mercoledì 28 agosto 2013

LE BELVE (2012), Oliver Stone


USA, 2012
Regia: Oliver Stone
Cast: Taylor Kitsch, Blake Lively, Aaron Taylor-Johnson, Benicio del Toro, Salma Hayek, John Travolta, Emile Hirsch
Sceneggiatura: Shane Salerno, Don Winslow, Oliver Stone


Trama (im)modesta – Chon e Ben, ex-militare l’uno e botanico l’altro, condividono tutto nella vita: una lussuosa villa a Laguna Beach, un’attività lavorativa ad alto tasso di remunerazione (ossia lo spaccio della marijuana migliore dell’intera California) e, soprattutto, l’amore per la bella Ophelia. Si dà il caso, però, che il feroce cartello di Baja, guidato dalla madrina Elena “La Reina” Sánchez, voglia a tutti i costi fare affari con loro. E quando la banda del trafficante Lado rapisce Ophelia, minacciandola di morte, i ragazzi saranno costretti a reagire. Inizierà una complessa e sanguinaria partita a scacchi fra la superpotenza del cartello e la banda di Chon e Ben, che si concluderà con non si sa quale esito, date le imponenti forze spiegate sul campo.


La mia (im)modesta opinione Le Belve è goduria cinematografica allo stato puro. No, non parlo in termini di film d’arte, ma in termini d’intrattenimento. Grandissimi attori, sceneggiatura esatta e implacabile (con la sola pecca del finale “a doppio fondo” che gioca un brutto scherzo ai sentimenti degli spettatori), regia schizofrenica e ipersatura: tutto nel film di Stone riporta al grande cinema d’intrattenimento, quello che riesce a entusiasmare e rapire totalmente senza però nulla togliere all’apparato cinematografico e artistico. Unico grande, gigantesco rimprovero: non tutti lo sanno ma aveva una minuscola parte nel film la somma Uma Thurman, nella parte della madre di Blake Lively. Il suo ruolo è stato miseramente tagliato in sede di montaggio, peccato, avremmo voluto vederla.


Iniziamo dalla sceneggiatura. Macroscopicamente la storia è insieme geniale, ipercool e perfettamente bilanciata fra intricatezza e comprensibilità da lasciare aperta la porta ai migliori colpi di scena (come, in effetti succede). Episodi e scene d’azione sono quasi tutti memorabili, insieme a certe battute fulminanti e incredibilmente aderenti alle immagini che scorrono sullo schermo. Cosa che colpisce di più, però, è la perfetta capacità dello script (non a caso co-scritto dallo stesso autore del libro) di rendere l’umanità dei personaggi nel giro di pochissime battute. Abbiamo dunque l’acciaio freddo e riottoso che Chon si porta dentro dalla guerra, la tenerezza di Ben, la profonda tristezza di Ophelia ed Elena, l’evidente psicopatia di Lado. Anche la figlia di Elena, Magda, viene inquadrata perfettamente sebbene non abbia più di un paio di battute e appaia in scena giusto per dieci scarsissimi minuti.


Gli attori, poi. Una bomba sexy dietro l’altra (presente o irrimediabilmente passata): abbiamo Taylor Kitsch, insospettabilmente bravo sotto tutti quei muscoli e tatuaggi; il “più-figo-di-così-non-si-può” Aaron Taylor-Johnson, una Blake Lively inedita per bravura e sconvolgente per bellezza; la rediviva Salma Hayek, che non ha perso l’attitudine graffiante, insieme a Benicio del Toro, attore sempre sublime e qui alle prese con ruolo non poco scomodo, e a John Travolta, a cui tutti vogliamo bene, dopo tutto. Fanalino di coda per il bravo Emile Hirsch, relegato qui a una parte accessoria e strizzata dentro una tutina da ciclista.


La regia di Stone schizza a quattrocento all’ora come un treno impazzito. Il regista più scomodo di sempre per l’establishment U.S.A. torna agli eccessi di Assassini Nati, critica indirettamente ipocrisie e prepotenze delle istituzioni americane e mette in scena un larvato conflitto generazionale fra la banda dei “vecchi”, ossia Elena “La Reina”, il poliziotto corrotto di John Travolta e Lado, e quella dei giovani protagonisti. Ma condanna gli uni e gli altri: i vecchi sono boriosi e crudeli, pretendono di dettar legge dovunque vadano, cercano di coprire la loro debolezza con la iattanza; i giovani sono scostumati e infantili, coltivano relazioni disfunzionali, fanno la bella vita o dopo aver visto l’orrore in faccia (come l’ex-soldato Chon) o cercando d’alleviare il senso di vuoto con opere di bene dallo spirito vagamente hippie (vedi il Ben di Aaron Taylor-Johnson). Il film si conclude, per altro, con una di queste fughe infantili, lontano dal mondo, in un paradiso tropicale condito da droghe ricreative, sesso e scarsa preoccupazione del domani.


