, quindi, ma anche profonda conoscenza dei linguaggi e dei meccanismi dell’orrore: i dettagli delle siringhe conficcate nei sedili del bus, i sottopassaggi deserti, la desolazione dei caseggiati popolari, la rovina e la povertà ci entrano sotto la pelle e Foy ci fa sentire davvero intrappoalati dentro al film.


Ma come ogni film dell’orrore nemmeno qui mancano le scene di paura, una paura tale che farebbe arrossire tutti i produttori di cosiddetti horror americani. La sola scena dell’autobus vale da sola The Ring e The Grudge e notevolissimi sono tutti gli altri esempi di cui è disseminato il film. E nemmeno si può dire che lo spavento sia il classico trucchetto della violenza esagerata o del rumore dopo il silenzio: qui la paura viene dalle porte che sbattono, dalle figure incappucciate delle creature, da una porta dell’ascensore irrimediabilmente chiusa che impedisce un marito di salvare la propria moglie incinta. Foy sa perfettamente come farci saltare dalla sedia e lo fa con una finezza e una sapienza tali da far pensare al nuovo genio dell’horror: altro che Guillermo del Toro!


Se ti è piaciuto guarda anche... – Se Citadel è l’unico lungometraggio finora prodotto da Ciaran Foy, il mondo del cinema pullula di validissimi horror indipendenti: oltre ai validi ma poco tesi The Innkeepers (2011) e The House of the Devil (2009) dell’enfant prodige Ti West, abbiamo lo spettacolare Deadgirl (2008) di Marcel Sarmiento e Gadi Harel, V/H/S (2012) di Matt Bettinelli-Olpin e David Bruckner, il funambolico La casa dei 1000 corpi (2003) di Rob Zombie e i due superclassici dello splatter indipendente, ossia The Loved Ones (2009) di Sean Byrne e À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo, Julien Maury. Se volessimo concentrarci sul filone dei bambini inquietanti, avremmo le perle vintage Il giglio nero (1956) di Mervyn LeRoy, Il villaggio dei dannati (1960) di Wolf Rilla, Quella strana ragazza che abita in fondo al viale (1976) di Nicholas Gessner con protagonista un’inquietante Jodie Foster e la gemma moderna, ossia il superbo Joshua (2007) di George Ratliff.


Scena cult – La scena dell’autobus. Vero culmine della tensione della storia, puro momento di paura. Imperdibile.

Canzone cult – Non pervenuta.

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