Regno Unito, USA, 2012
Regia: Martin McDonagh
Cast: Colin
Farrell, Sam Rockwell, Christopher Walken, Woody Harrelson, Tom Waits
Sceneggiatura: Martin McDonagh
Trama (im)modesta – Marty è uno sceneggiatore alcolizzato
che vive a Los Angeles in piena crisi creative. Il suo amico Billy, che rapisce
cani per professione insieme al suo socio Hans, decide di aiutarlo e gli
propone di utilizzare la storia di cronaca di un assassino mascherato che
uccide affiliati della mafia come base per il suo nuovo film: 7 Psicopatici,
appunto. Mentre però Marty comincia a elaborare la sceneggiatura del suo nuovo
film, Billy ha la bella idea di rapire uno shih tzu di nome Bonny, che appartiene
a uno schizzatissimo boss mafioso che farà di tutto per riprenderselo. La
storia procede così, fra coppie di vigilanti che vagano per l’America,
inquietanti quaccheri vendicativi e preti vietnamiti in cerca di vendetta.
La mia (im)modesta opinione – 7 Psicopatici è un film che ha
commesso un errore: si è fermato solo pochi passi prima davanti alla soglia
della genialità. Una sola esagerazione in più, una storia forse ancora più
grande e folle, e sarebbe diventato il principe dei cult underground.
Intendiamoci, nella pellicola di McDonagh abbiamo un triplo scontro formale fra
Tarantino, Guy Ritchie e il primo Terrence Malick (i personaggi che vagano per
il deserto con la luna nascente alle spalle, dopotutto, non possono che essere
una citazione al supercult La Rabbia Giovane). Ciò che rende il film
autenticamente geniale, oltre allo stile di regia di cui più sotto parleremo, è
la perfettamente dosata metanarratività: proprio come nell’ 8½ di Felliniana
memoria, un creativo in crisi affronta un’avventura che sarà proprio il
soggetto della sua opera.
Geniali sono i dialoghi dei personaggi che commentano i
difetti principali del film e della sceneggiatura (l’assoluta inconsistenza dei
personaggi femminili, ad esempio; oppure la mancanza d’azione in un film di
gangster), geniali sono pure gli accorgimenti dello script che mescola in
maniera potentissima la finzione dell’aneddoto e la realtà della vita.
Spettacolari sono poi i mille camei che costellano il film coi volti di Michael
Pitt, Harry Dean Stanton, Tom Waits, Crispin Glover, Gabourey Sidibe e Olga
Kurylenko. E la maggiore bellezza di tutto ciò, è che i vari frammenti in cui
vediamo alcuni di questi volti, ossia gli aneddoti del prete, del quacchero e
di Zachariah, sono film spettacolari dentro un altro film: inquieta come il
miglior thriller la storia del quacchero e della sua folle vendetta (pare un
racconto di Poe, a dirla tutta); la storia di Zachariah è una stupenda
girandola di lisergica violenza e ironia sagace che culmina in una scena onirica
singolarmente toccante; pure toccante è la storia del prete vietnamita che si
risolve, nel finale, in complessa novella morale.
La regia, poi, è di incredibile bravura nella capacità di
saltare di genere in genere con disinvoltura e di culminare in momenti di
visionarietà così perfetta e tragicomica che tradiscono un talento di certo
sopra la media. Ma il nostro McDonagh ci aveva abituato proprio bene sia col
suo corto (premiato con un Oscar) Six Shooter, sia col suo brillante In Bruges,
che aveva ricevuto una nomination presso l’Academy come migliore sceneggiatura
originale. Passando dalla regia al cast, anche qui gli applausi trionfano, ma
non del tutto: se infatti Christopher Walken regala un personaggio
indimenticabile, insieme al sempre stupendo Woody Harrelson, Sam Rockwell e
Colin Farrell paiono vagamente sottotono. Il primo, tanto abituato a fare la
parte dello schizzato, si contiene un po’ troppo, il secondo non è mai stato un
gran che e dunque passa quasi inosservato.
Ovviamente alla pellicola non mancano difetti: su tutti, la
dichiaratissima mancanza di omogeneità e robustezza, il suo ostinato spezzarsi
e dividersi in storie parallele, sottostorie, retrostorie lo condanna a una
volatilità pericolosa perché si smette di focalizzarsi sul nucleo principale
che, come già detto, avrebbe meritato una maggiore grandezza rispetto alle
trame-satellite. Per il resto il film è uno spettacolo assoluto, un cult
semiriuscito che m’arrischio a dichiarare imperdibile, coronato da una colonna
sonora e una fotografia esaltanti e, soprattutto, da uno scorrettissimo
sarcasmo verso la cultura pop che va dal paragonare Patty Hearst a un cagnolino
fino all’immaginare una fantasiosissima risoluzione per il misterioso caso del
serial killer Zodiac, ucciso, come s’immagina nel film, da Zachariah e Maggie
nel loro ultimo colpo. Unica avvertenza: i contenuti del film che state per
guardare sono violenti, una violenza iperrealistica ed estetizzata, al modo di
Tarantino, ma non per questo meno scioccante.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente si consiglia
la precedente pellicola di McDonagh, ossia In Bruges (2008). Per film su
criminali schizzoidi consigliamo poi Le Iene (1992), Pulp Fiction (1994) e
Jackie Brown (1997) di Quentin Tarantino, l’eccelso bastardo Assassini Nati
(1994) di Oliver Stone e Una vita al massimo (1993) di Tony Scott, ma non
dimentichiamo le genialità inglesi Lock & Stock (1998), Snatch (2000) e
Revolver (2005) di Guy Ritchie.
Scena cult – Oltre al sulfureo incipit, vere gemme della
pellicola sono i due aneddoti del quacchero e di Zachariah e le scene dei tre
protagonisti nel paesaggio lunare del deserto.
Canzone cult – In mezzo a tanta bellezza, non posso che
scegliere il pezzo che apre il film: Angel of Death di Hank Williams.
Mi è piaciuta molto la prima parte e l'idea di base, poi si perde un pò...
RispondiEliminaDecisamente si perde sì, ma a livello di trama. La qualità dei dialoghi rimane per fortuna sempre alta.
Eliminapure per me buona partenza, ma prosieguo non eccezionale.
RispondiEliminaho preferito decisamente in bruges...
In Bruges è di certo più brillante. Aspettiamo solo la classica opera terza che casserà o promuoverà il nostro regista!
EliminaDevo ancora vederlo, ma il tuo post mi ha incuriosito senza dubbio.
RispondiEliminaIl film vale assolutamente la pena di una visione, ma prima ti consiglio In Bruges, è assolutamente migliore.
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