Cast: Jesse
McCartney, Jonathan Sadowski, Devin Kelley, Dimitri Diatchenko, Olivia Taylor
Dudley
Sceneggiatura: Oren Peli, Carey Van Dyke, Shane Van Dyke
Trama (im)modesta – Chris, Natalie e la loro amica Amanda
sono dei ragazzi americani che trascorrono l’estate in Europa. Dopo aver
attraversato l’intero continente (chissà dove prendono i soldi), arrivano a
Kiev dove vive il fratello maggiore di Chris, Paul. Al secondo giorno del loro
soggiorno, Paul propone alla compagnia un tour “estremo” nella città fantasma
di Pripyat, colpita dalle radiazioni di Chernobyl ed evacuata in poche ore dai
suoi cinquantamila abitanti. La città però è off limits per “problemi di
manutenzione” ma il gruppo di ragazzi, accompagnati dalla guida turistica Uri e
da una coppia aggiuntasi all’ultimo momento, decide d’addentrarsi ugualmente
tramite una scorciatoria. A tour finito, la comitiva si prepara per tornare a
casa, ma scopre che qualcuno o qualcosa ha distrutti i cavi del motore del loro
furgone...
La mia (im)modesta opinione – Cosa significa per me estate? Cinematograficamente
parlando, tre cose: deprimenti film d’autore, film dell’orrore a un tanto al
chilo e disaster-movie americani girati con quattro euro. Chernobyl Diaries ha
inaugurato la mia personale stagione di horror estivi come, l’anno scorso,
l’aveva inaugurata il fighissimo ma sconclusionato Acolytes. Ad ogni modo,
perché guardare questo film? Perché è come le montagne russe da due soldi del
luna park locale: sai perfettamente quali sono i giri e sai perfettamente che
non prenderà mai davvero velocità. Però è sempre meglio di restare a terra.
Il film non fa paura, né ha una trama degna di questo nome.
Procede anche abbastanza stanco dato che non ci fa nemmeno la grazia di qualche
bel momento di buon gore ma qui sta la sua unica originalità: di mostri ne
vediamo pochissimi. Anzi non ne vediamo affatto. Si notano delle sagome, nella
penombra, delle mani. Sentiamo dei versi. Ma non ci sono squallidi dénouement o
make-up da due soldi, il film può vantare, se non altro, almeno la discrezione.
E l’originalità del setting e la freschezza d’una regia esordiente e
disimpegnata fanno di Chernobyl Diaries il film ideale per il cazzeggio estivo
totalmente disimpegnato. A proposito, buone vacanze a tutti (tranne che a me:
odiosa università)!
Se ti è piaciuto guarda anche... – Spariamo un po’ di
cazzate: io opterei subito per The Loved Ones (2009) di Sean Byrne che è un
capolavoro di iperviolenza psicotica (divertentissima); poi non mi farei certo
mancare la perla vintage dell’estate, ossia Non aprite quella porta (1974) di
Tobe Hooper, e quella moderna, ovvero Quella casa nel bosco (2011) di Drew
Goddard. Poi c’è l’ovvio Cabin Fever (2002) di Eli Roth e, per chi ha gusti un
po’ forti, il classico Hostel (2005) sempre di Eli Roth. Non dimentichiamoci
poi il grindhouse di Tarantino/Rodriguez: parlo di Death Proof (2007) di
Quentin Tarantino e Planet Terror (2007) di Robert Rodriguez.
Sceneggiatura:
Bryan Fuller, Jim Danger Gray, David Fury, Chris Brancato, Jennifer Schuur, Scott
Nimerfro, Kai Yu Wu, Jesse Alexander, Steve Lightfoot, Andy Black, Chris
Brancato
Trama (im)modesta – Will Graham è uno schivo e giovane
professore dell’FBI che, grazie alle sue particolari capacità d’empatizzare
alla perfezione con gli assassini, scorgendone in pochi attimi modus operandi e
dinamiche dell’omicidio, lavora anche come investigatore speciale per conto di
Jack Crawford, il capo dell’Unità di Scienze Comportamentali. Il complesso caso
di un serial killer che ha ucciso già otto studentesse, i cui cadaveri sono
tutti scomparsi, e pare seguito nei suoi omicidi da un secondo assassino che
copia quasi alla lettera le uccisioni del primo, porta Crawford a chiedere
l’aiuto di Graham: una mossa azzardata dato che la mente di Will, troppo
provata dal continuo e strettissimo contatto con la follia, rischia di
spezzarsi in ogni momento. È per questo che, a seguire Will, viene messo il
dottor Hannibal Lecter. Ma Lecter è egli stesso un pericoloso e astutissimo
assassino che comincerà una partita a scacchi con la mente di Will, destinata a
distruggerlo per sempre.
