Francia, Danimarca, 2013
Regia: Nicolas Winding Refn
Cast: Ryan
Gosling, Kristin Scott Thomas, Vithaya Pansringarm, Rhatha Phongam
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn
Trama (im)modesta – Julian e Billy sono americani che vivono
a Bangkok. Ma la loro attività di allenatori di muay thai è solo una copertura
per il traffico di droga che la loro famiglia gestisce. Se Julian è più mite e
remissivo per natura (benché non si esima da una certa rissosità che, a volerla
dire con ironia, pare un vizietto di famiglia), Billy è invece fin troppo
sanguigno e collerico. Un po’ troppo, perché una sera decide di stuprare e
massacrare a pugni una ragazzina di quattordici anni. Il padre di lei, dietro
lo stimolo dell’inquietante Chang, lo uccide. Iniziano la faida: Crystal,
ferocissima mammina mafiosa, arriva a Bangkok e ordina agguati e massacri. Il
sergente Chang, freddissimo, ripaga il sangue col sangue. Solo Julian, troppo
buono, troppo vessato, ristà indeciso. Ma la punizione divina non può essere
evitata...
La mia (im)modesta opinione – Cominciamo dunque col capire
di cosa parla il film. Spogliato dalla trama postnoir che Refn ci dimostra di
amare da sempre, vediamo Julian, un everyman equilibrato ma fragile, combattuto
fra la collera ferina di una madre/Diavolo e l’affilata rettitudine di Chang/Dio,
paurosa allegoria dell’implacabile, ineluttabile, imperscrutabile giudizio
divino. Solo appellandosi al proprio senso della giustizia (ossia gli scrupoli
morali che ostacolo il suo senso di vendetta) e dopo aver toccato con mano e
dunque riconosciuto l’incongruenza e la sconfitta della natura animale e
diabolica, Julian è capace di redimersi, accettando di buon grado la punizione
inflitta da Chang/Dio: il taglio delle mani.
La mano è leitmotiv del film. Simbolo assoluto della facoltà
dell’uomo di agire sul mondo e se stesso, primo e più essenziale tramite del
libero arbitrio, le mani (specialmente di Ryan Gosling) ci vengono proposte in
tutte le salse: distese, mozzate, strette in un pugno, lorde di sangue,
impegnate in violenze, frementi per un contatto umano con una donna gentile,
una madre mortifera... se volessimo esagerare si potrebbe leggere il finale del
film in chiave cattolica, vedendo nell’amputazione volontaria della mano/libero
arbitrio un fantasma lontano di voto fatto a un Dio che, solo, sa perdonare.
Manichei e speculari i personaggi di Chang e Crystal: ieratico poliziotto, uno,
e sboccata criminale, l’altra; retto come l’acciaio della sua spada lui,
velenosa e atroce vipera bionda lei; l’uno sobrio e composto, l’altra pacchiana
e smodata. Al centro l’everyman di Gosling, spinto dall’una e l’altra parte dai
due pesi gemelli di un Dio misterioso e di un Satana fin troppo familiare e
temuto.
Purtroppo il film ha due grandi pecche: la sopraddetta
ieraticità che Refn ricerca con un dialogo praticamente polverizzato e assente,
finisce per sfociare in una specie d’autismo, di sessuofobia espressiva. Oltre
al bellissimo personaggio di Pansringarm, gli altri personaggi più che
manchevoli sono assenti dallo schermo. Meno di dieci minuti totali di screen
time per la Scott Thomas, pochi di più per Gosling. E meglio sarebbe stato
adombrare i suoi simboli dietro figure più apprezzabili almeno dal punto di
vista narrativo. Così si spiega non solo il mio dimezzato entusiasmo nel
guardarlo e nel recensirlo ma anche i fischi che l’hanno ricoperto a Cannes: il
film trascura eccessivamente la forma narrativa, pare piuttosto una serie di
violenze legata insieme da passaggi logici che, più che altro, sono giusto un
impaccio...
Peccato. Visivamente parlando, non esiterei a dichiararlo il
film dell’anno. Puro mesmerismo ottico, deliri e spirali rosse, perfetti
specchi prospettici, claustrofobie buie: questa la Bangkok di Refn, un luogo di
torridezza e opulenza, strangolato dovunque da tripudi di piante tropicali fuse
col cemento, rosseggiante di lampade e decori überkitsch, dove il vizio e la
morte si comprano a buon mercato, così come la punizione e la morte. Una città
dove il rapporto fra interni ed esterni e mille volte mediato, iperfiltrato,
simulatissimo da volumetrie ora ampie ora soffocanti, da città che paiono caldi
termitai in cui ogni strada è familiare come un salotto.
Il film lo promuovo a metà, per la sua bellezza, e per metà
lo boccio: non equilibrare tanta meraviglia visiva, musicale e formale con
almeno un qualche spettro di trama e introspezione è offensivo prima verso chi
il film vorrebbe apprezzarlo in tutte le sue sfumature, poi verso il proprio
lavoro. Solo Dio Perdona si tradisce, in questo senso, e non riesce a gestire
il passaggio fra film noir e novella filosofica risultando elefantiaco e
scompagnato, pieno di passaggi e battute pressoché insensate, troppo frettoloso
per poter apprezzare gli stessi personaggi che sarebbero stati degni di
attenzione senz’altro maggiore. Un film che, disgraziatamente, riesce a stare
tutto nel trailer che comunque lo fa passare per eccitante, bellissima e
contorta tragedia criminale con risvolti edipici.
