giovedì 24 gennaio 2013

AMERICAN HORROR STORY: ASYLUM (2012-2013), Ryan Murphy, Brad Falchuk


USA, 2012-2013
Regia: Bradley Buecker, Michael Uppendahl, Alfonso Gomez-Rejon, David Semel, Michael Rymer, Michael Lehmann, Jeremy Podeswa, Craig Zisk
Cast: Jessica Lange, Sarah Paulson, Evan Peters, Zachary Quinto, Lily Rabe, James Cromwell, Lizzie Brocheré
Sceneggiatura: Ryan Murphy, Brad Falchuk, Tim Minear, James Wong, Jennifer Salt, Jessica Sharzer


Trama (im)modesta – 1964. L’ambiziosa giornalista lesbica Lana Winters conduce un reportage sul manicomio Briarcliff, gestito da religiosi e tenuto in una stretta di ferro dall’implacabile Sorella Jude. È chiaro che qualcosa non vada, al manicomio, dato che sempre più numerosi pazienti scompaiono senza lasciare traccia durante i turni di notte del misterioso dottore Arthur Arden, un uomo dal passato oscuro, forse legato agli esperimenti nazisti sui prigionieri di Auschwitz, forse al centro di indicibili complotti e maneggi di governo che l’hanno fatto rifugiare negli Stati Uniti alla fine della guerra. Proprio nel giorno in cui Lana si reca a Briarcliff, un efferato serial killer viene internato: Bloody Face, responsabile della morte e dell’orrenda tortura di tre donne innocenti. Accusato dei crimini è Kit Walker, giovane uomo la cui moglie è scomparsa a suo dire per mano di alieni, che l’avrebbero rapita. Ma Kit è innocente, Bloody Face è ancora a piede libero. Lana vorrebbe indagare ancora, ma Sorella Jude la fa internare nel manicomio a causa del suo lesbismo. E sarà lì che Lana si troverà al centro di una girandola di orrori senza fine.


La mia (im)modesta opinione – L’anno scorso la prima stagione di American Horror Story ci aveva folgorati, ma ci aveva lasciato tutti disattesi. Almeno personalmente, non m’era mai capitato di avere davanti un magma così travolgente di citazioni e rimandi culturali imbrigliato in una contortissima ma cristallina struttura narrativa. Flashback e anticipazioni, colpi di scena incredibili si mescolavano a incredibili stranezze, come Rubber Man, il sanguinario fantasma vestito interamente di una tuta di nero, e, dall’altra parte, il personaggio di Tate, insieme fragilissimo e psicopatico, che da solo valeva l’intera serie, un vero capolavoro di caratterizzazione. Certo, era un primo esperimento e, sebbene i risultati siano stati altissimi, la serie finiva per sforare nell’involontario ridicolo, con un’accumulazione di morti e spettri a destra e a manca che si concludeva in un finale oggettivamente frustrante. Gli autori, così, hanno avuto la brillante idea: una serie antologica. Ogni stagione è una storia a sé stante, ma i visi rimangono quelli a noi più familiari. Così, dopo la fosca casa infestata della prima stagione, siamo giunti ai gradini del cupo e folle Briarcliff Manor.


Gli autori adesso sapevano che la loro storia doveva essere limitata a un giro di valzer di soli tredici episodi. Per questo la seconda stagione di American Horror Story appare ben più calibrata e precisa della prima, anche se non gli mancano evidenti errori di default dovuti alla volontà degli autori di mettere troppa carne al fuoco. L’esagerazione c’è, ed è bella: è raro trovare nella stessa serie, frullati insieme, esorcismi, allucinazioni, torture, serial killer, nazisti, alieni, mostri cannibali e chi più ne ha più ne metta; ma certe storyline sono state chiuse in maniera fin troppo frettolosa, facendo dubitare circa la loro effettiva utilità. Non anticiperò nulla: la serie va guardata. Certo, ci sono i puristi che preferiscono strutture narrativa più coese e lineari, per i quali una serie tv antologica dove i ruoli dei protagonisti si rimescolano in maniera indefinita e le evoluzioni della trama sono sempre quelle che ci si aspetterebbe di meno è decisamente troppo disordinata. Ma personalmente a me piace: anche con i suoi riempitivi presi in prestito a tutti i generi dell’horror, l’evidente follia che sta dietro a determinate scelte di regia e script, questa seconda stagione s’è rivelata essere (specialmente nel suo finale) una vera e propria rivelazione.


Sebbene la trama sia tanto complicata da non poter escludere necessariamente incredibili falle, tutti i capi della storia riescono non solo a riunirsi nel sublime finale ma anche a passare dal registro orrifico a quello drammatico con immensa facilità e disinvoltura. Dalle suggestioni horror dei primi episodi, si passa via via a stili sempre più raffinati così l’horror soprannaturale diventa psicologico, dunque thriller e noir e infine termina in puro dramma umano. Specialmente le ultime puntate (terzultima e ultima) dirette dalla rivelazione personale Alfonso Gomez-Rejon sono autentici capolavori di stile registico, con fotografia e musiche che rivaleggiano con i più alti esempi del genere. Ma cifra identificativa di questa stagione, a prescindere dai vari registi che si sono succeduti dietro la macchina da presa, è la prospettiva demente, l’angolo allucinatorio, le panoramiche bizzarre con inquadrature da capogiro che reiterano sempre la rottura dell’ordine conosciuto, lo scivolamento del senso comune ma sempre rispettando un rigidissimo formalismo.


