USA, 2011
Regia: J.C.
Chandor
Cast: Kevin
Spacey, Jeremy Irons, Zachary Quinto, Paul Bettany, Stanley Tucci, Penn
Badgley, Demi Moore, Simon Baker
Sceneggiatura: J.C. Chandor
Trama (im)modesta – Quando Eric Dale, capo del settore
rischi di un colosso del credito finanziario di Wall Street, viene licenziato
in tronco, fa appena in tempo a passare all’analista Peter Sullivan una
chiavetta con all’interno un lavoro lasciato a metà. Tornando sul lavoro del
capo, più tardi, Peter scopre che Dale aveva previsto un crollo delle azioni
pronto a demolire con gli interessi la società per cui lavorava. È emergenza.
Nella notte gli alti papaveri della società si riuniscono, prendono atto del
vicino naufragio e si confrontano su una scelta: svendere tutte le azioni,
causando una metastasi del credito e la rovina di milioni di investitori, o
colare a picco insieme alla nave? I pareri sono discordanti, ma il verdetto è
presto pronunciato: la catastrofe incombe su tutto il mercato.
La mia (im)modesta opinione – Margin Call è un film tragico,
un dramma sofocleo che, curiosamente, rispetta pure le tre unità (di tempo,
d’azione e di spazio) che costituivano il canone della tragedia greca. Un götterdämmerung
notturno da colletto bianco che vede gli scafisti del mondo (diciamocelo pure, è il denaro che fa
girare l’universo) decidere fra le proprie sorti e quelle dei passeggeri che
insieme a loro solcano il mare sul barcone dell’economia. E sebbene il livello
di teatralità del film sfiori pericolosamente lo zero, la storia è tutta
attraversata dai temi trasversali e dalle allegorie della rovina e del crollo,
nel senso più fisico del termine. Le vertiginose inquadrature dei grattacieli
newyorchesi, gli strapiombi da centesimo piano e persino una svelata scena in
cui il personaggio di Paul Bettany sentenzia sul gettarsi dai tetti, tutte
quante suggeriscono il pericoloso tema della caduta, del tracollo e del
baratro.
I personaggi che animano la vicenda non sono meno tragici.
Ci sono i più umani, come quelli interpretati da Stanley Tucci, Zachary Quinto
e Kevin Spacey, che riescono a percepire, al di là della cruda moneta, la
presenza di un’umanità la cui sicurezza da loro dipende; ci sono quelli più
avidi e secchi, come quelli di Simon Baker e Penn Badgley, che aspirano al
confortante freddo dell’oro; e poi ci sono i disillusi, in questo caso il
broker Paul Bettany e il capo dei capi Jeremy Irons, per cui il problema non è
perdere o guadagnare, ma sopravvivere. E quello di Jeremy Irons è forse il
personaggio più emblematico, a cui è affidata la chiave di lettura dell’intero
film. Vera maschera d’Arpagone, arcidiavolo ed eminenza grigia, il John Tuld di
Jeremy Irons va oltre il semplice concetto di avidità: la crisi è sempre
esistita ed è sempre tornata, lui dice, la storia ripete sempre lo stesso giro
implacabile, l’etica è un problema obsoleto perché inutile è l’eroismo, l’unico
obiettivo sensato è la sopravvivenza; vanità tutto il resto.
