USA, 2011
Regia: Oren
Moverman
Cast: Woody
Harrelson, Ned Beatty, Ice Cube, Robin Wright, Sigourney Weaver, Steve Buscemi
Sceneggiatura:
Oren Moverman, James Ellroy
Trama (im)modesta – Dave Brown è un inglorious basterd,
brutto, sporco, cattivo e corrotto. Ha una famiglia (e due mogli!) che ignora e
tradisce, evade le tasse, picchia i sospetti, non ha troppi scrupoli
nell’uccidere. Un giorno picchia un messicano reo di aver investito la sua
macchina. Lo insegue, lo pesta selvaggiamente. È ripreso dalle telecamere.
L’opinione pubblica lo mette alla berlina. E qui comincia l’inesorabile caduta.
Una per una le sue colpe vengono fuori, per ognuna si profila una condanna. A
nulla servono le scappatoie poco lecite di Dave: l’ombra dell’arresto sembra
già allungarsi sopra la sua testa.
La mia (im)modesta opinione – Un film, questo Rampart,
troppo vero nel suo ruvido realismo per essere anche bello, troppo biografico
nel suo ostinato accentrarsi sulla caduta (o meglio presa di consapevolezza) di
un singolo, grande personaggio per preoccuparsi di avere una trama o una storia
decenti. Dunque no, non mi è piaciuto affatto Rampart. L’ho trovato noioso,
monotono, grigio e ripetitivo. Non bastano a salvarlo le fugaci apparizioni di
una Sigourney Weaver in stato di grazia o di un pallido Steve Buscemi, che fa
solo una rapidissima affacciata, per salvare il film. Non bastano gli ampi
scenari conurbati e assetati dal sole di
questa Los Angeles che mai fu tanto silenziosa e borghese: il film è vuoto per
il suo realismo, troppo sincero per essere artistico, troppo verosimile per
essere organico, troppo normale (ma dopo aver visto questo film la normalità
sarà come un insulto) per essere memorabile.
Si salva solo Woody Harrelson. Onnipresente bandito dal
cuore (non poi così tanto) d’oro, non tanto angelo caduto quanto diavolo
riabilitato. Con quella sua faccia dura e insolente, cotta dal sole
californiano, da yankee bigotto e terricolo ci spiazza con la sua sincerità
bestiale. Il personaggio è negativo, non diabolico, corrotto, non compiaciuto,
violento, non sadico. Non c’è nulla in lui che possa trasformarlo in un
antieroe affascinante. E forse è proprio questo l’obiettivo del regista: non
affascinare, non compiacere, non appagare. Moverman ci presenta una pellicola
nuda e cruda, un boccone stopposo e duro da masticare e mandare giù perché non
vuole colpirci, non pensa allo spettatore. Descrive come se vedesse. Non
moraleggia, non filosofa. E a volte questo è un bene, ma poi sorge un dubbio: che
questo film sia gratuito. Forse lo è.
Grande è solo il carattere di Dave. Il caso di Dave Brown è il nostro caso. Il mondo che tanto velocemente sembra crollargli addosso è il
nostro mondo. Dave è violento, misogino, omofobo, rozzo, puttaniere e corrotto.
La corruzione è l’unico tramite che gli permette di comunicare e interagire con
l’altro. La sua è una anti-morale. Quando gli si chiede ragione dei suoi
crimini di odio, violenza, traffici illeciti lui risponde che non ci sono
crimini, per tutto il film non fa che spergiurare di essere il poliziotto
migliore di tutta Los Angeles. Una Los Angeles, a suo dire, corrotta, schifosa,
putrida e infernale.
Ma noi vediamo solo strade quiete, quartieri residenziali
magari non eleganti ma nemmeno infestati dal crimine. Un film di poliziotti
senza criminali. E questo è curioso dato che gli stessi criminali sono vittime
dalla anti-giustizia di Dave. Lui uccide, picchia, estorce e ruba, ma si sente
perfettamente innocente.
Perché è così, dice, che vanno le cose. Strano. Strano soprattutto perché tutti coloro che lo
circondano non fanno che indicargli i suoi crimini mentre lui scuote la testa
stupito. Ma Dave è di un altro mondo, di un altro tempo, di un’altra morale:
l’unica persona con cui ha un dialogo civile e, per così dire, normale è il
corrottissimo ex-poliziotto Hartshorn, ormai vecchio, con cui parla, si
confessa e si rapporta.
Con tutti gli altri c’è aggressività, odio, durezza. Ma Dave
Brown è capace anche di dolcezza, una dolcezza tutta rude e virile, intrisa inevitabilmente
di pregiudizio culturale e razziale.
Una mezza delusione, Rampart, considerato che fra gli
sceneggiatori del film c’è il multiforme ingegno di James Ellroy, uno scrittore
che non mi ha mai fatto impazzire, ma a cui va riconosciuto il merito che si è
giustamente meritato come instancabile verista di genere, che ha dato nuova e
più attuale forma al noir metropolitano.
Se ti è piaciuto guarda anche… - L.A. Confidential (1997) di
Curtis Hanson, perché è il più nobile figlio di Casa Ellroy, perché è il più
malinconico neo-noir mai scritto e perché Kim Basinger è bella da mozzare il
fiato. Il braccio violento della legge (1971) di William Friedkin, perché
anche se non ho mai veramente amato questo film, che è un classico, non si può
che prostrarsi e adorare la performance di Gene Hackman, vero portento dello
schermo cinematografico.Training Day (2001) di Antoine Fuqua, perché è duro e
sporco e cattivo e perché c’è Denzel Washington al suo meglio, prima che si
rovinasse con gli squallidi thriller d’azione in cui s’è ormai impantanato. Il
cattivo tenente (1992) di Abel Ferrara, perché è puro vintage reduce di Cannes,
perché l’accoppiata Keitel/Ferrara è qualcosa di magico e spiazzante, perché è un
film duro, forte ma anche potente e profondamente autoriale.
Scena cult – La discoteca a luci rosse frequentata da un
Dave ubriaco e drogato. Neon rosa, prostitute affascinanti e musica martellante
fanno la sequenza più visivamente interessante di tutto il film.
Canzone cult - Lo sgargiante e rabbioso rap dei Delinquent Habits: Tres Delinquentes. Perfetta sinfonia urbana da barrio rabbioso e sovrappopolato.
non sembra fondamentale..
RispondiEliminase lo recupero, è solo per il grande woody!
Ed è la sola cosa che ne valga la pena, fidati. Il film è formalmente bello ma di una noia mortale.
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