Italia, 2010
Regia: Gabriele Salvatores
Cast: Fabio de Luigi, Valeria Bilello, Diego Abatantuono,
Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy, Carla Signoris, Corinna Agustoni,
Gianmaria Biancuzzi, Alice Croci
Sceneggiatura: Alessandro Genovesi, Gabriele Salvatores
Trama (im)modesta – Ezio è uno sceneggiatore indeciso. Ha
una bella storia: due ragazzi, entrambi sedicenni che non potrebbero essere più
diversi, che decidono di sposarsi. Due famiglie diversissime: una appartiene
all’altissima borghesia milanese, un’altra di classe media. Una bella storia,
si diceva, ma senza sviluppo o finale. Dietro la protesta dei personaggi, Ezio
deciderà di infilare se stesso nella storia, salvo per poi pentirsene un’ultima
volta. Ma il finale ci sarà, e dei più lieti. Perché se la vita è sogno, sogno
è anche il risveglio. E quelle figure che ci sorridono da sotto il guanciale, o
dietro la cortina fuggevole d’un sogno a occhi aperti, non sono meno reali d’un
gabbiano inconsulto che veleggia bianco sul cielo azzurro dell’estate milanese.
La mia (im)modesta opinione – Un’assolata corsia d’ospedale.
Ecco che mi pare il cinema italiano d’oggi. E fra truci epidemie, infami
diarree, disperati gesti di lamento e cancri implacabili, ci deve pur essere
qualcuno che guarisce e si salva. Qualcuno trova la salute con l’aria più
salubre d’altre longitudini (qualcuno ha detto Paolo Sorrentino?), qualcuno si
bea del melodramma del proprio male, come un Tornatore d’altri tempi; qualcuno
guarisce e basta. Sarà quella strana miscela di nuove farmacopee e inclita
spinta alla vita, ma qualcuno è capace di guarire e, soprattutto, di ricordare.
Salvatores c’è riuscito.
C’è tutto il cinema italiano, nel suo Happy Family. C’è la
lirica circense di Fellini, la spezia esotica di un tardivo Wes Anderson, forse
anche le poesie senza requie di Antonioni e De Sica. C’è Milano, non Roma. E
questo è importante. Non la capitale vetusta, non la sua bellezza molle e
lontana; ma la metropoli giovane, dalle vie scattanti, dai mali moderni. Eppure
quella di Happy Family non è una storia milanese, è una storia italiana e, più
che italiana, una storia universale. E Salvatores riesce a narrarla, con
malizie e amarezze, insaporendola d’un aroma che nessuno sarebbe capace di
confondere con un altro.
C’è la visione onirica d’alta significanza, il lirismo d’un
bianco e nero che abbraccia la placida gloria sia de La dolce vita che la
cupezza de Ladri di biciclette. Manifesto e memento, dunque, il film di
Salvatores, ma senza nemmeno il reazionario veleno d’un passatismo eccessivo:
l’occhio spazia dovunque, dunque anche al presente. E allora ci troviamo
davanti alle tavolate di Ozpetek e agli imbastimenti sontuosi e le nevrosi altoborghesi de I
Tenembaum. Ma nemmeno Salvatores dimentica se stesso: c’è tutto quello che a
lui è sempre piaciuto. Gli sconfinati spazi del mare luminoso, i rimpianti e le
nostalgie, le stupende impennate al di sopra delle righe...
Molti lo definirebbero un film manierato. Ebbene? La maniera
è quella che ci salva la vita quando una mareggiata di banalità ci spinge la
testa sotto la cresta dell’onda. Quando mi capita di vedere un bel film sono
emozionato, tutt’al più; con Happy Family sono felice: siamo ancora capaci, noi
italiani, di fare qualcosa di bello e di nostro, di produrre qualcosa che abbia
anima e pensiero, che sappia guardare al passato senza scordare il presente o
sperare in un futuro migliore. Perché questo siamo noi italiani, un popolo di
sognatori che non vuole mai svegliarsi e lotta, lotta indefessamente pur
d’abbracciarsi un minuto di più a quelle lenzuola ormai rancide che solo un
tempo lontano furono capaci di accoglierci.
Di tutto il resto non parlerò: il cast, le simmetrie e le
inquadrature. Sarebb, e scontato, sarebbe come dire che l’Italia è al passo con
il resto del mondo. Non lo è. Happy Family è un film fortunato, uno che si è
salvato, ma è uno dei pochi. Temo (e forse a ragione) uno degli ultimi. La
speranza, allora, è l’unica compagna che ci resta. Una compagna che è l’ultima
a morire ma la prima a nascondersi. Concludo con brevità: guardate Happy
Family, non sarà il vostro preferito, ma l’ameremo come uno dei pochi
superstiti al naufragio che ha ucciso tutti i nostri cari.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Nonostante i tempi che
corrano siano indubbiamente bui, l’eccellenza italiana poco vuole saperne di
sopirsi. Consiglio dunque il Gomorra (2008) di Matteo Garrone, La Grande
Bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, le Mine Vaganti (2010) di Ferzan Ozpetek,
il Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Strizziamo l’occhio anche al
passato glorioso: La Dolce Vita (1960) e l’Amarcord (1979) di Federico Fellini,
i Ladri di Biciclette (1949) di Vittorio de Sica, La Notte (1961) di
Michelangelo Antonioni e Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini (si nota che
sono un fan di Mastroianni?)
Scena cult – Lo stupendo intro alla Wes Anderson e la
discussione sulla vita fra Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio.
Canzone cult – In mezzo a un tripudio di Paul Simon &
Art Garfunkel, io segnalo il commovente (sebbene rigidamente eseguito) Notturno in Do Minore di Frédéric Chopin.