Giappone, 2003
Regia: Takeshi Kitano
Cast: Takeshi Kitano, Tadanobu Asano, Michiyo Okusu, Daigorō
Tachibana, Yuuko Daike
Sceneggiatura: Takeshi Kitano
Trama (im)modesta – Giappone, XIX secolo. Zatōichi (Kitano)
è un massaggiatore cieco esperto di arti marziali che si ritrova in un
villaggio rurale esasperato dalle continue angherie dei capi della yakuza
locale. Zatōichi diventa amico dalla contadina O-Ume (Okusu) e prende sotto la
sua protezione il di lei nipote e di due misteriose geisha assassine. La sua
strada però si incrocerà con quella del clan di Ginzo che ha il suo campione
nel letale ronin Hattori Gennosuke (Asano).
La mia (im)modesta opinione – Prima di parlare di questo Zatōichi, sarebbe opportuno capire la storia del personaggio da cui il film prende il nome. La figura di Zatōichi, massaggiatore cieco, spadaccino infallibile, implacabile vigilante, nasce dalla mente del romanziere giapponese Kan Shimozawa per poi diventare protagonista di una infinita epopea filmica (i film della serie originale sono ben 26!), di una serie televisiva di quattro stagioni e vari altri adattamenti cinematografici. Abbiamo cioè davanti una figura quasi folkloristica per la sua profonda penetrazione della cultura popolare giapponese, al pari dei nostrani Maciste e Sandokan.
Lo Zatōichi di Kitano nasce come reinterpretazione personale
della figura dello spadaccino cieco (diciamolo pure: Zatōichi e la sua storia
hanno tutti gli ingredienti che entusiasmano tanto Kitano) e come ennesima
riproposizione questa volta quasi ludica di un personaggio che fa tanto
profondamente parte della pop culture nipponica. Altri hanno provato a entrare
nel mito di Zatōichi: per primo Quentin Tarantino che decise di abbandonare il
progetto (il film avrebbe dovuto chiamarsi The One-armed Swordsman) e poi il
modesto film Blind Fury che vede Rutger Hauer nel ruolo principale.
La pellicola di Kitano è, nelle intenzioni del regista, un
divertente e divertito sincretismo di generi, girato con perizia, musicato
deliziosamente e provocatorio verso gli stereotipi del jidaigeki, ovvero il classico
e rigidamente codificato film storico del Sol Levante. Purtroppo tutte queste
caratteristiche sono nelle intenzioni di Kitano e lì rimangono. Il problema
sembra proprio questo: Zatōichi è un esercizio di pigrizia, recitato
dignitosamente, musicato in modo imbarazzante, la cui ironia è più umiliante
che divertente e il cui umorismo sarebbe più consono a un demenziale buddy
movie americano che a un film di Takeshi Kitano.
Il punto è proprio questo. Kitano è un regista estremamente
dotato (e narcisista) che, oltre ai suoi altri film più sentimentali e lirici
(che rimangono comunque di una qualità altissima), è famoso per gli yakuza
movies dove, a onor del vero, ripropone pedissequamente gli stessi elementi e
personaggi secondo canovacci più o meno sempre uguali e già sperimentati ma
riesce a farlo con così tanto stile e originalità che gli si perdona
l’altrimenti imperdonabile ridondanza stilistica e lo si promuove a catecumeno
del genere. In questo non c’è nulla di male. Ma il fascino della cinematografia
di Kitano sta proprio qui: nelle sue divine manie, nei suoi eroici furori,
nella sua malinconia ribelle e soprattutto nel suo senso del tragico e
dell’epico.
È sono proprio il senso della tragedia e dell’eroico furore a
fare grande Kitano che, a livello registico e di sceneggiatura, non
approfondisce psicologie né innova generi (ma a giudicare da Zatōichi è meglio
che non provi a farlo) ma replica all’infinito la stessa sequela di maschere e caratteri.
Ci vuole una grande abilità per mescolare insieme generi diversi in maniera
plausibile, è risaputo. Il Kill Bill di Tarantino ne è un esempio perfetto: frulla
insieme, con assoluta nonchalanche, i registri del dramma, del comico, dell’ horror,
del kung-fu movie, del film d’azione, del western e della storia d’amore senza
mai sbavare o barcollare. Altro esempio di riuscito sincretismo di generi è il
cinema di Sion Sono che si muove su assaggia da tutto i piatti, bazzica tutti
gli stili, pizzica tutte le corde senza mai inciampare su quei sassi su cui
inciampa tanto goffamente lo Zatōichi di Takeshi Kitano.
La trama del film appare troppo esile e vagheggiata, i suoi
personaggi smettono di essere malinconici e tragici criminali e si trasformano
in indecenti figuranti degni del peggior cabaret, l’ironia di solito sottile ed
elegante si fa balorda e sfocia nello slapstick più menteccatto. La storia
abbonda di tristissimi siparietti, comprimari apparentemente comici, effetti
speciali antidiluviani, trame non del tutto risolutive, scene francamente
imbarazzanti (quel numero in stile Bollywood di danza collettiva che “corona”
il finale), musiche così stereotipate da far rimpiangere di avere orecchie per
ascoltarle e altre simili amenità. Si direbbe quasi che Kitano abbia messo
troppa carne al fuoco. Si sbaglierebbe: il film è ben calibrato, è la storia ad
essere praticamente (e tremendamente) assente.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Per recuperare le
atmosfere storiche del Giappone antico nulla è meglio del maestro Akira
Kurosawa, grande ispiratore di Kitano, nei film più famosi ovvero I sette
samurai (1954), Il trono di sangue (1957) e Ran (1985). Per vedere Kitano al
massimo della sua forma, invece, sono imprescindibili Il silenzio sul mare
(1991), film pressoché muto ma di grande potenza espressiva; Brother (2000) e
il più fiacco ma sempre di gran valore Outrage (2010). Lady Snowblood (1973) di Fujita Toshiya è invece l’esempio
del film che Zatōichi avrebbe dovuto essere: gustosi barocchismi, manierismo
ironico, senso del tragico, raffinata e tagliente ironia sugli stereotipi di
cui si riveste consapevolmente.
Scena cult – In mezzo alla desolante banalità della
pellicola si salva solo l’incipit del film. Puro Kitano, forte, graffiante,
vigoroso. Il resto è insalvabile.
Canzone cult – Impossibile da reperire.
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