Regno Unito, Germania, 2010
Regia:
Christopher Smith
Cast: Eddie
Redmayne, Sean Bean, Carice Van Houten, John Lynch, Tim McInnerny
Sceneggiatura:
Dario Poloni
Trama (im)modesta – Inghilterra, Anno Domini 1348. Osmund
(il meraviglioso Eddie Redmayne) è un giovane monaco con qualche scheletro
nell’armadio che si unisce a una compagnia di cavalieri guidati da Ulric (uno
Sean Bean sempre più demotivato) che lavora per conto dell’Inquisizione. La
compagnia dovrà attraversare l’Inghilterra per raggiungere un misterioso
villaggio che, si dice, non sia stato toccato dalla peste nera che devasta il
resto del paese e su cui si sussurrano voci di eresie e magia nera. La verità
sarà diversa da quella che si aspettavano.
La mia (im)modesta opinione – Lo ammetto, sono sempre stato
affascinato dal Medio Evo. È un’età fosca e sanguinosa, barbara e mistica, un
mondo che celebra i suoi santi, adora i suoi idoli, brucia le sue streghe. Purtroppo
questa concezione del Medio Evo come età buia della storia umana è diventata
con il tempo uno stereotipo del romanticismo più deteriore e insulso. E dopo il
recente e deludente Ironclad che pareva davvero scritto da una ragazzina
tredicenne con il gusto del macabro, mi aspettavo che questo Black Death (che è
uscito un anno prima di Ironclad) fosse più stilisticamente maturo. Ahimè, ero
in errore.
I pregi autentici di questo film sono solo quattro. Il
primo: la stupenda interpretazione di Eddie Redmayne, un attore che mi ha
sempre affascinato per quel suo volto scavato e androgino, rosicchiato dalle
lentiggini e quegli occhi di un verde quasi ustionante, un attore che in questo
film ci dà una delle sue performances più intense e credibili. Il suo Osmund dà
l’impressione di essere un uomo in carne e ossa, profondamente credente e
profondamente innamorato, un uomo che si evolve nel corso del film fino ad
arrivare alla completa metamorfosi fisica e psicologica del finale. Secondo
pregio: la fotografia cupa e brumosa che restituisce tutto il misterioso orrore
del Medio Evo, con l’aria ammorbata dai fumi dei roghi e dai miasmi della peste
insieme a una messa in scena dettagliata e suggestiva.
Il terzo pregio: la divina Carice Van Houten che anche struccata e imbruttita
conserva al contempo bellezza e credibilità ed è capace di qualsiasi
caratterizzazione: il suo personaggio appare sullo schermo per tempo
relativamente breve ma salta dalla disperazione alla malizia, dalla gentilezza
alla crudeltà con una bravura tale da lasciare sbalorditi. Quarto, ultimo e più
importante pregio: l’idea alla base della pellicola. Sono i religiosi a essere
scettici riguardo il soprannaturale e i laici a credere a demoni e streghe, gli
eretici non adorano demoni, sono soltanto atei: e rinunciare alla fede cattolica non significa
accettare di adorare demoni ma di vivere serenamente senza avere un Dio.
L’ateismo del villaggio e della sua padrona (la crudele Langiva di Carice Van
Houten) non solo mette in salvo dalla peste (peste vista come malattia dei
cristiani, mandata da Dio solo per la sua gente) ma soddisfa anche il bisogno
di amore dell’uomo, un bisogno che, in nome di Dio, viene sacrificato.
Accettare Dio vuol dire accettare la morte, la crudeltà e la solitudine,
rinunciarvi significa la pace.
Oltre a questo risvolto originale della sceneggiatura,
l’evoluzione del complesso personaggio di Osmund e le interpretazioni di Redmayne e della Van
Houten il film risulta abbastanza frustrante. Eccettuate le due sequenze
dell’incipit e dell’excipit (autentici gioielli di cinematografia) la pellicola
si spreca in interpretazioni attoriali poco convinte e convincenti (Sean Bean
dà l’impressione di uno che si sia ritrovato nel film per puro caso e che non
abbia troppa voglia di rimanerci), scene abbastanza inconcludenti per il film
(cioè gli insulsi siparietti dei contadini che vogliono bruciare la strega e
l’assalto dei predoni della foresta), dialoghi poco esaltanti che dovrebbero
sembrare brillanti e arguti e una narrazione in definitiva sbrigativa e
frettolosa.
Non basta: la musica è usata in maniera scontata e banale
per sottolineare i momenti più orrifici (?) della vicenda e la ricostruzione del
Medio Evo è abbastanza pezzotta e scontata: a un certo punto sembra di stare
vedendo il noioso catalogo degli orrori dei secoli bui tristemente elencati in
modo sconnesso e inutile. Un solo esempio per tutti: il corteo di flagellanti
che i cavalieri incontrano in mezzo alla foresta, figura inutile che serviva
solo a caratterizzare in modo più forte l’epoca ma con scarsi risultati (perché
i flagellanti stanno in mezzo a una foresta sperduta?).
Black Death è dunque una pellicola sulla carta interessante
che si brucia tutta per colpa di una regia e di una sceneggiatura che
desiderano svendere il prodotto a prezzo popolare condendolo con scene inutili
ma di effetto sicuro sui palati più grossolani. I pregi (notevoli) non riescono però a
scontare la banalità generale della pellicola. Che fare? Vederlo, apprezzare
gli aspetti positivi, disprezzare gli aspetti negativi, dimenticarlo. È l’unica
maniera possibile.
Vorrei approfittare inoltre di due righe per fare un’umile
richiesta agli sceneggiatori di tutto il mondo: perché fate sempre morire Sean
Bean? Capisco che ha l’aria da uomo duro e malinconico e dunque ha scritto in
faccia il suo destino ma ormai vedere un suo personaggio morire fa più ridere
che piangere.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Per respirare l’autentica
aria del Medio Evo non c’è che un film: il grande, grandissimo Il settimo
sigillo (1957) di Ingmar Bergman, autentico mystère medievale aggiornato alla
modernità, superbamente diretto, scritto, fotografato e interpretato, insomma
il cult movie dei cult movies. Altri gioielli della serie “Middle Ages go to
the movies” sono l’Excalibur (1981) di John Boorman, oscuro e visionario, e i
due Macbeth (1948 e 1971) rispettivamente di Orson Welles e Roman Polanski che,
nonostante siano zeppi di difetti, insieme fanno un film più che decente. E
infine il molto discusso (e, secondo me, molto bello) Giovanna d’Arco (1999) di
Luc Besson, film ora lodato ora disprezzato ma che comunque riesce a esprimere
con efficacia i colori e le atmosfere della Guerra dei Cent’anni. Menzione
speciale anche al The Countess (2009) di Julie Delphy che, fra alti e bassi,
riesce a condurre una narrazione efficace e tesa su una delle figure più
controverse dell’epoca: la contessa sanguinaria Erzsébet Bàthory.
Scena cult – La superbattuta del burbero cavaliere Mold che,
in risposta alle avances di una avvenente contadina del villaggio eretico,
ribatte «I am ugly and I am Christian, and that is not a good combination in
here».
Canzone cult – Per fortuna, non pervenuta.
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