Assolutamente sprecato è Gosling, anonimizzato,
ingiustamente estromesso da una storia che lo vede (e questa è la beffa)
protagonista. Sarebbe stato più incisivo il messaggio del film con almeno un
pizzico d’approfondimento in più. Stupefacente poi la Scott Thomas, dragonesca
ibridazione fra Lady Macbeth e Donatella Versace, bella come non mai, anche lei
inutilmente sacrificata: avrei voluto vederla un poco di più dato che le sole
scene in cui è presente sono quelle che si vedono nel trailer. Stella assoluta
della pellicola è il meraviglioso e inarrivabile Vithaya Pansringarm,
capacissimo di evidenziare tutte le derive di un personaggio che, per
psicologia, svetta su quella giusto insinuata di Gosling e quella
macchiettistica della Thomas. Assoluta visione del torbido Oriente è Rhatha Phongam,
fascinosissima, intensa anche nello spazio esiguo d’uno sguardo...
Il verdetto è presto fatto. Licenziamo Refn con un trito “ha
talento ma non si applica”, speriamo più per noncuranza che per presunzione.
Sebbene di presunzione il nostro regista ne abbia da vendere, ma andrà meglio
la prossima volta. Concediamo a questo suo ultimo parto il beneficio del
dubbio: un’astrusaggine, un incubo annegato di neon che spregia la coerenza e
il gusto comune (e questa è una cosa buona). Ma, non c’è che dire, un sapore
d’amaro resta sulla lingua, dopo. Ci si sarebbe aspettati di più da un regista
così, sarebbe bastato giusto un poco, in fondo: due parole in più, dialoghi più
evoluti, anche una maggiore voglia d’istrionismo degli attori, più voglia
d’esibirsi. Ma, e su questo non ci piove, almeno Solo Dio Perdona resta uno
delle prove autoriali più di peso dell’anno.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Simili al film di Refn mi
sono parsi, per temi e ambientazioni, il Takeshi Kitano di Violent Cop (1989),
Sonatine (1993), Brother (2002) e Outrage (2010, i fratelli Pang
dell’insufficiente Bangkok Dangerous (1999) e il sommo Park Chan-Wook di Mr.
Vendetta (2002), Oldboy (2003) e Lady Vendetta (2005). Alle sue spalle, la
tradizione di revenge movies è grande, grandissima. Si va dagli storici La
sposa in nero (1968) del grande François Truffaut e La fontana della vergine
(1960) di Ingmar Bergman, ai molto meno impegnativi ma comunque piacevoli Four
Brothers (2005) di John Singleton, Slevin (2006) di Paul McGuigan e La morte e
la fanciulla (1994) di Roman Polanski.
Scena cult – La tortura di Chang allo scagnozzo di Crystal.
Un highlight, più che del film singolo, di tutto il cinema di Refn.
Canzone cult – Più che le canzoni in tailandese (magari
belle ma incomprensibili senza ricerche ulteriori) a colpire davvero è la
turbinosa Wanna Fight di Cliff Martinez, assoluto capolavoro di musica
elettronica e organistica.
E non potrei essere più d'accordo. Peccato, davvero.
RispondiEliminaPer fortuna resta comunque una prova autoriale di alto livello!
EliminaPeccato, sì. Ma per me resta un grande film.
RispondiEliminaMa soprattutto (con l'eccezione di Gosling) dei grandi protagonisti. La Scott-Thomas e Pansringarm sono qualcosa di immenso, per quanto strizzati in minuscoli spazi vitali.
Eliminafondamentalmente sono d'accordo.
RispondiEliminacome al solito refn dimostra un talento enorme come regista, mentre come sceneggiatore ha ampi margini di miglioramento. o forse è meglio che si affidi proprio a qualcun altro come per drive, il suo migliore film e non a caso l'unico che non ha sceneggiato...
Ci sarebbe da scrivergli una lettera: "Caro Nicolas, per amor di Dio e dell'Arte, dimentica la macchina da scrivere e buttati sulla cinepresa".
EliminaPer me resta perfetto anche con le sue pecche. Come dire "mi piace così", inizialmente sono rimasta di stucco, non sapevo se mi piaceva o meno poi ho capito che il film andava molto oltre la violenza, era un inno agli uomini. Gosling però somiglia troppo al driver, anche se non sorride manco in una scena (mentre il driver appena vedeva l'amata sorrideva sempre). Bello, oltretutto. Concordo su moltissimi punti con te. L'hai letta la mia recensione no? ;D
RispondiEliminaHo letto tutte le recensioni. Come potrai notare, l'ho recensito abbastanza in ritardo rispetto agli altri. Se devo essere sincero, in questo film Gosling mi è stato quasi antipatico. Strano: io di solito lo adoro. Il problema che lo hanno fatto star zitto anche quando una parola o due sarebbero state necessarie.
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