La mia (im)modesta opinione – Tema scottante, quello dell’Hannibal
di Bryan Fuller. Nulla ha più diviso il popolo delle serie tv quanto questa
serie che, con tutte le sue mancanze e inefficienze, s’è presentata come una
delle (potenzialmente) saghe più radicali e sconvolgenti di questa ultima
stagione televisiva. Tralasciando i pregi e i difetti della narrazione,
tralasciando la figura stessa dell’Hannibal di Mads Mikklesen di cui parleremo
più giù, ciò che m’ha colpito maggiormente è anche la maggiore scusante per le
falle di una serie che, se correggerà i suoi problemi di sceneggiatura, potrà
aspirare a scardinare gli stessi meccanismi del dramma procedurale: lo stile.
Hannibal, prima d’ogni cosa, si caratterizza per la sua cifra stilistica
improntata ad assoluta sobrietà ed eleganza: elaborate scenografie, stupende
orchestrazioni figurative, decisione e levigatezza del taglio registico che
ricorrono in ogni puntata della serie.
Ma partiamo dalle dolenti note: la trama. Il problema
principale è l’apparente indecisione degli sceneggiatori: trama unitaria o
procedurale autoconclusivo? Se gli inizi facevano pensare alla prima opzione,
gli sviluppi riportano alla seconda. Ma ecco un ritorno sui propri passi verso
la fine, insieme all’evoluzione che verrà proseguita nella seconda stagione. Un
procedurale nella sua maggior parte, dunque, ma un procedurale come non se ne
sono mai visti: non analisi della scena del crimine, ma analisi della mente del
detective. Non bruta violenza ma raffinatezza quasi poetica (cadaveri
trasformati in macabri angeli e violini, totem di morti, carni usati come vivai
per funghi) che mostra veramente, non evitando notevoli concettosità ed errori
logici, un talento visivo e immaginativo senza pari.
L’assassinio come arte, dunque. E ancora più inquietanti e
bellissime sono le visioni di Graham (interpretato da un Hugh Dancy di
sopraffina bravura: una performance, la sua, raramente così estrema e
viscerale, degna certamente di un Emmy o un Golden Globe): ghiacciai che
caracollano in acque torrenziali, funebri sonate su cadaveri-violoncelli, cervi
dalle corna infuocate, demoni neri... Pare di vederlo, giorno a giorno, rompere
sempre di più, centimetro dopo centimetro, nella follia più selvaggia. E dunque
questo il lato positivo del lato negativo: se la trama ha poveri sviluppi, la
psiche è sviscerata e anatomizzata con una freddezza da folle chirurgo.
Di nuovo: la serie non è perfetta. C’è almeno un gravissimo
buco della trama (le vicende legate a un arto tagliato trovato dentro un
osservatorio astronomico, e non dico altro) che la serie può dimenticare o
risolvere. Speriamo lo risolva. Per il resto, se nella prima parte della
stagione si raggiungono basse vette, sul finale la serie s’invola e promette
evoluzioni delle più entusiasmanti. Ma il punto è proprio questo: siamo troppo
abituati al melodramma. Ci aspettiamo azioni, azioni e solo azioni e abbiamo
finito per smettere di concepire prodotti televisivi dall’andare più lento e
sottile – andare lento e sottile che non preclude di certo a movimenti della
trama che con sicurezza andrà avanti, data l’apparentemente trascorsa
insicurezza degli autori circa gli obiettivi della serie stessa.
Veniamo ora a discutere di quello che di questa serie m’ha
fatto innamorare: la perpetua, inedita tensione verso il maggior formalismo
possibile. Hannibal ha pochi appigli per lo spettatore-tipo: mancano vicende
amorose, mancano vere indagini poliziesche, non c’è azione, l’intrigo è solo
velato. Collante ideale della serie è la finissima manipolazione psicologica:
Hannibal tira con sottigliezza di burattinaio tutti i fili della vicenda.
