Thailandia,
1999
Regia:
Oxide Pang Chun, Danny Pang
Cast:
Pawalit Mongkolpisit, Premsinee Ratanasopha, Patharawarin Timkul, Pisek
Intrakanchit
Sceneggiatura: Oxide Pang Chun, Danny Pang
Trama (im)modesta – Kong (Mongkolpisit) è un killer su
commissione sordomuto, vive insieme al suo amico che l’ha introdotto al mondo
degli hitmen, Jo (Intrakanchit), e di tanto in tanto si reca in un locale di
spogliarellisti dove una donna, ex-fidanzata di Jo, di nome Aom (Timkul)
comunica incarichi e fornisce pagamenti. Un giorno incontra e si innamora della
bella farmacista Fon (Ratanasopha) e tutto sembra andare per il meglio fino a
quando Aom viene violentata da uno dei bracci destri del boss di turno e Jo
viene ucciso mentre tenta di vendicarla, incastrato dallo stesso boss a cui
aveva chiesto aiuto.
Da questo punto, per Kong comincerà una sanguinosissima
vendetta contro tutti quanti gli assassini (materiali e non) di Jo. E,
parafraso il Bardo, tutto il resto è mattanza.
La mia (im)modesta opinione – Era il lontano 1992 quando
Tarantino con Le Iene dimostrava che il gangster movie poteva essere riscattato
dall’abisso di infamante e banalizzante popolarità in cui era caduto e poteva
essere ancora originale, ancora creativo, ancora vitale. Da quel punto di
rottura originario con la tradizione deteriore del gangster movie e poi, in
modo molto più clamoroso e definitivo, dal monumento criminale Pulp Fiction,
Tarantino e tutti i suoi epigoni (non necessariamente posteriori a lui ma che
solo dopo di lui hanno trovata confermata la propria arte) hanno generato
intere schiere di criminali violenti, nevrotici, totalmente originali nei modi
e nei comportamenti. Questa figura rinnovata del criminale sui generis è stata
poi al centro di numerosissime storie a dire il vero spesso piuttosto scontate
ma tutte con più o meno merito a seconda del loro valore artistico.
Epigoni non solo di Tarantino ma anche di Kitano e John Woo,
si fanno i fratelli Pang in questa sgargiante e pataccosa pellicola del ’99 che
sarà oggetto di un tremendo remake all’americana, sempre a opera dei fratelli
Pang, con protagonista Nicholas Cage. I padri spirituali del film, dunque, sono
Tarantino, Kitano e Woo, quello artistico è uno: il grande Wong Kar Wai.
E il film dei Pang, si vede, è tutto preso nella pedissequa
imitazione sia dell’amore dell’immagine di Wong Kar Wai sia della fascinazione
per l’ibrido hard-boiled dei vari Tarantino e Kitano. Ma il limite principale
di Bangkok Dangerous è proprio questo: tutto preso nella furia di replicare e
ricostruire si dimentica di se stesso. Diciamolo pure: i Pang non hanno la nera
e ribollente creatività di Tarantino, non hanno il furor malinconico di Kitano,
non hanno l’amore per gli anfetaminici dinamismi di Woo e nemmeno per le
emicranie cromatiche di Wong Kar Wai.
La loro cinematografia, almeno in questo film, si classifica
come manierismo tutto esteriore e vuoto. Una vanità che è sì elemento
caratterizzante del genere (in nessuno dei registi sopracitati sono presenti
alti contenuti di natura moraleggiante o filosofica, ma solo genuina attitudine
estetica e intellettuale) ma non è nemmeno tale da far sprofondare la storia in
un abisso di neon, fermo immagine e dissolvenze in rosso.
Oltre agli interessanti titoli di testa con il sangue che si
disperdeva colando nelle fughe del pavimento e qualche sequenza visivamente
interessante, la struttura stessa del film comincia a collassare su se stessa a
partire dall’inizio della trama vera e propria, circa a metà del film.
Ci si
rende conto, cioè, che la trama avrebbe potuto essere snellita o, al contrario,
resa più solida (un preambolo tanto grande quanto metà dell’intera pellicola
poteva far presupporre una trama veramente grandiosa). Appena la storia si
infiacchisce, tutto il fascino estetico svanisce e i neon tornano a essere
neon, le dissolvenze in rosso, dissolvenze in rosso e gli effetti cromatici
solo effetti cromatici.
Quello che ne risulta è un film-patacca, chiassoso,
stracarico, melenso e inutilmente aggressivo ma non privo di un certo fascino estetico,
fascino che però fa presto a scomparire.
Anche Kitano ha sempre usato, per
esempio, le suggestioni del racconto eroico e del melodramma (ma dandogli un
proprio vigore tutto orientale, virile e, in qualche misura, byroniano) nella
sua narrativa ma mai è parso melenso, a differenza del film dei Pang che pare
troppo esagerato, rutilante e imperdonabilmente vuoto. Un gioiello falso, dunque, che sembra sopra le righe perché
ne è troppo al di sotto, un prodotto scintillante ma non di luce propria. Mi spiace,
ma l’hard-boiled è altro.
Se ti è piaciuto guarda anche… - Le Iene e Pulp Fiction
(rispettivamente 1992 e 1994) di Quentin Tarantino, perché Tarantino è un
grande maestro che ha sintetizzato e coronato un intero genere cinematografico,
modernizzandolo e rendendolo godibile e attuale. Léon (1994) di Luc Besson,
perché è insieme poetico e muscolare, delicato e taurino. Brother (2000) di
Takeshi Kitano, perché è una crime story asciutta ed essenziale, nostalgica
come un western e violenta come un noir. Hard Boiled (1992) di John Woo, perché
è l’ultimo film del primo e migliore periodo cinese di Woo, prima che si
trasferisse negli USA (che gli hanno fatto perdere molto del suo smalto).
Scena cult – Il violento (sia fisicamente che
artisticamente) stupro di Aom sul palco del locale a luci rosse da lei usato
come punto di incontro con Kong.
Canzone cult – Non pervenuta.
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