venerdì 8 novembre 2013

TWO MOTHERS (2013), Anne Fontaine


Francia, Australia, 2013
Regia: Anne Fontaine
Cast: Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel, James Frecheville, Ben Mendelsohn
Sceneggiatura: Christopher Hampton, Anne Fontaine


Trama (im)modesta – Lil e Roz sono amiche fin dall’infanzia. Il loro legame è tanto forte da essere tacitamente passionale, assoluto. Vivono da tutta la vita su una spiaggia d’inverosimile bellezza, anche i loro due figli, Ian e Tom, sono amici praticamente da sempre. Ma gli anni passano, le due, da giovani madri, diventano splendide signore di mezz’età, i loro figli due ventenni altrettanto belli. All’improvviso scatta qualcosa, un’attrazione, qualcosa che non sarebbe mai dovuta innescarsi: Roz s’innamora del figlio di Lil, Lil del figlio di Roz. Le due ne parlano, si trovano stranamente soddisfatte della paradossale situazione. Ma il tempo continua a scorrere e il complicato ménage à quatre non potrà durare per sempre...


La mia (im)modesta opinione – S’è detto e ridetto molto su Two Mothers, ultima fatica di Anne Fontaine, regista francese da sempre interessata ai meandri più oscuri della psiche femminile. Molti hanno bollato il suo film come puro trash, un’opera pseudoerotica per signore, una storia conturbante e perversa. È vero. Ma in questo film io ho visto anche di più di un semplice, ozioso esercizio sui pruriti sessuali di due piacenti signore borghesi. Two Mothers è stato accusato di fare psicologia spicciola, di blandire un tabù come questo con un approccio fin troppo carezzevole ed idilliaco per i gusti dei più, di essere in pratica una soap opera arricchita da una grande regia e intensissime interpretazioni. Io non la penso così.


La prima parte del film, quella che descrive lo sbocciare della spinosa situazione, è effettivamente spiazzante per la sua inverosimiglianza. Entrambe le donne, invece di andare su tutte le furie, esitano solo un poco prima di gettarsi nello spinoso entanglement sentimentale l’una con il figlio dell’altra. Ed ha ragione il critico Wesley Moss ad arguire che la storia sarebbe stata di tutt’altro appeal se al posto delle due bionde mozzafiato ci fossero state le ben più modeste Kathy Bates e Barbra Streisand e i due figli non fossero stati due avvenenti surfisti australiani, ma io credo che la questione sia più complessa di così.


Il film è praticamente basato su questi difetti. Si poggia per intero sulla bellezza patinata di luoghi e protagonisti, né al di fuori di questa avrebbe particolare ragion d’essere. E trovo io stesso scandalosa la maniera in cui è presentato questa sorta di incubo edipico. Ma questo diventa un punto di vantaggio per la partenza del film: era dai tempi de La Pianista di Haneke che non provavo un turbamento morale talmente sottile e profondo. Una volta che lo spettatore è preso all’uncino, meravigliato e terrificato insieme, la Fontaine sferra il suo colpo. E nella seconda ora della pellicola la vicenda si capovolge rimanendo stranamente la stessa.


Adesso i loro figli sono grandi, devono vivere la propria vita, devono per forza uscire dall’utero ibrido di questo sogno estivo in cui sono rimasti raggomitolati due anni. Entrambi si sposano, entrambi hanno figli. E si direbbe allora che il peggio è passato, che il legame s’è freddato ed è morto come era giusto che accadesse. Sbagliato, terribilmente sbagliato. La relazione in cui tutti e quattro sono sinistramente allacciati è inestricabile, adamantina. Tutti gli altri personaggi della storia non sono semplicemente esclusi da questo rapporto, ma lo spettatore li sente come spiacevoli incomodi, addizioni inutili a un rapporto che, per quanto profondamente sbagliato su tutti i livelli, trovava una sua perfetta armonia chiuso com’era in se stesso.


Il risultato è il più sognante di tutti. Estate per sempre, sogno perpetuo. Le convenzioni sociali, anche le più salde e universalmente riconosciute, crollano come un castello di carte. Non c’è spazio, in questo film, per il sentire comune, per il socialmente accettabile. Esistono cose talmente viscerali e sanguigne, cose che esistono e basta con così profonda prepotenza che negano l’esistenza di qualsiasi altra istituzione o magistero. Il rapporto d’amore fra le madri e i figli è davvero edipico, nel senso più sofocleo del termine: deve semplicemente accadere, non può essere eluso. Tutto odora d’atavico, di destinato, di scritto nel sangue stesso dei suoi protagonisti. E interessante è vedere come le figlie di Ian e Tom siano anch’esse due bambine, in tutto simili alle versioni bambine di Lil e Roz che il film ci mostra nel suo incipt.