Quello che abbiamo davanti è la sua capacità, già presente e decantata nei
numerosi film precedenti, di entrare nella testa delle persone rimanendo
perfettamente sfuggente. La serie procede con pianezza, senza apparente
incisività fino agli ultimi episodi finali con un’unica eccezione: la
mirabolante settima puntata dove Hannibal si scatena in una killing spree a
ritmo di clavicembalo barocco.
E parliamo del maggior scoglio, alla fine: il dottor
Hannibal Lecter. Il personaggio di Thomas Harris aveva cominciato la sua
carriera sulla pagina scritta. La sua prima incarnazione, quella di Brian Cox
nel Manhunter di Mann, era corpulenta e beffarda, ma poco inquadrava il
personaggio. La sua più recente, quella di Gaspard Ulliel, non mancava di fascino.
Ma quella che è passato alla storia è il dragone metafisico di Anthony Hopkins,
un cattivo epocale, brillante e sopra le righe che terrorizzò il mondo nello
storico Il silenzio degli innocenti. I più che hanno criticato
l’interpretazione di Mikklesen erano i più abituati all’interpretazione di
Hopkins. Le due incarnazioni, però, per quanto differenti fra di loro non
necessariamente si contraddicono.
Il Lecter di Mikklesen è più vicino al personaggio originale
di Harris di quanto non si creda: una creatura dall’involucro gelido il cui
spirito s’impenna nelle più ardite contorsioni d’estetica e follia. Quelli che
hanno criticato la mancanza di cattiveria del nuovo Hannibal ignorano il lato
“pubblico” del crudele dottore: misuratissimo, sopraffino, d’immane algore.
Mikklesen ha fatto un capolavoro di recitazione “fredda” alla Jeremy Irons,
capace di un’impassibilità di rara vividezza, perfetta con il suo delicato
emergere delle emozioni delle più feroci. Un Hannibal contemplante e
implacabile, che raramente vediamo uccidere, ma che senza alcun dubbio è capace
di bucare lo schermo con la sua diabolica sottigliezza.
Il resto del cast è alla stessa altezza. Di Dancy si è già
parlato: la sua interpretazione sfiora semplicemente il sublime, con il culmine
perfetto dell’ultima puntata. Laurence Fishburne è semplicemente perfetto
insieme a tutti i suoi comprimari. Si segnala in particolare la dottoressa
Bedelia “Regina-di-Ghiaccio” du Maurier, interpretata da una taglientissima
Gillian Anderson. Altro punto di valore: le infinite citazioni e rimandi non
solo a Il silenzio degli innocenti, ma anche ad altri capolavori come Shining,
Carrie, Motel Hell, Seven, gli stessi libri di Harris, citati pressoché alla
lettera, la musica classica, le fotografie di David Slade. Non un prodotto
d’impatto, dunque, ma di grandissima densità, sontuose psicosi, sottilissima
elaborazione. Non però ancora un cult, per i difetti che abbiamo detto sopra.
Ma la certezza della sua grandissima ripresa è più che granitica.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Naturalmente tutti gli
altri film del franchise del dottor Lecter: iniziamo dal malioso Manhunter
(1986) di Michael Mann, fino alla “trilogia” di Hopkins che inizia con Il
silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, prosegue con Hannibal (2001)
di Ridley Scott e finisce in grandezza con il grandemente sottovalutato Red
Dragon (2002) di Brett Ratner. Abbiamo poi il figlio “nato per forza”: il
comunque valido Hannibal Rising (2007) di Peter Weir. Citiamo poi l’immancabile
Shining (1980) di Stanley Kubrick, La casa dei 1000 corpi(2003) di Rob Zombie
e il perfetto Seven (1995) di David Fincher.
Scena cult – Il totem di corpi sulla spiaggia, il concerto
di Handel in cui la musica si fa invisibilmente vedere, le visioni di donne
incornate di Graham e l’intera settima puntata, assoluto capolavoro.
Cast: Matt
Damon, Michael Douglas, Dan Aykroyd, Debbie Reynolds, Rob Lowe
Sceneggiatura:
Richard LaGravenese
Trama (im)modesta – Scott Thorson è giovane, orfano e bello.
