mercoledì 28 marzo 2012

MY OWN PRIVATE IDAHO (1991), Gus Van Sant

USA, 1991
Regia: Gus Van Sant
Cast: River Phoenix, Keanu Reeves, William Richert, Chiara Caselli, Udo Kier
Sceneggiatura: Gus Van Sant


Trama (im)modesta – Mike è un gigolò narcolettico che, ogni volta che pensa alla madre perduta, sprofonda in uno stato di sonno profondo. Scott è il ricco figlio del sindaco di Seattle che, oltre a prostituirsi, si è unito a Bob Pidgeon, una specie di versione per adulti del Fagin di Dickensiana memoria, per furti, divertimenti, insieme alla sua banda di gigolò. Tutti e due partono alla ricerca della madre di Mike, incontrano bizzarri personaggi, attraversano un Oceano per arrivare fino a Roma e si perdono, fino a quando tutti e due troveranno la propria casa.


La mia (im)modesta opinione – Dice Calderòn della Barca: « toda la vida es sueño, y los sueños, sueños son » ovvero, «tutta la vita è un sogno e i sogni son solo sogni». È sogno anche la vita del Mike Waters di River Phoenix (lui e Brad Renfro, sono gli attori che più compiango fra tutte le vittime della gioventù bruciata di Hollywood) che vaga per strade che gli paiono sempre uguali, nel sogno sprofonda all’improvviso ed è mosso dal ricordo vago e inesatto di una madre che non ha mai conosciuto, di un padre che non sente suo e di una vita che è un ripiego, un accomodamento.


Si potrebbe interpretare il film come la metafora di una fuga dall’andamento onirico e picaresco da una strana malinconia verso un passato felice e ormai irraggiungibile, Van Sant avrebbe potuto imbastire un bildungsroman sul tema della ricerca della propria identità nel mondo e di un senso di appartenenza a qualcosa, forse un gruppo sociale, forse una famiglia, e invece crea questa fantasmagoria americana (tutto in questo film è profondamente americano) popolata da creature grottesche, deformi, bislacche e inquietanti che riempie con tutte le sue ossessioni artistiche: l'amore per la sublimità del vuoto, la bellezza ermafrodita, triste e polverosa, dei suoi efebi biondi , la famiglia disfunzionale, l'America dei sobborghi, squallida e grandiosa; il senso di solitudine e malinconia, la ricerca della propria identità individuale e sociale.


Ma la scena finale contraddice tutto: chiudendosi dove è iniziato (o chiudendo una parentesi in cui la storia onirica è compresa), Mike Waters ripete a se stesso di aver già visto quella strada e che forse la strada non cambia mai e che forse quella strada corre in tondo seguendo un circolo immenso, ma non ha fine né inizio, è insensata. Il film dunque si chiude così: con l’insensatezza. E dopo aver formulato questo pensiero, Mike sprofonda di nuovo in quel suo inquietante sogno narcolettico, viene derubato di tutti i suoi averi da due balordi e infine soccorso in una sequenza che rammenta molto l’episodio biblico del buon Samaritano.


E di riferimenti non solo alla religiosità, ma anche all’arte e alla poesia il film è pieno: il film è una dichiaratamente libera (molto libera) interpretazione dell’ Enrico IV di Shakespeare e di passi del Bardo il film è infarcito. Lo stesso può dirsi dell’arte: mentre Mike dorme, Scott Favor (un Keanu Reeves che non si comprende quanto sia convincente e quanto non lo sia) lo sorregge e i due assumono la stessa posa della Pietà di Michelangelo (benché invertita).


Il film procede dunque come un sogno, erratico e vagabondo. Gus Van Sant trasforma l’amplesso in scultura, frulla riadattamento shakespeariano e sesso omosessuale, confessioni private e larvati quesiti filosofici. Ma ciò che sorprende, al di là dell’estetica di Van Sant che trafigge sempre il cuore con la sua commozione per lo squallido, è la gigantesca interpretazione di River Phoenix, attore davvero infinito, capace di creare un personaggio fragilissimo e muscolare, nerboruto e compulsivamente bisognoso d’affetto e di calore umano. Una creatura confusa e mesta, senza passato apparente e senza futuro, che si consuma girando in tondo su se stesso, dorme dove viene e viene, assalito dai suoi tristi sogni.


Il film si distingue anche per la sconfinata abilità del regista che fa conversare i modelli delle riviste erotiche di un locale a luci rosse fra loro dalle copertine delle riviste stesse, che riscrive la geografia dell’America (Mike, in Idaho, vede il monte Hood, ma la montagna è in realtà troppo lontana ed è addirittura coperta da un’altra montagna più grande), riavvolge il tempo, ricuce lo spazio, delira e poi soffre, osserva commosso le lacrime e straniato il grottesco sempre pronto a nascondersi nella vita di ogni giorno. Un film sottile, penetrante, ipnotico e, come tutta la grande produzione di Van Sant, profondamente ed eternamente criptico.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I meravigliosi Gerry (2002) e Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant, perché sono due cult assoluti dove il tema di Van Sant della ricerca di un’identità perduta in un mondo dominato da indifferenza e insensatezza si fa più forte che mai. La voce della luna (1990) di Federico Fellini, per il suo andamento onirico, vagheggiato, sognante, perché è il testamento di Fellini e una gran prova di stile e originalità registica. Strapped (2010) di Joseph Graham, perché è un film bizzarro, labirintico, sottilmente filosofico, affatto compiaciuto dall’erotismo che mette in mostra, un piccolo gioiellino scintillante nell’ambito della cinematografia a sfondo LGBT.


Scena cult – Il funerale di Bob Pidgeon, scena degna di un Jodorowski, triste e delirante, mesta e coloratissima.

Canzone cult – La villana, discotecara, vintage-tamarra canzone Der Adler cantata da un Udo Kier all’apice del trash cult. Insomma, pura apoteosi filmica.

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