Regno Unito, 2009
Regia: Anthony DiBlasi
Cast: Jackson Rathbone, Shaun Evans, Hanne Steen, Laura Donnely
Sceneggiatura: Anthony DiBlasi
Trama (im)modesta - Tre studenti di cinematografia senza arte né parte decidono
sotto suggerimento dell’inquieto Quaid (Evans), che da bambino ha assistito al
massacro della sua famiglia a opera di un maniaco che aveva molto di Mike
Myers, di realizzare un documentario sui traumi e i terrori più profondi dei
loro coetanei svergognando sia paurosi traumi nascosti sia imbroglioni in cerca
di fama. Ma con il passare del tempo la natura sadica di Quaid si rivela sempre
più fino a un finale che più tragico proprio non si può.
La mia (im)modesta opinione – Basta poco per farti gelare il
sangue nelle vene. Clive Barker (che è autore del racconto su cui è basato il
film) lo sa e di sicuro lo sa anche Anthony DiBlasi.
Ci sono molti film che corrono sul bordo della follia senza
mai valicarlo veramente, Dread preme sull’acceleratore e ci proietta in un
salto folle oltre il guard rail. E la visione è qualcosa di autenticamente
destabilizzante. L’horror vero non causa paura causa, come è ovvio, orrore,
cioè uno stato emotivo più profondo e subdolo che mescola attrazione (intelletuale
e, a volte, estetica) e repulsione (morale). È così che lavora Satana, più o
meno. Oltre questa definizione di genere horror esiste ben poco e tutto il
resto è solo baraccone chiassoso e villano.
Dread con essenziale e chirurgica precisione ci porta
attraverso un disegno arabesco e complesso al cuore pulsante di questa
sensazione d’orrore. Alla fine del film si sarà sì folgorati dal finale
tagliente come vetro ma si proverà una specie di rivoltamento morale dello
stomaco, una repulsione spirituale, un autentico desiderio di luce, buoni sentimenti e felicità.
La regia di DiBiasi è un occhio non imparziale ma capace di
farci vedere abiezione e negatività con pochi e scarni dettagli (i capelli
lunghi e lerci del killer misterioso, le squallide sale del college, la dimora
isolata e tetra di Quaid) e di portare questa atmosfera a momenti di tensione
drammatico-orrifica tanto potente da risultare quasi disturbante.
Il film è poi illuminato dal suo superbo cast. Si va da un
Jackson Rathbone bello come una divinità nella sfumatura pensosa e malinconica
dei suoi occhi verdi (autentica calamita sullo schermo) a una Hanne Steene
capace di metamorfosi impensabili fino al potente, bellissimo e sanguinolento
nudo integrale di Laura Donnely, vera stella in questa sua parte tanto piccola
quanto carica di pathos e spessore psicologico.
Menzione a Shaun Evans e a
quella strepitosa capacità di dare corpo al suo personaggio con tutto il
groviglio di rabbia repressa e terrore infantile che si tiene nelle viscere.
Occhio pure alla cantante Paloma Faith che compare
brevemente nel film a coronare questa gemma di orrore con la sua bislacca
presenza.
Evitate i vari filmoni d’orrore che vi spacciano per
paurosi. Il terrore è qualcosa di diverso, e Dread ve lo insegnerà.
Se ti è piaciuto guarda anche… - Che fine ha fatto Baby
Jane? (1962) di Robert Aldrich, perché è un film memorabile, che esplora le
pieghe segrete della psiche malata, un gioco sinistro giocato da due mostri
sacri come Bette Davis e Joan Crawford. Funny Games (2007) di Michael Haneke,
perché è un gioco del gatto con il topo di una violenza inesorabile e letale,
perché Haneke è un grande autore che non si spaventa ad esplorare la violenza
in tutti i suoi aspetti più nascosti. Repulsione (1965) di Roman Polanski,
perché c’è la Denevue (che vale tutto il film), perché è la storia di una
nevrosi narrata magistralmente, perché Polanski è un grandissimo figo. Audition
(1999) di Takeshi Miike, perché è un rimpiattino e cercarello notevole, perché
la violenza messa in scena da questo film è disarmante, perché la carta della
claustrofobia è una carta abusata ma che funziona sempre.
Scena Cult – Ovviamente
il feroce finale che modificherà il concetto di orrore nella mente di ogni
spettatore.
Canzone cult – L’ipnotica e, alla lunga, allucinata
‘Fashionably Uninvited’ dei Mellowdrone
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