domenica 15 aprile 2012

BLACK DEATH (2010), Christopher Smith


Regno Unito, Germania, 2010
Regia: Christopher Smith
Cast: Eddie Redmayne, Sean Bean, Carice Van Houten, John Lynch, Tim McInnerny
Sceneggiatura: Dario Poloni


Trama (im)modesta – Inghilterra, Anno Domini 1348. Osmund (il meraviglioso Eddie Redmayne) è un giovane monaco con qualche scheletro nell’armadio che si unisce a una compagnia di cavalieri guidati da Ulric (uno Sean Bean sempre più demotivato) che lavora per conto dell’Inquisizione. La compagnia dovrà attraversare l’Inghilterra per raggiungere un misterioso villaggio che, si dice, non sia stato toccato dalla peste nera che devasta il resto del paese e su cui si sussurrano voci di eresie e magia nera. La verità sarà diversa da quella che si aspettavano.


La mia (im)modesta opinione – Lo ammetto, sono sempre stato affascinato dal Medio Evo. È un’età fosca e sanguinosa, barbara e mistica, un mondo che celebra i suoi santi, adora i suoi idoli, brucia le sue streghe. Purtroppo questa concezione del Medio Evo come età buia della storia umana è diventata con il tempo uno stereotipo del romanticismo più deteriore e insulso. E dopo il recente e deludente Ironclad che pareva davvero scritto da una ragazzina tredicenne con il gusto del macabro, mi aspettavo che questo Black Death (che è uscito un anno prima di Ironclad) fosse più stilisticamente maturo. Ahimè, ero in errore.


I pregi autentici di questo film sono solo quattro. Il primo: la stupenda interpretazione di Eddie Redmayne, un attore che mi ha sempre affascinato per quel suo volto scavato e androgino, rosicchiato dalle lentiggini e quegli occhi di un verde quasi ustionante, un attore che in questo film ci dà una delle sue performances più intense e credibili. Il suo Osmund dà l’impressione di essere un uomo in carne e ossa, profondamente credente e profondamente innamorato, un uomo che si evolve nel corso del film fino ad arrivare alla completa metamorfosi fisica e psicologica del finale. Secondo pregio: la fotografia cupa e brumosa che restituisce tutto il misterioso orrore del Medio Evo, con l’aria ammorbata dai fumi dei roghi e dai miasmi della peste insieme a una messa in scena dettagliata e suggestiva.


Il terzo pregio: la divina Carice Van Houten che anche struccata e imbruttita conserva al contempo bellezza e credibilità ed è capace di qualsiasi caratterizzazione: il suo personaggio appare sullo schermo per tempo relativamente breve ma salta dalla disperazione alla malizia, dalla gentilezza alla crudeltà con una bravura tale da lasciare sbalorditi. Quarto, ultimo e più importante pregio: l’idea alla base della pellicola. Sono i religiosi a essere scettici riguardo il soprannaturale e i laici a credere a demoni e streghe, gli eretici non adorano demoni, sono soltanto atei:  e rinunciare alla fede cattolica non significa accettare di adorare demoni ma di vivere serenamente senza avere un Dio. L’ateismo del villaggio e della sua padrona (la crudele Langiva di Carice Van Houten) non solo mette in salvo dalla peste (peste vista come malattia dei cristiani, mandata da Dio solo per la sua gente) ma soddisfa anche il bisogno di amore dell’uomo, un bisogno che, in nome di Dio, viene sacrificato. Accettare Dio vuol dire accettare la morte, la crudeltà e la solitudine, rinunciarvi significa la pace.


Oltre a questo risvolto originale della sceneggiatura, l’evoluzione del complesso personaggio di Osmund  e le interpretazioni di Redmayne e della Van Houten il film risulta abbastanza frustrante. Eccettuate le due sequenze dell’incipit e dell’excipit (autentici gioielli di cinematografia) la pellicola si spreca in interpretazioni attoriali poco convinte e convincenti (Sean Bean dà l’impressione di uno che si sia ritrovato nel film per puro caso e che non abbia troppa voglia di rimanerci), scene abbastanza inconcludenti per il film (cioè gli insulsi siparietti dei contadini che vogliono bruciare la strega e l’assalto dei predoni della foresta), dialoghi poco esaltanti che dovrebbero sembrare brillanti e arguti e una narrazione in definitiva sbrigativa e frettolosa.


Non basta: la musica è usata in maniera scontata e banale per sottolineare i momenti più orrifici (?) della vicenda e la ricostruzione del Medio Evo è abbastanza pezzotta e scontata: a un certo punto sembra di stare vedendo il noioso catalogo degli orrori dei secoli bui tristemente elencati in modo sconnesso e inutile. Un solo esempio per tutti: il corteo di flagellanti che i cavalieri incontrano in mezzo alla foresta, figura inutile che serviva solo a caratterizzare in modo più forte l’epoca ma con scarsi risultati (perché i flagellanti stanno in mezzo a una foresta sperduta?).


Black Death è dunque una pellicola sulla carta interessante che si brucia tutta per colpa di una regia e di una sceneggiatura che desiderano svendere il prodotto a prezzo popolare condendolo con scene inutili ma di effetto sicuro sui palati più grossolani. I pregi (notevoli) non riescono però a scontare la banalità generale della pellicola. Che fare? Vederlo, apprezzare gli aspetti positivi, disprezzare gli aspetti negativi, dimenticarlo. È l’unica maniera possibile.
Vorrei approfittare inoltre di due righe per fare un’umile richiesta agli sceneggiatori di tutto il mondo: perché fate sempre morire Sean Bean? Capisco che ha l’aria da uomo duro e malinconico e dunque ha scritto in faccia il suo destino ma ormai vedere un suo personaggio morire fa più ridere che piangere.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per respirare l’autentica aria del Medio Evo non c’è che un film: il grande, grandissimo Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman, autentico mystère medievale aggiornato alla modernità, superbamente diretto, scritto, fotografato e interpretato, insomma il cult movie dei cult movies. Altri gioielli della serie “Middle Ages go to the movies” sono l’Excalibur (1981) di John Boorman, oscuro e visionario, e i due Macbeth (1948 e 1971) rispettivamente di Orson Welles e Roman Polanski che, nonostante siano zeppi di difetti, insieme fanno un film più che decente. E infine il molto discusso (e, secondo me, molto bello) Giovanna d’Arco (1999) di Luc Besson, film ora lodato ora disprezzato ma che comunque riesce a esprimere con efficacia i colori e le atmosfere della Guerra dei Cent’anni. Menzione speciale anche al The Countess (2009) di Julie Delphy che, fra alti e bassi, riesce a condurre una narrazione efficace e tesa su una delle figure più controverse dell’epoca: la contessa sanguinaria Erzsébet Bàthory.


Scena cult – La superbattuta del burbero cavaliere Mold che, in risposta alle avances di una avvenente contadina del villaggio eretico, ribatte «I am ugly and I am Christian, and that is not a good combination in here».

Canzone cult – Per fortuna, non pervenuta.

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