Ed è proprio questo lento crescendo di dissidio interiore e
mercantilizio (per dirla in questo modo) con la duplice acme finale
dell’ineluttabilità della sventura, da una parte, e, dall’altra,
dell’attaccamento alle piccole cose, quelle di nessun valore (in mezzo a tutti
i disastri del mondo, Kevin Spacey soffre per la morte del proprio cane) che
rende un film altrimenti freddo, un’allegoria del mondo. Il pessimismo è amaro,
la pietà lontana, ma non per questo il film è perfetto. Sebbene infatti la
pellicola dell’autore/regista Chandor riesca a volare alto, le spinte più
tragiche e umane finiscono per sfociare in una necessaria (e originale)
freddezza da ragioniere: il film è lento, la trama è pressoché immobile, i
personaggi ben sbozzati ma, tutto sommato, abbastanza dimenticabili. Questo,
dunque, il limite principale della pellicola che però, nel suo voler essere
assolutamente moderna e attaccata fino alla minuzia alla realtà dei fatti, si
concede momenti d’alta significanza: Demi Moore piangente sullo sfondo
dell’alba di Manhattan, il cinico contrasto fra i due direttori d’azienda e la donna
delle pulizie dentro l’ascensore, le amarissime considerazioni di Zachary
Quinto e Paul Bettany sul mondo e sul denaro.
Per spiegare tutto questo, Chandor rinuncia totalmente
all’artificio. Il film è naturale, nudo e crudo, le strutture narrative sono
denudate e palesi, i personaggi spiegati in modo piano e meditatamente naive e
la denuncia sociale serpeggia liberamente per tutte le scene del film, ma con
una certa discrezione, grazie al cielo, evitando inutili additamenti e
faziosità. Qui sono i personaggi crudeli che si autoaccusano; ma, sebbene
esista un’accusa, non ci sono né giudice né giuria. Il mondo è così com’è e
ogni rospo lo dobbiamo ingoiare. Per questo suo carattere iperintellettuale
(nel senso che quelle della crisi sono teorie, elucubrazioni e calcoli) il film
cade ancora una volta nella trappola della freddezza. Peccato non sia dunque
così immediatamente entusiasmante ma molti gran bei film colpiscono più in
testa che in pancia. Ci accontenteremo e, nel frattempo, non dimenticheremo questo
Margin Call.
Se ti è piaciuto guarda anche... – I principi dell’economia
al cinema sono, senza alcun dubbio, Wall Street (1987) e Wall Street: il denaro
non dorme mai (2010) di Oliver Stone. Altro cinico (e freddo) ritratto della
società odierna è il recente Le idi di Marzo (2011) di George Clooney. Abbiamo
poi Capitalism: A Love Story (2009) di Michael Moore, il televisivo Too Big to
Fail (2011) di Curtis Hanson, Inside Job (2010) di Charles Ferguson e The Flaw
(2010) di David Singleton.
Scena cult – Sul podio sta il monologo di Jeremy Irons sulla
natura del denaro e della storia, in seconda posizione troviamo Demi Moore che,
piangendo, contempla l’alba e, in terza, la scena di Paul Bettany sul tetto.
Canzone cult – Ovviamente la stupenda Wolves dei Phosphorescent.
La scena in cui Stanley Tucci sui gradini della sua casa di Brooklyn Heights fa il discorso del tempo risparmiato grazie al ponte che ha progettato, già da sola vale tutto il film.
RispondiEliminaIn effetti la quantità di poesia abilmente dissimulata non è affatto indifferente...
EliminaBel film: preciso, coinvolgente, senza fronzoli o eccessi arriva dritto al punto.
RispondiEliminaIl minimalismo è un bene. Il film è stupendo e io mi preoccupo dell'oggettività, personalmente preferisco i "meloeroici furori".
Eliminagrandissimo film, una delle sceneggiature più acute degli ultimi tempi...
RispondiEliminaè vero, è un pochino freddo, ma nella sua dirompente attualità a me ha colpito parecchio anche alla pancia. come un pugno ben assestato
Dramma moderno. Ho trovato molto interessante come ti abbia fatto pensare a Collateral. L'atmosfera d'attesa e d'avvento è proprio similissima e ugualmente suggestiva.
EliminaGran film e gran sceneggiatura.
RispondiEliminaE post davvero ottimo. Bravissimo!
Rendo solo conto degli aspetti più essenziali del film. Il che non è molto. Il linguaggio è fiorito ma si tratta solo di un vezzo infantile. Mille grazie, comunque.
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