USA, Giappone, 2005
Regia: Takashi Miike
Cast: Billy Drago, Youki Kudoh, Michié, Shinichi Tanaka,
Seriyu Ichino, Toshie Negishi
Sceneggiatura: Daisuke Tengan
Trama (im)modesta – Christopher è un americano che, sul
finire del diciannovesimo secolo, si reca in Giappone per trovare e portare via
con se Komomo, prostituta di cui, durante un primo viaggio, s’era innamorato.
Le sue ricerche lo portano su un’isola-bordello dove non trova Komomo ma su cui
è costretto a passare la notte. Lì riceve la compagnia di una misteriosa
prostituta sfigurata che gli rivela di come la sua amata sia stata torturata a
morte, accusata ingiustamente d’aver rubato un preziosissimo anello. Ma
Christopher non è convinto dal racconto della donna e le chiede con più
insistenza la verità, la donna allora comincia a raccontare un'altra versione
della storia, più terribile della prima che porterà Christopher alla follia.
La mia (im)modesta opinione – Il mediometraggio horror più
malato di sempre. E non lo penso solo io, ma anche le reti televisive americane
che hanno deciso di non trasmetterlo per via della sfilza di atrocità che la pellicola conteneva. E non sono robe da poco: ferocissime
torture, incesti, feti abortiti, mostri bicefali, scatenatissimo body horror,
cervelli in aria e via così. Certo, bisognava aspettarselo: Takashi Miike non è
certo conosciuto per delicatezza e buon gusto. Non dimentichiamoci che parliamo
del regista di Ichi The Killer, Visitor Q, Three... Extremes e di Audition. Di
certo tutti film non adatti agli stomaci deboli.
Il sospetto qui, però, è che Miike travalichi con troppo
compiacimento i limiti del buon gusto. Ovvio, l’horror asiatico ama sdoganare i
tabù che in Occidente sono considerati intoccabili; quasi si sforza di calcare
i toni per spingere al raccapriccio il pubblico. Ma proprio in Imprint (in
italiano, Sulle tracce del terrore) la concentrazione di cose abominevoli pare
eccessiva, quasi forzata. Chiaramente qui è il mio senso di ripulsa a parlare.
Quello che il film fa è mettere in scena il Male, un Male così assoluto che
diventa quasi sinonimo di una predestinazione, d’inevadibile spirale che
trascina ognuno verso l’assurda follia.
Graficamente, il film è insostenibile. I cinque minuti della
scena di tortura sono una delle cose più lancinanti che abbia mai visto sullo
schermo. Peggio ancora l’intera pletora di aborti, feti deformi e sanguinanti,
stupri pedofili e omicidi con spargimenti di sangue. Una storia che
personalmente ho trovato troppo malsana, quasi stomachevole. Ma nemmeno sono
rimasto insensibile a quella strana poetica di favola nera che Miike adotta
come registro narrativo, una sorta di Alice nel paese delle meraviglie dove, in
fondo alla buca del coniglio, ci sia un aberrante carosello d’orrori. E sebbene
il talento di Miike sia indiscutibile, la sensazione che qualcuno abbia
volutamente esagerato rimane.
Le interpretazioni del cast, specialmente quella di Billy
Drago (mio attore di culto, sebbene vagamente incapace), vanno per alti e
bassi. I membri giapponesi sono assai bravi, specialmente l’allucinatissima Youki
Kudoh. Altri vanno peggio con il culmine di un protagonista, proprio Billy
Drago, assolutamente fuori parte. Poco importa. Lo strano fascino del film
cattura tutti, le urla del supplizio con gli aghi cancellano ogni visibile
difetto. L’apparato coloristico è semplice ma stupendo e quasi non si nota
l’esiguo budget a cui il film è costretto ad attingere. Una perla dell’horror,
dunque, ma solo per chi è capace di digerirla a dovere (e io non credo di
esserne stato capace). Stomaci forti, buona visione!
Se ti è piaciuto guarda anche... – Assolutamente Audition
(1999) e Visitor Q (2001) di Takashi Miike, capolavoro del maestro. Volendo ritrovare lo stringente metodo dialettico, la chiara ispirazione del film è Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Per le
derive body horror consigliamo il raro Basket Case (1982) di Frank Henenlotter
e il disturbante Society (1989) di Brian Yuzna, insieme a Brood (1979) e
Videodrome (1983) di David Cronenberg. Teatralità e perturbante sono al centro
del classico horror Suspiria (1977) di Dario Argento, mentre il devastante
horror Dumplings (2004) di Fruit Chan adotta registri del tutto diversi ma non
dissimili da Imprint. Concludo la rassegna horror ccon il malatissimo Schramm (1994) di Jörg
Buttgereit.
Scena cult – Diciamo la tortura con gli aghi, scena madre
del film. Non che sia la parte più disturbante…
Canzone cult – A esclusione delle urla strazianti, nulla.
Mi piacevano questi Masters of Horror! Questo all'epoca mi aveva fatto decisamente senso, ma è uno dei pochi che ricordo meglio, stranamente.
RispondiEliminaNon stranamente. L'orribilità delle torture è peggio che un marchio a fuoco nel cervello.
Elimina