È anche gay (bisessuale, dice lui) con la silente disapprovazione dei genitori
adottivi. Un giorno l’amante del momento lo porta a Las Vegas a vedere uno
spettacolo: il grande pianista Liberace si esibisce al pianoforte. Bob, così si
chiama l’amante, presenta Scott a Liberace e fra i due scatta subito la
scintilla. Subito Scott viene tirato dentro al mondo scintillante dell’artista
d’intrattenimento più pagato del mondo: montagne di gioielli, vestiti costosi e
stravaganti, la promessa d’un futuro stabile... Ma con il passare del tempo,
Scott s’accorge di non essere stato il primo delle “spalle” del pianista, che
fa di tutto per tenere la propria omosessualità nel più oscuro segreto.
Affrontando la crisi, con una brutta dipendenza da pillole sulle spalle, Scott
si vedrà spogliato di tutto, abbandonato dalla persona che credeva essere il
suo mondo.
La mia (im)modesta opinione – Prima di tutto, chi diavolo è
Liberace? Personalmente non l’avevo mai sentito: triste destino delle celebrità
da palcoscenico, il cadere in oblio dopo pochi anni dalla morte. Liberace fu un
grande protagonista dello showbiz fra i cinquanta e i settanta: pianista
virtuoso, attore, compositore. Suonò pure agli Oscar del 1981. Era di certo un
personaggio stravagante: è leggendaria la sua pelliccia di volpe bianca con uno
strascico di cinque metri, le sue entrate volanti sul palcoscenico, le sue dita
perennemente inanellate, lo sfarzo pacchiano della sua magione californiana e,
last but not least, il candelabro che appoggiava sempre al pianoforte. Un dio
in terra, ai suoi tempi: le folle l’acclamavano, i suoi concerti facevano il
tutto esaurito in tutto il mondo, ogni suo capriccio poteva diventare realtà. E
vederlo, chissà che deve essere stato. Era una forza della natura, Liberace, un
mattatore di come non se ne vedono più. Misteriosa la sua morte: per la stretta politica d'omertà circa il suo orientamento omosessuale nessuno volle ammettere le vere cause della morte. Si disse che il pianista fosse morto d'arresto cardiaco: morì di AIDS.
E la prima cosa che salta all’occhio, in Behind the
Candelabra, è proprio l’attore che incarna quella complessa personalità.
Michael Douglas, a sessantotto anni suonati, ci regala il ruolo migliore dai
tempi di Gordon Gekko. E su di lui non avremmo mai scommesso: non s’era mai
provato un attore capace di trasformismi o complete metamorfosi come quella che
vediamo qui. Colpa anche dei produttori che l’avevano relegato nella parte
dell’uomo adulto, forte e truce. Un talento, quello di Douglas, che avevamo
visto ma che non avremmo mai immaginato tanto esplosivo: la sua immedesimazione
nella parte del vanitoso divo omosessuale è qualcosa di leggendario,
spiazzante. Dal primo secondo in cui la telecamera l’inquadra, buca lo schermo.
Ed è così bravo da farci stare pure il grande imbonitore Liberace profondamente
antipatico, con le sue mille necessarie falsità.
Soderbergh ancora una volta ci fa incantare di fronte alla
vista della sua America scintillante e polverosa: e fra un lussureggiare di neon, l’acromegalia d’uno
sfarzo villano (diciamocelo, Liberace era un parvenu dei peggiori) e la
crudezza della vita “normale”, la sua nuova opera segue le intenzioni
dell’abusato Magic Mike ma doppiandolo in forza e velocità, in forza di una
sceneggiatura di forza assoluta e soprattutto senza l’ingombro di dover
inserire a motivi di più facile celebrità inutili protagonisti la cui unica
funzione è ballare in mutande. Certo, il film non ci risparmia nulla: vedere
una scena di sesso fra un Matt Damon in versione biondo manzo e Michael Douglas
era l’ultima delle cose che mi aspettavo da un film. Ma, al di là di ogni
possibile limite, il film del nostro prolificissimo regista è una storia di
rara potenza, che andrebbe premiata con un Academy per entrambi i protagonisti.
