lunedì 11 marzo 2013

HOWL (2010), Rob Epstein, Jeffrey Friedman


USA, 2010
Regia: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Cast: James Franco, David Strathairn, Joe Hamm, Aaron Tveit, Mary-Louise Parker, Jon Prescott, Jeff Daniels
Sceneggiatura: Rob Epstein, Jeffrey Friedman


Trama (im)modesta – 1955. San Francisco, California. Allen Ginsberg non ha nemmeno trent’anni quando legge per la prima volta al pubblico il suo poemetto Howl, manifesto della beat generation, eppure la sua poesia ha straordinario successo e conquista un numero sempre maggiore di lettori. 1957. L’editore di Ginsberg affronta un processo per oscenità in cui si mettono in discussione i concetti di poesia, letteratura e oscenità. L’accusa d’oscenità finirà per cadere. Su tutti questi eventi, la voce di Allen Ginsberg parla e commenta se stesso, la sua poesia, la sua vita: i vagabondaggi, le storie d’amore, le illuminazioni d’arte, le vittorie letterarie.


La mia (im)modesta opinione Howl non è un film vero e proprio. Lo si etichetta col nome di “film sperimentale” e, a rigor di logica, la pellicola di Epstein-Friedman è un film sperimentale ma Howl è qualcosa di più. Piuttosto che parlare di un poeta (e così evitando la trappola del biopic), il film dei due registi preferisce concentrarsi sulla poesia vera e propria. Una poesia che viene commentata letterariamente, viene spiegata e resa manifesta dalla voce del poeta stesso che narra e si narra, viene resa sensorialmente visibile tramite lisergiche sequenze animate. Il tutto per formare una delle visioni più profonde, originali e stranamente sconcertanti sul mondo dell’arte prodotte in questi ultimi anni. Howl non è un film, dunque, ma una lezione di letteratura, una lezione di letteratura come non ne vedevo da anni.


È pauroso come, chissà per quale paradosso, per capire la beat generation (e forse ogni altro fenomeno culturale) risulti più efficace la giustapposizione di frammenti di cui l’opera stessa è costituita: il lato “storico” (ossia la lettura originale del poema e, in sostanza, il processo), il lato umano (la vita e le esperienze di Ginsberg) e quello più incomprensibilmente artistico (i versi poetici accompagnati dalle allucinose animazioni). Lo ripeto: Howl non è un film. Non ha una trama, quelle degli attori non sono interpretazioni propriamente dette ma piuttosto un prestare la faccia, come anche il piglio della pellicola è più documentaristico che filmico (fa moltissimo pensare che Howl sia il primo film vero e proprio di due registi che, prima, si sono occupati solo di documentari), nel suo senso più stretto.


Va detto comunque che la pellicola è stilosa assai: domina su tutti James Franco, grandioso Ginsberg, sebbene le scelte di casting siano assai generose nei confronti della attuale realtà dei fatti. Per quanto importante come poeta, Ginsberg non era certo un adone, come nemmeno lo era il suo compagno di vita, Peter Orlovsky, interpretato sullo schermo da un delicatissimo Aaron Tveit, che però praticamente non spiccica nemmeno una parola, senza per questo perdere di credibilità. Quanto a Joe Hamm e David Strathairn, nulla da dire: patinatissimo uno, di infinita classe l’altro, vederli recitare è come vederli vivere. E l’unica pecca di questo film è quella allora della mancanza di pathos poetico: non una storia fredda, ma freddolosa.


Il lato visivo è qualcosa di ineccepibile: perfetta fusione di trip misticheggianti, finissimo B/W e vivida fotografia. Lo stesso può dirsi per quello musicale, con inafferrabili motivi jazz che schizzano via per ogni scena. Una simile e così riuscita sperimentazione l’avevo trovata solo in quel turbinio d’immagini e impressioni che era Io non sono qui, film sulle molte vite e cimenti del grande Bob Dylan, e di questo film Howl presenta anche gli stessi difetti: il vago, vaghissimo senso d’inconcludenza, la forse eccessiva frammentazione e la sempre forse eccessiva complicazione concettuale. Ma a volte non tutti i film devono essere semplici, a volte è un bene che sacrifichino l’intrattenimento alla profondità d’indagine e temi e Howl è un film così.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Dunque, abbiamo per cominciare l’Io non sono qui (2007) di Todd Haynes. Prodotti della beat generation sono poi Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg, Drug Store Cowboy (1989) di Gus Van Sant, Beat (2000) di Gary Walkow e il documentario Love always, Carolyn (2011) di Malin Korkeasalo e Maria Ramström. Per film che trattano del valore della poesia e delle vicende dei poeti e scrittori, consigliamo Poetry (2010) di Chang-dong Lee, l’incendiaro Quills (2000) di Philip Kaufman e Paura e delirio a Las Vegas (1998) di Terry Gilliam.


Scena cult – Le disquisizioni letterarie in aula di tribunale. Illuminanti.

Canzone cult – Non pervenuta.

6 commenti:

  1. Dovrei rivederlo ma ricordo quanto mi piacque già alla prima visione. Un po' ostico, certo, ma comunque bello bello!

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    1. Non sono sicuro che meriti una seconda visione. La prima basta e avanza. Se poi ti interessa la beat generation, è un altro paio di maniche...

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  2. Hai mai letto davvero qualcosa di suo?O saputo niente della sua vita?No perchè sennò di questa fetecchia non parleresti così, davvero.
    Non conosco nessuno che sappia decentemente di Ginsberg che abbia lontanamente apprezzato..
    Ah...e H.C.Tompson NON era un poeta.Ma manco lontanamente...


    :)

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    1. Non frequento Ginsberg quanto altri autori. E ti assicuro che odio le incongruenze quanto le odi tu. Detto questo, se il film l'ho trovato bello (sebbene un po' prolisso) diciamo che mi concedo il beneficio del dubbio.
      Leggerò meglio Ginsberg e ti dirò!

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  3. Carriiiina come maniera di abbozzare....
    ;)
    Te lo riconosco: in questo sei un drago. Si evince chiaramente da tutte le tue risposte. :D

    (Pero' ora il riferimento al'poeta' Tompson levalo,dai...)

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    1. Perdona i miei refusi. Nulla più tremendo delle cose scritte di fretta.

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