Stilisticamente il film è una girandola di colori sgargianti, scenari da cartolina, claustrofobie di cantine dove si consumano i peggiori massacri, stucchevoli bianchi e neri. Tutto punta a un’esasperazione stilistica e cromatica che è puro riverbero esteriore d’un vuoto interiore – un vuoto di morale e valori, valori recuperati poi attraverso l’amore non convenzionale, l’amicizia, l’escapismo verso luoghi dove la responsabilità della vita adulta possa rimanere lontana. Ma il facile edonismo che nel film ci viene mostrato, il lusso sfrontato ci fanno sognare perché quello è il nostro sogno: una vita adrenalinica e bellissima, dove tutto può finire sempre bene e vivere nella velata illegalità diventa pienamente accettabile. Questi miei ragionamenti sono accessori e collaterali, si badi bene, il messaggio del film in realtà non esiste, è una storia speciale proprio perché nella sua architettura prodigiosa e nei suoi stupendi dettagli rimane sempre e comunque fine a se stessa.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Oltre, ovviamente, al ben più acido Assassini Nati (1994) di Oliver Stone, suggeriamo caldamente Una vita al massimo (1993) di Tony Scott e le due serie tv Weeds (2005-2012) creata da Jenji Kohan e il capolavoro televisivo Breaking Bad (2008-2013) creata dal sommo maestro Vince Gilligan. L’accoppiata “giovani e droga” torna nel massimo capolavoro Requiem for a Dream (2000) di Darren Aronofsky mentre è attesissimo il The Counselor (2013) di Ridley Scott. Abbiamo poi il Non è un paese per vecchi (2007) di Joel ed Ethan Coen. Finiamo in bellezza con Machete (2010) e Machete Kills (2013) di Robert Rodriguez.
  

Scena cult – Lo showdown finale in mezzo al deserto, la tortura con le fruste e quasi tutte le scene con Benicio del Toro, idolesco qui come non mai.

Canzone cult – La fricchettona Legalize It di Peter Tosh, l’esotica Mandala dei Thievery Corporation e Psycho Killer di Bruce Lash, in una cover d’inedita torridezza.

domenica 25 agosto 2013

LA NOTTE DEL GIUDIZIO (2013), James DeMonaco


USA, 2013
Regia: James DeMonaco
Cast: Ethan Hawke, Lena Headey, Rhys Wakefield, Edwin Hodge, Max Burkholder
Sceneggiatura: James DeMonaco


Trama (im)modesta – Stati Uniti, 2022 A.D. La criminalità è scomparsa, la disoccupazione non esiste, l’ordine è mantenuto. I Nuovi Padri Fondatori sono riusciti a salvare le sorti di un paese in rovina con lo Sfogo Annuale: una notte in cui, dalle sette di sera alle sette del mattino, ogni crimine diventa legale e ospedali, polizia e vigili del fuoco staccano i telefoni. James Sandin si è arricchito a dismisura vendendo sistemi di sicurezza proprio per coloro che scelgono di non uscire armati per la strada a massacrare indigenti, minoranze etniche o semplici passanti. Le alte cariche dello stato, naturalmente, sono esenti dallo Sfogo né le si può impunemente uccidere. Tutto sembra andare per il meglio quando Charlie, figlio di James, disattiva le difese della casa per far entrare un estraneo inseguito da un gruppo di “bravi ragazzi” mascherati che lo vogliono fare a pezzi. Quando i ragazzi busseranno alla porta minacciando di morte e altre atrocità i Sandin  se non avranno indietro la loro vittima, la notte diventerà un vero incubo.


La mia (im)modesta opinioneLa Notte del Giudizio (o The Purge che dir si voglia) riesce, senza essere un film speciale, a essere un film geniale, acidissimo verso la cultura americana e la natura umana, divertente a suo modo nel riuscire a prendere gli stilemi dell’home invasion movie e rielaborarli per narrare qualcosa di più profondo sulla natura umana, più o meno inconsapevolmente assetata di sangue, gonfia d’invidia, capace di ogni male al solo concedersi d’un’occasione. Certo, va detto, l’andamento del film è alquanto schematico e i temi praticamente si approfondiscono da soli, senza che il regista/autore DeMonaco si sforzi troppo di variegare psicologie e situazioni.


