USA, Canada, 2009
Regia: Paul Solet
Cast: Jordan Ladd, Gabrielle
Rose, Samantha Ferris, Malcom Stewart
Sceneggiatura: Paul Solet
Trama (im)modesta – Incinta di
otto mesi, Madeline perde il marito e la bambina che ha in grembo a causa di un
incidente. Ma invece di partorire una neonata morta, Madeline dà alla luce una
bella bambina che chiama Grace. Ma la bambina non è normale: non sembra voler
bere latte, le mosche si accalcano a frotte nella sua stanza, piange di
continuo e il seno di sua madre sanguina sempre dopo che l’ha allattata. In
breve Madeline realizza presto che la sua piccola figlia non ha fame di latte
materno, ma di sangue umano. E l’amore di una madre non si ferma mai davanti a
nulla.
La mia (im)modesta opinione – La
tematica del maternity horror (con la sua inesauribile miniera di sfumature
psicologiche) ha sempre attirato l’attenzione di artisti e registi: si pensi,
già nell’antica Grecia a Medea o Fedra (e soprattutto Medea troverà interessanti
interpreti cinematografici moderni in Von Trier e Pasolini), e più di recente
all’evoluzione dell’orrore legato ai temi del prenatale e della maternità. Il
tema è abusato. Diciamo che è facile realizzare un buon horror a base di
maternità e gravidanza: la gravidanza deforma in modo sensibile il corpo della
donna, il parto è un evento sanguinoso e traumatico, la donna incinta è una
centrale nucleare ribollente di ormoni. Difficile è dunque sbagliare, almeno in
termini di immagini e trovate (per così dire) sceniche, bersaglio quando al
centro dell’investigazione dell’incubo c’è il tema della gestazione.
Eppure, Grace sbaglia,
clamorosamente.
Il film procede per tappe
confuse, non si concentra su nulla, si disperde nel seguire e tentare di
analizzare tanti personaggi diversi invece che di creare un’atmosfera morbosa o inquietante, impresa
evidentemente sottovalutata dal regista. Non basta certo mostrare un paio di
mosche (finte) che vanno su e giù per la faccia di una sventurata neonata e piatti della cucina non lavati per creare atmosfera, non basta
scompigliare e struccare la povera Madeline (una Jordan Ladd visibilmente male
in arnese) per farla sembrare una pazza, non basta mescolare e complicare
riferimenti già in sé oscuri per essere intelligenti o intellettuali. Paul
Solet magari è un bravo regista, ma non si applica. Si intuisce, al fondo di
tutto, una certa velleità narrativa che vorrebbe pescare al genere gotico
moderno, al grand-guignol, all’horror immaginoso e disturbante ma il film non
ci arriva.
Manca tensione, tensione
stilistica che tende ad un fine (senza necessariamente raggiungerlo). Se lo
stile non è teso alla perfezione non può ambire nemmeno all’imperfezione perché
si è già relegato da solo nel campo del tentativo vano. Questo è il campo di
Grace, scalcagnato horror, che con spocchia simula il sangue, la paura,
l’elemento inquietante ma fallisce, presuntuoso, e se lo merita anche.
Non può un film perdersi e
disperdersi tanto in mille riferimenti senza poi nemmeno dimostrare
l’esaltazione sadica del sangue e dalla violenza (non per forza esibita,
dipende dalla bravura del regista), senza affondare nella sottile meccanica del
delirio, nel luridume dell’animo umano.
Ha avuto molto successo, questo
povero Grace, ma, si sa, Dio non ha fatto tutti i poveri, soltanto tutti gli
imbecilli.
Se ti è piaciuto guarda anche... – À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury, perché anche con il dialogo ridotto all’osso un film può essere costruito in atmosfera con luci, suoni e visi e perché è uno splatter (stranamente) elegante e raffinato. Brood (1979) di David Cronenberg, perché è puro Cronenberg, autentico body horror che gioca sull’immagine e la carnalità del corpo e della mente femminile per descrivere le deformazioni e le infamie della fertilità. Omen (2006) di John Moore, perché è un remake ingiustamente sottovalutato, immaginoso, bello, formalmente superiore all’originale con il grande Gregory Peck. Rosemary’s Baby (1968) di Roman Polanski, perché, anche se di questi tempi ha perso la maggior parte del proprio mordente, è uno dei capisaldi dell’horror contemporaneo, che ha stabilito le regole e gli stilemi di un intero filone cinematografico.
Scena cult – Ahimè, nessuna. Il film è così insignificante che toglie pure la voglia di trovare una scena migliore delle altre.
Canzone cult – Già la regia è scadente, la colonna sonora dovrebbe esser meglio?
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