Unico dispiacere: per cause strutturali, il film non riesce
a farci vedere Liberace suonare per più di una volta, all’inizio. È un peccato:
era un grande intrattenitore e un pianista assai dotato. Ma poco importa: era
il lato privato, le piccole abiezioni, l’amore visto come un giocattolo, la
pusillanimità, infine, che sono veramente illuminanti. E Soderbergh gira la sua
storia con una regia, al solito suo, piena e vigorosa ma assolutamente nitida.
Eccezionali sono fotografia, scenografie e costumi: era dai tempi di Priscilla
e Velvet Goldmine che non si vedeva tanta pompa di lustrini, sete, pellicce e
marmi scintillanti. Ottimo anche il lato “nascosto” del film: quello
visionario. Il sogno sul letto d’ospedale di Liberace, la sua uscita di scena
onirica, la visione offuscata dalle droghe di Scott. E plauso assoluto al resto
del cast: Rob Lowe, nelle vesti del rifattissimo chirurgo Starz, è esilarante;
Matt Damon ci regala una delle sue performance migliori e i redivivi Debbie
Reynolds e Dan Aykroyd fanno la loro magnifica figura. E ovviamente il plauso
va a Soderbergh, che ha confezionato, con Behind the Candelabra, uno dei
migliori drama dell’anno.
Se ti è piaciuto guarda anche... – I sopradetti Velvet
Goldmine (1998) di Todd Haynes e Priscilla – La regina del deserto (1994) di Stephan
Elliott. E non dimentichiamo poi il sommo The Rocky Horror Picture Show (1975)
di Jim Sharman. Andando alla ricerca del camp più spinto, troviamo Lungo la
valle delle bambole (1970) di Russ Meyer, l’eccessivo e assai volgare Brüno
(2009) di Larry Charles, il sempre bellissimo Il vizietto (1978) di Edouard
Molinaro e Cruising (1980) di William Friedkin.
Scena cult – L’uscita di scena voltante di Liberace.
Canzone cult – Il meraviglioso The Liberace Boogie cantato
da Michael Douglas.
Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo
Buccirosso, Giovanna Vignola, Serena Grandi, Giorgio Pasotti, Isabella Ferrari,
Giusi Merli
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Trama (im)modesta – Jep Gambardella ha sessantacinque anni,
vive a Roma ed è l’arbiter elegantiarum dell’alta società della capitale. Un
uomo che il potere di far fallire le feste, che conosce chiunque abbia un nome
e che, eppure, è angustiato, sensibile com’è, da un’amarezza per il mondo che
lo circonda e per il suo bestiario umano. Ed è proprio la vita che conduce,
fatta di estasi sottili e aberranti decadenze, che l’opprime: sono quarant’anni
che Jep è incapace di scrivere un libro e s’accontenta di fare il giornalista
di costume, di passare di festa in festa, di vagare per la città spoglia alle
ore più buie della notte. Entra in crisi, allora, il nostro scrittore: troppo
disperatamente lontano da quella grande bellezza che gli faceva palpitare il
cuore ai pensieri delle tenerezze d’una gioventù lontana, ora sepolta dalla
grezza terra tombale della mondanità romana.
La mia (im)modesta opinione – Iniziamo da Petrarca: «Invece
questi viziosi cittadini, tra vini e banchetti, tra fiori e profumi, tra canti
e spettacoli, gocciolanti di vino, infiacchiti dal sonno, stanchi delle loro
occupazioni, d’ogni parte traboccanti di piaceri e di noia al tempo stesso,
hanno l’impressione che un giorno solo sia più lungo di un anno, e possono
trascorrere a stento qualche ora senza brontolare e senza farsi prendere dal
tedio». Una definizione perfetta per le atmosfere insieme sublimi e
corrottissime di una civitasdei raramente così bella, immortalata nel vuoto
della notte fresca: vero paravento smaltato, con le sue bellezze di
misticheggiante barocco, che maschera la crudezza di un’umanità miserabile e
desolata nel cuore.