Certo fa un certo effetto vedere, considerati i tempi, una classe abbiente che pare uscita fuori da una pubblicità di detersivi (bianca, bionda, sorridente) girovagare per le strade e massacrare poveri e minoranze etniche. La dice lunghissima, questo film, sui metodi che moltissimi, esasperati dai troppi maneggi della politica, dichiarano di voler usare contro quelle falde di società che costituiscono un disturbo. In prima persona potrei portare l’esempio dell’insofferenza che, nel Sud in cui sono nato, si prova verso esodati ed extracomunitari, di come si fantastica di sparare contro i barconi o di confinare i sediziosi da qualche parte dove non possano arrecare disturbo. Ebbene, che succederebbe se queste fantasie potessero diventare realtà?


I killer di The Purge sono ragazzi vestiti secondo in gusto della upper class, quella che manda i figli a Princeton o Yale, quella che abita i caseggiati altoborghesi dove non si può entrare senza invito, quella che evade le tasse, sostiene la guerra, lucra sui morti. La stessa upper class a cui non importa di cambiare il proprio paese, anzi vuole mantenere quello status quo forse ingiusto ma che gli ha permesso di ingrossare di tanto il proprio conto in banca. E gli stessi protagonisti del film, sebbene siano obiettori di coscienza (se così li si può dire), sostengono fermamente lo Sfogo Annuale, lo considerano la base di ferocia su cui costruire sempre più grandi imperi. Ma esagerano nel buonismo, e questo lo si vede alla fine del film, quando vengono minacciati dai falsi amici che di loro sono invidiosi.


Perfido è poi, non tanto il finale, ma il pre-finale. Vediamo, dopo il vario grand-guignol della nottata, l’uomo da cui tutto è cominciato e grazie a cui tutti si sono salvati mandato via con un sospirato “grazie”, senza altre manifestazioni di affetto e gratitudine. La società è salva ancora una volta: la distanza sociale è mantenuta, la gerarchia resiste ancora e per sempre. Eppure gli stessi protagonisti del film non fanno parte di quella gerarchia: sono gli arrivati, quelli venuti dal nulla che hanno accumulato il loro mucchio di ricchezza ed è sospeso fra le spinte opposte dell’uniformazione a una classe senza valori ma che è la più alta e la rispettosa distanza, che però isola quanto riaggiusta prospettive e approcci specialmente nei rapporti umani.


La violenza, poi, valore sempre più imborghesitosi e penetrato a tutti i livelli nella nostra società trova perfetta espressione nel viso sbilenco e stranamente bellissimo di Rhys Wakefield, assassino senza nome, sorridente biondo ragazzo assetato di stragi e vendetta. Uno che non sopporta la scortesia (spara a un suo amico a sangue freddo solo per delle parole troppo brusche) ma non ha problemi a intraprendere un tentativo di stupro o a mettere sottosopra una casa, per il solo gusto di farlo. L’occasione fa l’uomo ladro, dicono, e in The Purge lo fa anche assassino. Fino a dove si spingerebbe una nazione nell’indottrinamento, nel plagio psicologico, nella coercizione per ottenere l’1% di disoccupazione e la scomparsa totale di crimini violenti per 364 giorni l’anno?


Il film di De Monaco è scolastico nelle riprese ma sapido, denso ma non molto originale. Una formidabile opera prima, non certo un capolavoro, ma un thriller insieme distopico, pieno di suspance e situazioni delle più interessanti. Tutto grazie agli ottimi attori protagonisti: in testa a tutti sta il già citato Rhys Wakefield, col suo psicotico sorriso; poi Ethan Hawke, bravissimo anche lui (sebbene non la sceneggiatura si sforzi troppo di caratterizzarlo, certo) mentre appare più intensa nel suo sofferto pacifismo la Mary Sandin di Lena Headey, che però replica lo stesso repertorio espressivo di cui ci ha già fatto bella mostra in Game of Thrones.


La Notte del Giudizio, in sostanza, è uno dei film dell’estate, un minuscolo cult del genere home invasion, una distopia W.A.S.P. che sarà certo stata scomoda alla classe abbiente americana, dipinta da DeMonaco come crudelissima e violenta verso i più poveri, disposta a inondare di sangue le strade della propria città e a chiamare diritto l’eccidio. Non mi sento però di giudicare troppo severamente il suo attaccamento alle strutture più usate del thriller che, in questo e in molti altri casi, funzionano egregiamente, senza certo poi creare quella grandissima tensione che altri film del genere sanno creare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente citiamo Panic Room (2002) di David Fincher, lo sconvolgente horror francese À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury e il sommo classico Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah. Abbiamo poi il Funny Games U.S. (2007) di Michael Haneke, il piccolo gioiello Mother's Day (2010) di Darren Lynn Bousman, l’inquietantissimo Bed Time (2011) di Jaume Balagueró e il sulfureo You're Next (2011) di Adam Wingard.


