USA, Regno Unito, 2000
Regia: Philip Kaufman
Cast:
Geoffey Rush, Kate Winslet, Joaquin Phoenix, Michael Caine, Stephen Moyer
Sceneggiatura: Doug Wright
Trama (im)modesta – Il Marchese DeSade (il magistrale Rush)
è incarcerato nel manicomio di Charenton per via dei suoi scritti immorali e
scandalosi. Le sue opere vengono pubblicate di nascosto grazie alla servetta
Madeline (Winslet) che funge da tramite fra Sade e il suo editore consegnando
di nascosto i manoscritti a un corriere. Per frenare la pubblicazione delle
opere del Marchese, Napoleone manda lo spietatissimo dottore Royer-Collard (un
Michael Caine in stile Tomàs de Torquemada) a “curare” lo scandaloso internato
affiancando alla direzione del manicomio il mite abate Coulmier (Phoenix). Ma
bisogna stare attenti: la follia è un terreno insidioso sul quale camminare.
La mia (im)modesta opinione – Diciamolo subito: Quills non è
un film storico in quanto i dettagli storici sono volutamente distorti e anche
l’interpretazione del carattere e dello spirito sadiano ne risultano deformati
e fuorvianti. Nonostante luoghi e personaggi siano realmente esistiti, ogni
altra cosa è diversa: Justine venne pubblicato tredici anni prima
dell’incarcerazione di Sade, Sade non somigliava affatto a Geoffrey Rush (che , nonostante questo, ci fornisce un’interpretazione che rasenta il sublime), l’incarcerazione di
Sade fu dovuta più agli episodi di violenza commessa su serve e prostitute che
ai suoi scritti (per cui comunque fu accusato di pornografia), e il film
sbaglia nel dare l’impressione che Sade fosse un martire del libero pensiero.
Diciamo subito anche questo: Quills non è un film sul sadismo o su Sade. È un
film sulla follia.
È la follia infatti che si muove costantemente al centro del
palcoscenico, la follia manifesta degli internati al manicomio di Charenton ma
soprattutto quella larvata e perversa che scorre nelle vene della società (la
sposa-bambina del dottor Royer-Collard, l’ottusa e grottesca imperiosità del macchiettistico Napoleone, le feroci umiliazioni a cui è sottoposta la moglie
del Marchese) che il regista Kaufman ha affrescato con tanto acume. E in mezzo
a queste due fazioni (coloro che alla pazzia di sono arresi e coloro che invece
ne sono guidati) sta proprio il Sade di Geoffrey Rush, indispensabile perno
attorno al quale gira questo mondo falsamente manicheo, sintesi suprema della
ferocia della pazzia e dell’ipocrisia borghese che della pazzia si fa omertosa
e dolorosa maschera.
E allora vediamo un Sade istrione, motteggiatore, gigione e
beffardo. Un satiro che fa satira, la cui maschera è il volto che nasconde e
vice versa e che si presenta non come persona ma come nodo concettuale del
film, come pietra dello scandalo (una pietra luminosa e squillante come quella
incastonata nell’anello del Marchese). Ma torniamo alla follia. Lo
sceneggiatore premio Pulitzer Doug Wright (che è anche autore della pièce dalla
quale il film è tratto) dipinge la follia come una vera e propria energia
fisica, un contagio infuocato che si sparge come una pandemia, miete vittime,
ha sintomi subdoli e la cui presenza necessaria è quasi resa sana dalla
“catarsi” della scrittura perché qualora la follia si spargesse verrebbero
aperte (come si dice nel film)
«le porte dell’inferno».
È questo ciò che vediamo nel catartico falso finale
dell’incendio a Charenton: il Marchese rinuncia al veicolo della scrittura per
il travaso della sua pazzia e la stessa pazzia esplode con spargimento di fuoco
e sangue e con numerosissime vittime che nella follia sprofonderanno o per la
follia moriranno. Come già detto, sbagliato sarebbe leggere la figura di Sade
come martire del libero pensiero in quanto il Sade di Quills è una figura
storica e letteraria puramente strumentale, esplicativa e simbolica. Non per
questo, però, va detto che lo sceneggiatore non abbia letto o studiato Sade:
tutti gli errori della pellicola sono chiaramente voluti e ricercati.