Il paragone con La Dolce Vita di Fellini è presto fatto. E
nemmeno è troppo azzardato: i due film, più che confrontarsi o rivaleggiare,
paiono le successive pietre miliari d’uno stesso percorso che documenta il
lento svolgersi di un’Italia sempre più sull’orlo del baratro. Pochi si
salvano, e sono quelli che scappano. Le somme autorità spirituali sanno solo
parlare di gastronomia, l’ardore civile è cavo e fasullo come la ricchezza che
lo nutre, l’arte è cosa da pagliacci o da aguzzini eppure si elogia l’ipocrita
e si travisa la sincera, l’amore è cosa lontana e perduta ma sospirata da
molti. Scomparso per sempre l’esagerato ma splendido carnevale felliniano: quel
che rimane è un serraglio di bestie grottesche e abiette, bestie mostruose,
animali da sepolcro.
Sommo esponente di questo mondo (e dunque primo a esserne
nauseato) è il Jep Gambardella di Toni Servillo, novello Petronio, che gode
sottilmente delle ipocrisie di cui vive e soffre tremendamente la condanna d’un
animo sensibile. Lo vediamo vagare, perfettamente abbigliato, per le desolate
strade della Roma dormiente: un luogo di bellezze titaniche, inattese e di
fuggevoli visioni che svaniscono come spettri di seta, nella notte (sì, sto
parlando del cameo di Fanny Ardant, commovente). E la condanna non si muove
solo al più facile sottobosco festaiolo ma anche al più insidioso gruppo della
cosiddetta gente di cultura: creature viscidissime e false, vere cellule d’una
metastasi che infesta il cuore del nostro paese.
Sorrentino è il migliore regista italiano oggi. L’unico
maratoneta in una nazione di sciancati, l’enfant prodige che sbugiarda i vecchi
dottori del Tempio, il navigatore che ha l’ardire d’attraversare un oceano e
tornare indietro mentre i suoi connazionali hanno persino paura della vasca di
casa. Unico difetto: il film è interminabile, come anche il suo precedente This must be the place. Centoquarantadue minuti, tutti densissimi, forse un poco
pesanti. Ma ne vale grandemente la pena. Insieme a Tutta la vita davanti di
Virzì, questa La grande bellezza è il film italiano del decennio. Baz Luhrmann,
guarda e piangi: c’è più Gatsby in un film che di Gatsby non parla che in due
ore e rotte di fotoromanzo iperpatinato.
Se ti è piaciuto guarda anche... – La dolce vita (1960) di
Federico Fellini, ovviamente. Ma i film che ci parlano della nostra Italia,
tutti singolarmente disperati, abbondano: dal predetto, sinistro Tutta la vita
davanti (2008) di Paolo Virzì al fuoriclasse Ladri di Biciclette (1948) di
Vittorio de Sica. C’è poi il colosso Roma, città aperta (1945) di Roberto
Rossellini e, per finire, il Mamma Roma (1962) e l’infernale Salò, o le 120 giornate
di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Ma non facciamoci mancare lo spettacolare Il Gattopardo
(1963) di Luchino Visconti.
Scena cult – La performance artistica della bambina, la cui
rabbia contro il mondo viene sfruttata dai suoi genitori per denaro. Una
pugnalata la cuore che si conclude con la stupenda bellezza del colore e della
quiete.
Canzone cult – Bellissima e variegata la colonna sonora. Il
pezzo che, personalmente, m’ha commosso di più è stato il The Beatitudes del
Kronos Quartet.
Regia: David S. Goyer, Jamie Payne, Paul Wilmshurst, Michael
J. Bassett
Cast: Tom
Riley, Laura Haddock, Blake Ritson, Elliot Cowan, Laura Pulver, Gregg Chillin,
Eros Vlahos, James Faulkener, Tom Bateman, Alexander Sidding
Sceneggiatura:
David S. Goyer, Scott M. Gimple, Jami O'Brien, Joe Ahearne, Brian Nelson, Marco
Ramirez, Corey Reed, Sarah Goldfinger
Trama (im)modesta – Anno Domini 1477. Mentre Galeazzo Maria
Sforza, duca di Milano, viene ucciso in un agguato concertato dal papa Sisto
IV, il giovane Leonardo Da Vinci, a Firenze, comincia a mettere in pratica le
intuizioni del suo genio. Lavorando per conto di Lorenzo de’Medici, fra
congiure e complotti d’ogni genere, lo scienziato indaga sulle sue origini,
sulla scomparsa di sua madre e su una misteriosa sette, i Figli di Mitra, di
cui solo pochi eletti, dalla mente eccezionale, possono entrare a far parte.