Scena cult – La “tavolata” finale con sfondamento craniale all’urlo di «No more killings!»

Canzone cult – Non pervenuta.

mercoledì 21 agosto 2013

UOMINI DI PAROLA – Stand Up Guys (2012), Fisher Stevens


























USA, 2012
Regia: Fisher Stevens
Cast: Al Pacino, Christopher Walken, Alan Arkin, Mark Margolis, Addison Timlin, Vanessa Ferlito, Lucy Punch
Sceneggiatura: Noah Haidle


Trama (im)modesta – Val, dopo ventotto anni, esce di prigione. Ad accoglierlo, all’uscita, sta l’antico amico e complice di malefatte Doc. I due si apprestano a festeggiare la libertà di Val, ma quest’ultimo non sa che un perfido gangster ha ordinato, pena la vita, al suo amico Doc di ucciderlo entro le dieci del giorno successivo. Rimandando di continuo l’assassinio, Doc segue Val nelle sue peregrinazioni fra bordelli, locali lussuosi e case di risposo. E proprio in una casa di riposo i due recuperano Richard, terzo componente dell’allegra brigata. Così i tre passeranno la nottata fra vendette ai danni di stupratori cocainomani, prostitute esteuropee, farmacie rapinate e problemi di natura medica, mentre le famose dieci del mattino si fanno sempre più prossime.


La mia (im)modesta opinione – Spenderò poche parole su Stand Up Guys, perché il film è di quelli che si commenta da solo. Fa sicuramente piacere vedere tre grandi tirannosauri (diciamo pure due dato che Alan Arkin appare per giusto una decina di minuti) del cinema mondiale riuniti insieme per una divertente commedia criminale sui tempi che furono; e il film concede parecchi momenti divertenti. Purtroppo però c’è come la sensazione, per tutta la pellicola, che una reunion di tre così grandi attori vada alquanto sprecata per colpa di una sceneggiatura che riesce brillante in certi punti, ma insipida in altri.


Mi spiego meglio: vedere i vecchi manigoldi rapinare una farmacia per rubare, oltre al necessario viagra, farmaci per ipertensione e artrite è divertente, quasi quanto è divertente vedere Al Pacino gigioneggiare come se non ci fosse un domani, sniffando pillole polverizzate con una cannuccia. Ma proprio questa gigioneria è tanto gonfiata da rasentare il ridicolo – un ridicolo stancuccio e frusto, con un vago sentore di squallido. La ruffianeria, come al solito, è dietro l’angolo, ma non per questo il film ha lo stesso bieco sapore d’operazione commerciale che ebbe l’atrocissimo Sfida senza regole. Ovviamente il nostro Pacino (sommo attore di culto, ricordiamolo sempre) ha imbroccato un paio di strade sbagliate (vedi Jack e Jill) ma questo in una filmografia sterminata come la sua può essere perdonato, né Stand Up Guys risulta un film orrendo, anzi.


Il problema è che l’autocompiacimento abbonda, forse un po’ troppo. E non certo dagli attori (il mio preferito rimarrà sempre Walken, che però pare il più a disagio di tutti) che anzi forniscono delle macchiette fantastiche, specialmente la spettacolare maitresse Wendy, interpretata da una Lucy Punch frizzantissima; il vero problema è dello script, divertente ma, alla fin fine, poco intelligente, troppo indulgente con se stesso, troppo frivolo e passeggero. Errore perdonabile a uno sceneggiatore esordiente come Noah Haidle che rimescola temi e situazioni tipici degli exploitaition movie anni ’70, inclusa una sottotrama da rape-and-revenge che vede protagonista la ninfa tarantiniana Vanessa Ferlito, protagonista di una mirabile lap dance in Death Proof.


Il sapore della pellicola, in definitiva, è quello di un prodotto divertente ma puramente consumistico, che mira più a far presa sul gran pubblico con espedienti triti piuttosto che costruire da solo il proprio mito. Ma né il film andrebbe preso troppo sul serio né questa ruffianeria porta sempre a esiti insopportabili. Licenziamo, dunque, Stand Up Guys con un sorriso e una pacca sulla spalla, ringraziandolo per l’ora e mezza di divertimento leggero ma totalmente godibile che ci ha offerto, nonostante non sia riuscito ad appagare i palati di chi di cinema ne ha visto anche un poco di più dello spettatore medio.


