USA, 2010
Regia: Rob
Epstein, Jeffrey Friedman
Cast: James
Franco, David Strathairn, Joe Hamm, Aaron Tveit, Mary-Louise Parker, Jon
Prescott, Jeff Daniels
Sceneggiatura: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Trama (im)modesta – 1955. San Francisco,
California. Allen Ginsberg non ha nemmeno trent’anni quando legge per la prima
volta al pubblico il suo poemetto Howl, manifesto della beat generation, eppure
la sua poesia ha straordinario successo e conquista un numero sempre maggiore
di lettori. 1957. L’editore di Ginsberg affronta un processo per oscenità in
cui si mettono in discussione i concetti di poesia, letteratura e oscenità.
L’accusa d’oscenità finirà per cadere. Su tutti questi eventi, la voce di Allen
Ginsberg parla e commenta se stesso, la sua poesia, la sua vita: i
vagabondaggi, le storie d’amore, le illuminazioni d’arte, le vittorie
letterarie.
La mia (im)modesta opinione – Howl non è un film vero e
proprio. Lo si etichetta col nome di “film sperimentale” e, a rigor di logica,
la pellicola di Epstein-Friedman è un film sperimentale ma Howl è qualcosa di
più. Piuttosto che parlare di un poeta (e così evitando la trappola del
biopic), il film dei due registi preferisce concentrarsi sulla poesia vera e
propria. Una poesia che viene commentata letterariamente, viene spiegata e resa
manifesta dalla voce del poeta stesso che narra e si narra, viene resa
sensorialmente visibile tramite lisergiche sequenze animate. Il tutto per
formare una delle visioni più profonde, originali e stranamente sconcertanti
sul mondo dell’arte prodotte in questi ultimi anni. Howl non è un film, dunque,
ma una lezione di letteratura, una lezione di letteratura come non ne vedevo da
anni.
È pauroso come, chissà per quale paradosso, per capire la
beat generation (e forse ogni altro fenomeno culturale) risulti più efficace la
giustapposizione di frammenti di cui l’opera stessa è costituita: il lato
“storico” (ossia la lettura originale del poema e, in sostanza, il processo), il
lato umano (la vita e le esperienze di Ginsberg) e quello più
incomprensibilmente artistico (i versi poetici accompagnati dalle allucinose
animazioni). Lo ripeto: Howl non è un film. Non ha una trama, quelle degli
attori non sono interpretazioni propriamente dette ma piuttosto un prestare la
faccia, come anche il piglio della pellicola è più documentaristico che filmico
(fa moltissimo pensare che Howl sia il primo film vero e proprio di due registi
che, prima, si sono occupati solo di documentari), nel suo senso più stretto.
Va detto comunque che la pellicola è stilosa assai: domina
su tutti James Franco, grandioso Ginsberg, sebbene le scelte di casting siano
assai generose nei confronti della attuale realtà dei fatti. Per quanto
importante come poeta, Ginsberg non era certo un adone, come nemmeno lo era il
suo compagno di vita, Peter Orlovsky, interpretato sullo schermo da un
delicatissimo Aaron Tveit, che però praticamente non spiccica nemmeno una
parola, senza per questo perdere di credibilità. Quanto a Joe Hamm e David
Strathairn, nulla da dire: patinatissimo uno, di infinita classe l’altro,
vederli recitare è come vederli vivere. E l’unica pecca di questo film è quella
allora della mancanza di pathos poetico: non una storia fredda, ma freddolosa.
Il lato visivo è qualcosa di ineccepibile: perfetta fusione
di trip misticheggianti, finissimo B/W e vivida fotografia. Lo stesso può dirsi
per quello musicale, con inafferrabili motivi jazz che schizzano via per ogni
scena. Una simile e così riuscita sperimentazione l’avevo trovata solo in quel
turbinio d’immagini e impressioni che era Io non sono qui, film sulle molte
vite e cimenti del grande Bob Dylan, e di questo film Howl presenta anche gli
stessi difetti: il vago, vaghissimo senso d’inconcludenza, la forse eccessiva
frammentazione e la sempre forse eccessiva complicazione concettuale. Ma a
volte non tutti i film devono essere semplici, a volte è un bene che
sacrifichino l’intrattenimento alla profondità d’indagine e temi e Howl è un
film così.
Se ti è piaciuto guarda
anche... – Dunque, abbiamo per cominciare l’Io non sono qui (2007) di Todd
Haynes. Prodotti della beat generation sono poi Il pasto nudo (1991) di David
Cronenberg, Drug Store Cowboy (1989) di Gus Van Sant, Beat (2000) di Gary
Walkow e il documentario Love always, Carolyn (2011) di Malin Korkeasalo e
Maria Ramström. Per film che trattano del valore della poesia e delle vicende
dei poeti e scrittori, consigliamo Poetry (2010) di Chang-dong Lee, l’incendiaro Quills
(2000) di Philip Kaufman e Paura e delirio a Las Vegas (1998) di Terry Gilliam.
Scena cult – Le
disquisizioni letterarie in aula di tribunale. Illuminanti.
Canzone cult – Non
pervenuta.
Dovrei rivederlo ma ricordo quanto mi piacque già alla prima visione. Un po' ostico, certo, ma comunque bello bello!
RispondiEliminaNon sono sicuro che meriti una seconda visione. La prima basta e avanza. Se poi ti interessa la beat generation, è un altro paio di maniche...
EliminaHai mai letto davvero qualcosa di suo?O saputo niente della sua vita?No perchè sennò di questa fetecchia non parleresti così, davvero.
RispondiEliminaNon conosco nessuno che sappia decentemente di Ginsberg che abbia lontanamente apprezzato..
Ah...e H.C.Tompson NON era un poeta.Ma manco lontanamente...
:)
Non frequento Ginsberg quanto altri autori. E ti assicuro che odio le incongruenze quanto le odi tu. Detto questo, se il film l'ho trovato bello (sebbene un po' prolisso) diciamo che mi concedo il beneficio del dubbio.
EliminaLeggerò meglio Ginsberg e ti dirò!
Carriiiina come maniera di abbozzare....
RispondiElimina;)
Te lo riconosco: in questo sei un drago. Si evince chiaramente da tutte le tue risposte. :D
(Pero' ora il riferimento al'poeta' Tompson levalo,dai...)
Perdona i miei refusi. Nulla più tremendo delle cose scritte di fretta.
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