Muovendosi fra gli eterni quesiti del sapere e della realtà, esplorando
gl’infiniti dello spazio e del tempo, Leonardo scoprirà di avere un destino già
segnato, misterioso, legato alle oscure mire della Chiesa e al misterioso Libro
delle Lamine, che contiene la risposta ai più grandi enigmi della realtà.
La mia (im)modesta opinione – La serietà è la virtù di chi
non ne ha altre. Circondati come siamo da serie tv di sempre crescente qualità
e impegno, tendiamo tutti a scordarci di quanto il più disimpegnato melodramma possa
essere divertente ed entusiasmante. Così è Da Vinci’s Demons: un fantasy
storico, un pulp rinascimentale dove trame inconcludenti e sceneggiature ai
limiti del bizzarro assurgono a vette di divertimento e assurdità tali da
parere la sublimazione assoluta del miglior trash televisivo. I puristi
storceranno il naso, ma la sentenza è presto detta: la serie di Goyer è un cult
assoluto, un sugosissimo polpettone di cyberpunk quattrocentesco dove ci si può
aspettare sempre di tutto, benché nei limiti della più scatenata fantasia
fumettara.
Partiamo dal protagonista: un Leonardo Da Vinci giustamente
detto “idolesco”, incarnato alla perfezione del pensoso istrione di Tom Riley, un
trionfo d'attorialità che speriamo di veder decollare al più presto. Spettacolare
in tutto ciò che fa: dalla sua prima, emozionante apparizione, in cui fa librare
in volo il suo comico assistente Nico sulle ali di un protodeltaplano, fino ai
suoi piani più apocalittici e insensati: bombe al fosforo ricavate dal guano
dei pipistrelli, palombari, devastanti cannoni a ripetizione. Tutto, in questa
serie, è all’insegna dell’intrattenimento più polposo e sapido: al bando la
serietà, di trame o contenuti; al bando coesione e coerenza, troppo poco
divertenti per essere infilate qua dentro. Puro melodramma da manuale, che
sarebbe piaciuto molto ad Alexandre Dumas o al nostro Emilio Salgari.
I momenti di assurda epicità sono innumerevoli: dalle
rocambolesche evasioni dal Bargello di Firenze, agli hobby più abietti del
papa; dal fantastico look del supercattivo Gerolamo Riario, dotato di
occhialetti da sole e fedora ante litteram, alle apparizioni delle superstar
del quattrocento europeo: Ferdinado d’Aragona e Isabella di Castiglia, Tomàs de
Torquemada, Dracula, l’invidioso Botticelli, lo stupendo Federico da
Montefeltro e moltissimi altri. Grazie a una monumentale colonna sonora, a
scenografie in CGI quasi migliori dello strapagatissimo Game of Thrones, la
congiura dei Pazzi non è mai stata così divertente. E c’è davvero qualcuno, là
fuori, capace di perdersi lo spettacolo di un papa che usa l’anello pontificio
come tirapugni? O quello del Conte Riario che sfonda le porte a colpi di
bombarda? O dello stesso Da Vinci che scopre, prima di tutti quanti, le
Americhe? Non siamo seriosi: cediamo alla tentazione di questa serie, non ce ne
pentiremo.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Melodramma storico
condito di sesso e violenza è l’altro capolavoro di Starz, Spartacus (2010)
creato da Steven S. DeKnight. Abbiamo poi il capolavoro del fantasy moderno,
Game of Thrones (2011) di David Benioff e D.B. Weiss e, per il lato più figo della
fantascienza trash, le ultime stagioni del longevissimo Doctor Who (2005) di
Sidney Newman, C.E. Webber e Donald Wilson. Non dimentichiamoci poi i
capolavori trash della nostra infanzia: parlo del meraviglioso Xena (1995-2001)
di John Schulian e Robert Tapert e, ovviamente, del precedente Hercules
(1995-1999) di Christian Williams.
Scena cult – Infinite: l’evasione di Leonardo da Vinci dal
Bargello, la sua spettacolosa entrata in Vaticano, il volo della colombina e,
ovviamente, lo stupendo cliffhanger del finale di stagione.
Canzone cult – Ovviamente lo stupendo tema musicale di Bear
McCreary.