Se ti è piaciuto guarda anche... – La somma commedia criminale è, per me, il The Ladykillers (2004) di Joel e Ethan Coen insieme al divertentissimo Ocean’s Eleven (2001) di Steven Soderbergh e all’accoppiata Lock & Stock – Pazzi scatenati (1998) e Snatch (2000) di Guy Ritchie. Brillanti ma imperfetti sono poi In Bruges (2008) e 7 Psicopatici (2012) di Martin McDonagh insieme al sempre divertente Get Shorty (1995) di Barry Sonnenfeld.


Scena cult – Al Pacino che sniffa pillole al bar, Alan Arkin al bordello, la sparatoria nel negozio di vestiti.

Canzone cult – In una colonna sonora non meno ruffiana del film stesso, troviamo la Not Running Anymore firmata per il film dai Jon Bon Jovi e la finale Bright Lights di Gary Clark Jr.

giovedì 15 agosto 2013

SINISTER (2012), Scott Derrickson


USA, 2012
Regia: Scott Derrickson
Cast: Ethan Hawke, , Juliet Rylance, Fred Dalton Thompson, James Ransone, Clare Foley
Sceneggiatura: Scott Derrickson, C. Robert Cargill


Trama (im)modesta – Ellison Oswalt è uno scrittore in declino. Il suo ultimo best-seller sui sanguinosi fatti di una famiglia del Kentucky si allontana di anno in anno, le bollette da pagare si accumulano, la famiglia lo stringe da un lato, la consumante vanità dall’altro. Senza dirlo alla moglie, Ellison fa trasferire la famiglia in una spaziosa casa dove, anni prima, un’intera famiglia (meno la figlia minore, scomparsa) era stata trovata impiccata all’albero del giardino. In soffitta, Ellison trova misteriose pellicole in Super 8. Filmini di famiglia che si concludono in sanguinosi omicidi. Chi è l’assassino? Ma Ellison, ispirazione artistica o rifiuto della decadenza che sia, decide di rischiare tutto, anche la sanità mentale, per scrivere il suo libro.


La mia (im)modesta opinione – Quando riuscirete a vedere un horror davvero rivoluzionario, fatemi uno squillo. Per ora ci si accontenti di Sinister, film partorito dalla mente di quello stesso Derrickson che, anni fa, aveva firmato il buono ma incompleto The Exorcism of Emily Rose. Come nel primo film, così in Sinister, pregi e difetti sono i medesimi. Buona conoscenza dei meccanismi basici dell’orrore al cinema, stile registico saldo e risoluto, grande fertilità di spunti (usati spesso solo a metà) ma un certo grigiore che non fa davvero apprezzare la vicenda come si dovrebbe. Del resto Sinister è un buon horror, non un assoluto colpo di genio né una chicca troppo imperdibile, sebbene caldamente consigliata.


Non mancano i classici colpi bassi e i trucchetti frusti: accelerate di violini spaventosi e rumori sinistri si sprecano. Ma il film diventa davvero spettacolare quando il piccolo proiettore s’accende e ci vediamo davanti gli “omicidi in diretta” registrati sulla pellicola Super 8. E diventa qui interessante lo spunto sul rapporto fra cinema e spettatore, fra immagine che veicola violenza e mente suggestionabile che la porta a segno nella realtà, fra trasmigrazione realtà/finzione e persecuzione. Come nel notevolissimo Insidious, la possessione spettrale non riguarda un edificio ma un gruppo di persone. Il male viene dagli insospettabili, dagli ignorati, da chi altrimenti non saprebbe difendersi.