Al di là del lato contenutistico e intellettuale, anche la
parte tecnica della pellicola è assai incoraggiante: belle sono le
interpretazioni, bella è la messa in scena, belle le ambientazioni, sensuale e boccaccesco è l'erotismo sparso in giro per la pellicola ma, soprattutto, abile è la
regia nel gestire un intreccio non complesso ma molto variegato di sottotrame e
personaggi. Kaufman è un narratore sapiente ma, devo dirlo, difetta di stile
visivo. Non ci sono particolari guizzi di visionarietà o folgorazioni mentali
come, d’altra parte, il film non è affatto lambiccato o concettoso solo ben
congegnato e finemente pensato. La fotografia è fumosa, ovattata e caliginosa, rende bene l'atmosfera grigiastra e fosca dell'epoca ma nulla di più.
Altra nota di merito è lo scavo psicologico a cui vengono
sottoposti tutti i personaggi (è raro vedere un film che si occupi di
approfondire i personaggi e mantenga anche una solida coerenza concettuale) ma
soprattutto l’ironia un po’ abbozzata che fa capolino qui e lì in mezzo al
dilagante senso di tragedia che pervade la storia, vero e proprio ritratto virato "in nero" di un'epoca e di un personaggio. Ma bisogna esser giusti:
questo film presenta non pochi difetti. Se la deformazione storica pare a volte
un po’ troppo eccessiva, anche certe rifiniture, certi dettagli, sembrano
ruffiani e artisticamente goffi (si veda il finale che vorrebbe tanto essere
caustico ma risulta solo banale e ipocritamente melenso).
Nonostante tutte queste contraddizioni, Quills è una
pellicola che mi sento di consigliare fortemente, per la sua carica virulenta,
per le sue interpretazioni sbalorditive (Geoffrey Rush è un attore superbo,
capace come pochi altri di plasmare gesti, sguardi e parole per dare forma ai
propri personaggi), per la sceneggiatura sapida e attenta e per la regia tutto
sommato elegante e, in certe sequenze, quasi sontuosa nel dipingere un microcosmo
putrido e soave, fatto di carni palpitanti e merletti sudici, città fumose e
celle livide, prigioni cariche di orrori ed eleganti magioni che trasudano
tradimenti.
Se ti è piaciuto guarda anche... – The Libertine (2004) di
Laurence Dunmore, perché è una messa in scena ruvida e cruda dei fasti e delle
sozzure dell’Inghilterra del XVII secolo, perché l’interpretazione di Johnny
Depp è decisamente una delle migliori della sua carriera, perché è un film
magari non bello o particolarmente esaltante ma sicuramente originale e
vigoroso. Amata Immortale (1994) di Bernard Rose, perché è un’altra riflessione
sul genio e la società e perché Gary Oldman è incredibilmente bravo nei panni
di Ludwig Van Beethoven. Le relazioni pericolose (1988) di Stephen Frears, altra
crudeltà, altri salotti francesi, monumentali interpretazioni (la Close avrebbe
dovuto ricevere l’Oscar, altro che Jodie Foster!) e dialogo tagliente come un
bisturi. Hamlet (1996) di Kenneth Branagh, perché è una riflessione di ampio
respiro sul tema della pazzia che si mescola all’epica, al dramma familiare,
alla storia d’amore infelice.
Scena cult – Nulla in questo film è stato più disturbante
del sogno dell’abate Coulmier che mescola sacro e profano, tenerezza e
perversione. Scena di cui non rivelo nulla per non rovinare eventuali sorprese.
Canzone cult – Kaufman ha scelto una canzone da
trasformare in leitmotiv del film: Au Clair de la Lune, tradizionale
filastrocca infantile francese, cantata nel film dall’inglese John Hamway
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