L’agognato ritorno all’infanzia, la pace della carne, il riposo dello spirito. Una giovinezza che è sempreverde. Tutto condito con sottile perversione e grande scavo psicologico sia da parte della regia che da parte del cast mozzafiato. La prima coppia gioca tutta sul contrasto delle bellezze: maestosa e olimpica è la Giunone di Robin Wright, contrapposta a Naomi Watts, creatura eterea e nervosa. I loro due figli non sono certo da meno. Xavier Samuel (attore che promette grandissime cose) è completamente a suo agio nella parte d’efebo languoroso e passionale, mentre la sua controparte, il più membruto James Frecheville, è placido come uno specchio d’acqua, dietro i suoi occhi verdi si nasconde una passione freddamente scandita, calcolata.


Tutti bellissimi, tutto bellissimo. L’ambientazione stessa è da cartolina. Anne Fontaine è impetuosamente innamorata del glorioso paesaggio del New South Wales, delle sue spiagge infinite, delle sue onde di lapislazzulo. È innamorata degli sguardi delle due protagoniste e dei corpi d’atleta di Samuel e Frecheville. Quella ricercata dal film è raramente una bellezza costruita, artisticamente complessa quanto più un richiamo ancestrale alle meraviglie della Natura. Proprio la Natura, la spettacolare vista sulle baie australiane, sul potere delle onde domate dalle tavole da surf, è avvertita come una quinta protagonista del film – un film che è pieno di luce dorata, grazie a una fotografia radiosa, travolgente.


Che si legga in Two Mothers ciò che si vuole. Che lo si accusi di tutto: morbosità, celebrazione dell’immorale, faciloneria narrativa. Ma quello della Fontaine è un film profondamente francese, riflessivo, intuitivo, gonfio d’innuendi e pacate caratterizzazioni, tutte affidate alle due fuoriclasse Robin Wright e Naomi Watts che hanno ruoli difficilissimi: un filo di emotività in più e la pellicola sarebbe diventata un melodramma urlato di gusto balordo, un filo di emotività in meno e avremmo avuto davanti un prodotto facilmente sensazionalistico. Invece la regia è elegantissima, le interpretazioni calibrate con una perfezione che non vedevo da tempo, la sceneggiatura convenientemente essenziale eppure profonda.


Two Mothers è un film che ho trovato difficile, ammorbante. Malioso e spaventoso insieme, una vera sfida gettata in faccia alla morale comune. Probabilmente sarò il suo unico difensore, poco m’importa. Ho voluto detestare questo film con tutte le mie forze e non ci sono semplicemente riuscito. Troppo coinvolgente, troppo fine per essere una bufala. Magari è una mia impressione, magari è vero quello che dice il resto del mondo. Ma in fondo sono sempre stato un tipo dai gusti cavillosi e dagli strambi capricci. Invito tutti a guardarlo e dare un giudizio, entusiasta o disgustato che sia. Ma, delusione o no, non è un film che non vale la pena guardare.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ho citato La Pianista (2001) di Michael Haneke, come analisi della psiche femminile assai vicina a questo film. Altro spettacolare studio è il conturbante Diario di uno scandalo (2006) di Richard Eyre. Altrettanto fascinoso è il fantascientifico Womb (2010), Benedek Fliegauf ed impossibile sarebbe non citare il classico Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott. Non dimentichiamo il prezioso Il giardino delle vergini suicide (1999) di Sofia Coppola e il più indipendente e torbido Cracks (2009) di Jordan Scott. Assai consigliati sono anche Swimming Pool (2003) di François Ozon e Nathalie... (2003) sempre di Anne Fontaine.


Scena cult – Gli ultimi quindici minuti. L’ultima sequenza è di rara intensità.

Canzone cult – Il leitmotiv In These Shoes? di Kirsty MacColl

5 commenti:

  1. Mah, ti dirò: io l'ho visto in lingua un mesetto fa e non ti saprei dire come mi è sembrato. Strano. Se nel bene e nel male, non so dirtelo ancora. Come dici tu, tutto molto bello e tutti molto belli. Trasuda bellezza allo stato puro, dalle splendide location agli attori - che, oltre ad essere tutti lontani da noi comuni mortali, ho trovato anche straordinariamente bravi. Come ho accennato in una piccola recensione che ho scritto, ma che ancora non riesco a pubblicare, ricordano un po' i protagonisti di Laguna Blu: fuori dal tempo, fuori dal mondo. Creature che vivono solo in estate. Ripeto, strano. Ma Anne Fontaine mi piace.

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    1. Magari fosse sempre estate, come nel film... Capisco ti sia parso strano, non è certamente un film sereno e placido. Ma trovo sia giusto che una qualsiasi opera, specialmente cinematografica, riesca a dar da pensare allo spettatore. Peccato che il trailer italiano lo restituisca come una sorta di storiella pruriginosa.

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