I risvolti della storia, però, scivolano vagamente nel kitsch. Una maggiore sobrietà d’immaginazione sarebbe stata gradita. Ma, per nostra fortuna, non si scade mai nella baracconata vera e propria. Il protagonista del film, un Ethan Hawke che gli anni hanno reso migliore e profondo, è un personaggio davvero interessante con quel suo bisogno di sacrificare tutto alla propria arte e al proprio ego, in perenne ricerca del fantasma del successo passato. Ma a lui ci si affeziona, dopo tutto, e questo non fa che migliorare il nostro coinvolgimento nel film. Quanto al reparto artistico, nulla da dire. Con più lode che infamia, ma non per questo meno anonimo, sebbene alquanto elegante. Ottimo horror estivo, in conclusione, se amate le storie di fantasmi ben fatte e i brividi facili.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Chiaramente consigliamo The Exorcism of Emily Rose (2005) di Scott Derrickson, l’Insidious (2010) di James Wan, il buono ma ben più facile The Poughkeepsie Tapes (2007) di John Erick Dowdle e l’ottimo horror estivo The Skeleton Key (2005) di Iain Softley. Sul versante dell'horror asiatico, che non possiamo semplicemente ignorare, abbiamo il Two Sisters (2003) di Kim Jee-Woon, Shutter (2004) di Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom e Kairo (2001) di Kiyoshi Kurosawa.
  

Scena cult – I filmati in Super 8. Inquietanti come poche cose al mondo.

Canzone cult – Non pervenuta.

martedì 13 agosto 2013

IDENTITÀ (2003), James Mangold


USA, 2003
Regia: James Mangold
Cast: John Cusack, Ray Liotta, Amanda Peet, John Hawkes, Alfred Molina, Clea DuVall, John C. McGinley
Sceneggiatura: Michael Cooney


Trama (im)modesta - «Era una notte buia e tempestosa». Un ex-poliziotto e un’attrice famosa, una prostituta, una famigliola, una coppia di novelli sposi, un agente di polizia e un pericoloso assassino: tutti si ritrovano, legati per le solite complicanze del fato, bloccati da un tremendo nubifragio in uno scalcinato motel dove incontrano il proprietario, Larry. Undici perfetti estranei che, sotto la pioggia incessante e tagliati fuori dalla società, cominciano a morire uno dopo l’altro, misteriosamente. Da un’altra parte uno psicologo cerca di salvare dall’esecuzione capitale Malcom Rivers, assassino con disturbi mentali che proprio in un motel ha compiuto un’efferata strage...


La mia (im)modesta opinione – Di thriller così se ne trovano ormai pochi. Certo, andrebbe detto che il coup de théâtre che tira magistralmente le fila di tutta la storia e che ha fatto passare Identità negli annali dei grandi film disgraziatamente dimenticati facilita di troppo il lavoro agli sceneggiatori. Ma questo certo non toglie troppo a una pellicola che è insieme così tante cose che, alla fin fine, è soltanto se stessa. Interessante di sicuro è la dimensione metanarrativa in cui la storia si colloca, a voler fare gli intellettualoidi. Ma questo a noi non interessa. Identità è uno di quei thriller che bisogna aver visto in vita propria. Si dovesse giudicare frusto lo stratagemma finale dello script, si ricordi che il film ha un’età considerevole: dieci anni sono passati da quei novanta milioni di dollari incassati a partire da un budget di soli ventotto milioni.


Il regista, James Mangold, non è chissà che artista speciale. Sa ben ambientare la storia: il labirintico motel, il deserto buio e battuto dalla pioggia, la cupezza degli interni. Tutto, in Identità, fa pensare a una sorta di romanzo gotico moderno – dove gotico, attenzione, si riferisce alla saldatura fra dimensione narrativa, psicologica e d’ambienti. Gli stereotipi sono tutti saccheggiati, poi rimasticati. Mescola e cita: Psycho, Shining, Seven, Dieci Piccoli Indiani... Il film non presenta chissà quale caratterizzazione dei personaggi, ma un cast perfettamente indovinato (in testa il sommo John Cusack e, dietro di lui, un Ray Liotta che più dark non si può), uno sviluppo coerente e intrigante della storia, con i segreti che pian piano vengono a galla, fanno della pellicola di Mangold una assoluta chicca del genere.


Il film, inoltre, sa essere assai inquietante. Il leitmotiv della poesia infantile, l’omicidio della mazza da baseball, la scena della lavatrice: tutti momenti strappati all’horror psicologico che s’inseriscono alla perfezione nel mosaico un po’ adultero della pellicola. Interessante, poi, l’inquietante finale: il Male torna sempre indietro a uccidere i nostri sogni e sa essere tanto astuto da distruggere tutto ciò di buono e luminoso c’è in noi. Si segnalano poi nella pellicola i ruoli dell’indimenticata ma latitante Amanda Peet e del mitico John C. McGinley, mattatore assoluto della serie Scrubs nei panni del tagliente Dr. Cox. Non resta, però, che rammaricarsi per il regista: Identità poteva essere un grandissimo trampolino di lancio, ma per lui è stato solo un debito mai davvero saldato.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Iniziamo dai numi tutelari: Dieci piccoli indiani (1945) di René Clair, Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, The Others (2001) di Alejandro Amenàbar, I soliti sospetti (1995) di Bryan Singer e il Seven (1995) di David Fincher. Chiaro debitore di Identità, poi, è lo Shutter Island (2010) di Martin Scorsese insieme a Inception (2010) di Christopher Nolan. Segnaliamo poi il classico sempreverde Schegge di paura (1996) di Gregory Holbit e Fight Club (1999) sempre di David Fincher. Notevole poi Secret Window (2004) di David Koepp e il Nascosto nel buio (2005) di John Polson.


Scena cult – Il finale parallelo. La scena della lavatrice.

Canzone cult – Non pervenuta.

lunedì 12 agosto 2013

SOLO DIO PERDONA (2013), Nicolas Winding Refn


Francia, Danimarca, 2013
Regia: Nicolas Winding Refn
Cast: Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Vithaya Pansringarm, Rhatha Phongam
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn


Trama (im)modesta – Julian e Billy sono americani che vivono a Bangkok. Ma la loro attività di allenatori di muay thai è solo una copertura per il traffico di droga che la loro famiglia gestisce. Se Julian è più mite e remissivo per natura (benché non si esima da una certa rissosità che, a volerla dire con ironia, pare un vizietto di famiglia), Billy è invece fin troppo sanguigno e collerico. Un po’ troppo, perché una sera decide di stuprare e massacrare a pugni una ragazzina di quattordici anni. Il padre di lei, dietro lo stimolo dell’inquietante Chang, lo uccide. Iniziano la faida: Crystal, ferocissima mammina mafiosa, arriva a Bangkok e ordina agguati e massacri. Il sergente Chang, freddissimo, ripaga il sangue col sangue. Solo Julian, troppo buono, troppo vessato, ristà indeciso. Ma la punizione divina non può essere evitata...


La mia (im)modesta opinione – Cominciamo dunque col capire di cosa parla il film. Spogliato dalla trama postnoir che Refn ci dimostra di amare da sempre, vediamo Julian, un everyman equilibrato ma fragile, combattuto fra la collera ferina di una madre/Diavolo e l’affilata rettitudine di Chang/Dio, paurosa allegoria dell’implacabile, ineluttabile, imperscrutabile giudizio divino. Solo appellandosi al proprio senso della giustizia (ossia gli scrupoli morali che ostacolo il suo senso di vendetta) e dopo aver toccato con mano e dunque riconosciuto l’incongruenza e la sconfitta della natura animale e diabolica, Julian è capace di redimersi, accettando di buon grado la punizione inflitta da Chang/Dio: il taglio delle mani.


La mano è leitmotiv del film. Simbolo assoluto della facoltà dell’uomo di agire sul mondo e se stesso, primo e più essenziale tramite del libero arbitrio, le mani (specialmente di Ryan Gosling) ci vengono proposte in tutte le salse: distese, mozzate, strette in un pugno, lorde di sangue, impegnate in violenze, frementi per un contatto umano con una donna gentile, una madre mortifera... se volessimo esagerare si potrebbe leggere il finale del film in chiave cattolica, vedendo nell’amputazione volontaria della mano/libero arbitrio un fantasma lontano di voto fatto a un Dio che, solo, sa perdonare. Manichei e speculari i personaggi di Chang e Crystal: ieratico poliziotto, uno, e sboccata criminale, l’altra; retto come l’acciaio della sua spada lui, velenosa e atroce vipera bionda lei; l’uno sobrio e composto, l’altra pacchiana e smodata. Al centro l’everyman di Gosling, spinto dall’una e l’altra parte dai due pesi gemelli di un Dio misterioso e di un Satana fin troppo familiare e temuto.


Purtroppo il film ha due grandi pecche: la sopraddetta ieraticità che Refn ricerca con un dialogo praticamente polverizzato e assente, finisce per sfociare in una specie d’autismo, di sessuofobia espressiva. Oltre al bellissimo personaggio di Pansringarm, gli altri personaggi più che manchevoli sono assenti dallo schermo. Meno di dieci minuti totali di screen time per la Scott Thomas, pochi di più per Gosling. E meglio sarebbe stato adombrare i suoi simboli dietro figure più apprezzabili almeno dal punto di vista narrativo. Così si spiega non solo il mio dimezzato entusiasmo nel guardarlo e nel recensirlo ma anche i fischi che l’hanno ricoperto a Cannes: il film trascura eccessivamente la forma narrativa, pare piuttosto una serie di violenze legata insieme da passaggi logici che, più che altro, sono giusto un impaccio...


Peccato. Visivamente parlando, non esiterei a dichiararlo il film dell’anno. Puro mesmerismo ottico, deliri e spirali rosse, perfetti specchi prospettici, claustrofobie buie: questa la Bangkok di Refn, un luogo di torridezza e opulenza, strangolato dovunque da tripudi di piante tropicali fuse col cemento, rosseggiante di lampade e decori überkitsch, dove il vizio e la morte si comprano a buon mercato, così come la punizione e la morte. Una città dove il rapporto fra interni ed esterni e mille volte mediato, iperfiltrato, simulatissimo da volumetrie ora ampie ora soffocanti, da città che paiono caldi termitai in cui ogni strada è familiare come un salotto.


Il film lo promuovo a metà, per la sua bellezza, e per metà lo boccio: non equilibrare tanta meraviglia visiva, musicale e formale con almeno un qualche spettro di trama e introspezione è offensivo prima verso chi il film vorrebbe apprezzarlo in tutte le sue sfumature, poi verso il proprio lavoro. Solo Dio Perdona si tradisce, in questo senso, e non riesce a gestire il passaggio fra film noir e novella filosofica risultando elefantiaco e scompagnato, pieno di passaggi e battute pressoché insensate, troppo frettoloso per poter apprezzare gli stessi personaggi che sarebbero stati degni di attenzione senz’altro maggiore. Un film che, disgraziatamente, riesce a stare tutto nel trailer che comunque lo fa passare per eccitante, bellissima e contorta tragedia criminale con risvolti edipici.


Assolutamente sprecato è Gosling, anonimizzato, ingiustamente estromesso da una storia che lo vede (e questa è la beffa) protagonista. Sarebbe stato più incisivo il messaggio del film con almeno un pizzico d’approfondimento in più. Stupefacente poi la Scott Thomas, dragonesca ibridazione fra Lady Macbeth e Donatella Versace, bella come non mai, anche lei inutilmente sacrificata: avrei voluto vederla un poco di più dato che le sole scene in cui è presente sono quelle che si vedono nel trailer. Stella assoluta della pellicola è il meraviglioso e inarrivabile Vithaya Pansringarm, capacissimo di evidenziare tutte le derive di un personaggio che, per psicologia, svetta su quella giusto insinuata di Gosling e quella macchiettistica della Thomas. Assoluta visione del torbido Oriente è Rhatha Phongam, fascinosissima, intensa anche nello spazio esiguo d’uno sguardo...


Il verdetto è presto fatto. Licenziamo Refn con un trito “ha talento ma non si applica”, speriamo più per noncuranza che per presunzione. Sebbene di presunzione il nostro regista ne abbia da vendere, ma andrà meglio la prossima volta. Concediamo a questo suo ultimo parto il beneficio del dubbio: un’astrusaggine, un incubo annegato di neon che spregia la coerenza e il gusto comune (e questa è una cosa buona). Ma, non c’è che dire, un sapore d’amaro resta sulla lingua, dopo. Ci si sarebbe aspettati di più da un regista così, sarebbe bastato giusto un poco, in fondo: due parole in più, dialoghi più evoluti, anche una maggiore voglia d’istrionismo degli attori, più voglia d’esibirsi. Ma, e su questo non ci piove, almeno Solo Dio Perdona resta uno delle prove autoriali più di peso dell’anno.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Simili al film di Refn mi sono parsi, per temi e ambientazioni, il Takeshi Kitano di Violent Cop (1989), Sonatine (1993), Brother (2002) e Outrage (2010, i fratelli Pang dell’insufficiente Bangkok Dangerous (1999) e il sommo Park Chan-Wook di Mr. Vendetta (2002), Oldboy (2003) e Lady Vendetta (2005). Alle sue spalle, la tradizione di revenge movies è grande, grandissima. Si va dagli storici La sposa in nero (1968) del grande François Truffaut e La fontana della vergine (1960) di Ingmar Bergman, ai molto meno impegnativi ma comunque piacevoli Four Brothers (2005) di John Singleton, Slevin (2006) di Paul McGuigan e La morte e la fanciulla (1994) di Roman Polanski.


Scena cult – La tortura di Chang allo scagnozzo di Crystal. Un highlight, più che del film singolo, di tutto il cinema di Refn.

Canzone cult – Più che le canzoni in tailandese (magari belle ma incomprensibili senza ricerche ulteriori) a colpire davvero è la turbinosa Wanna Fight di Cliff Martinez, assoluto capolavoro di musica elettronica e organistica. 

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