La regia si preoccupa poi di fornire momenti di assoluto cult: dalla inquietante canzoncina Dominique, suonata a ripetizione nelle sale del manicomio, all’esorcismo della seconda puntata, ma non dimentichiamo lo scioccante finale del quinto episodio, le apparizioni della Morte, il delirio musical di Jessica Lange, le scene in cui la luciferina suora Mary Eunice si presta a balletti blasfemi, stupri di sacerdoti (!), sgozzamenti e via dicendo... La stagione è un turbinare di elementi bizzarri mai visti che ora sfociano nel grottesco (il serial killer che si veste da Babbo Natale, ad esempio) ora terminano nel sublime drammatico (i baci elargiti dall’Angelo della Morte) rivelando un’attitudine a un amarissimo pessimismo che si esplica sempre nella serie. Certo, magari gli autori avevano intenti di denuncia (Ryan Murphy è praticamente l’apologeta della fierezza omosessuale, una sua serie senza la denuncia all’omofobia è semplicemente impensabile) ma sono approdati, magari involontariamente, ad altre spiagge. Non si parla dunque né di denuncia né di dissidio morale, eppure la serie coinvolge, commuove in certi punti, terrorizza in altri.


Questo ovviamente è merito del meraviglioso cast capeggiato da una Jessica Lange in stato di grazia (per davvero!) che fornisce una delle interpretazioni più intime e toccanti dell’ultimo anno, creando un personaggio integralmente “buono” di cui vediamo il discontinuo svolgersi e trasformarsi, rimanendo sempre lo stesso. Ruolo inferiore è toccato al grande Evan Peters che, dopo lo strabiliante Tate Langdon della prima stagione, s’è ritrovato con un personaggio piuttosto deboluccio e banale, di cui a nessuno importa veramente qualcosa. Discorso diverso si fa per l’immensa Sarah Paulson, che avrebbe meritato almeno una nomination al Golden Globe per il suo ruolo sfaccettatissimo e multiforme. Ottimo lavoro svolge anche Zachary Quinto, che fra un Sylar, uno Spock e un Oliver Thredson s’è specializzato nell’interpretazione “fredda” alla Jeremy Irons ne Il Mistero Von Bulow. Spettacolare, poi, il duetto Lily Rabe/James Cromwell, suora assatanata e scienziato pazzo, che sono protagonisti di scene assolutamente memorabili fra cui un paio di dissacrazioni di oggetti sacri, svariati omicidi e occultamenti di cadavere. Fanalini di coda per la sciapissima Lizzie Brocheré e il sempre più imbalsamato Joseph Fiennes che, nonostante riesca a funzionare plausibilmente nel suo ruolo, rimane sempre ricoperto da quel certo velo d’antipatia che non gli si stacca mai di dosso.


Applausi anche alle guest star: l’Angelo della Morte di Frances Conroy (che nella precedente stagione interpretava la vecchia cameriera fantasma) è qualcosa di assolutamente sublime e raffinatissimo; mentre, all’opposto, abbiamo un Dylan McDermott bifolchissimo e inquietantissimo e l’apparizione di un gigionissimo Ian McShane e di Franka Potente, nell’inaspettato ruolo di Anna Frank (sic!). Anche qui le citazioni colte non si contano: Arancia Meccanica, Psycho, Allucinazione Perversa, Candyman e chi più ne ha più ne metta, con canzonette meravigliose prese da un juke-box senza tempo. Dunque, in attesa della terza stagione, il cui argomento è ancora mistero ma che potrebbe parlare di magia nera (tremate tremate le streghe son tornate!) e per cui sono stati riconfermate le partecipazioni di Jessica Lange, Sarah Paulson, Evan Peters e, a quanto ne dicono i rumors, Taissa Farmiga (non presente in questa stagione ma protagonista assoluta della prima), non ci resta che riguardare all’infinito il meraviglioso Asylum, se non nella sua completezza, almeno nei momenti più eccelsi.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Parlando di manicomi non si può non citare il recentissimo Shutter Island (2010) di Martin Scorsese insieme all’Allucinazione Perversa (1990) di Adrian Lyne. Abbiamo poi il sorprendente The Jacket (2005) di John Maybury, Il Cigno Nero (2010) di Darren Aronfsky, lo stupendo Identità (2003) di James Mangold e il mediocre ma sempre piacevole The Ward (2010) del grande John Carpenter. Suggeriamo inoltre il bel K-Pax (2001) di Iain Softley, mentre, per film sulla possessione demoniaca, abbiamo il sempre caro L’Esorcista (1973) di William Fredkin, il poetico The Exorcism of Emily Rose (2005) di Scott Derrickson, lo spettacolare Session 9 (2001) di Brad Anderson e il meraviglioso I Diavoli (1971) di Ken Russell.


Scena cult – Infinite. Su tutte il balletto di Mary Eunice, il finale della quinta puntata, l’intera undicesima puntata, il momento musical del decimo episodio e l’esorcismo.

Canzone cult – Iniziamo con il leitmotiv della serie, l’inquietante Dominique di Sœur Sourire, proseguiamo con I Put a Spell On You del mitico Screamin’ Jay Hawkins, It Could Be a Wonderful World dei The Weavers, ma momento sommo della serie è la The Name Game cantata da Jessica Lange.


4 commenti:

  1. Una seconda stagione -o nuovo capitolo- strepitosa!
    Molto più solida, più coinvolgente e più appassionante e con dei personaggi molto più riusciti!

    ps: A me, comunque, del povero Kit importava...

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    1. Lo so ma oggettivamente è stato poco presente nella stagione. Mentre di Tate la mancanza si sentiva, quando c'era poco in un episodio.

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  2. grandiosa analisi!
    serie che come dici continua ad avere i suoi alti e i suoi bassi, ma ad avercene di così interessanti.
    il finale poi è riuscito a chiudere tutto in maniera impeccabile.
    anche se io speravo in un ritorno a sorpresa sotto qualche forma di lily rabe, per me la migliore dell'annata.

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    1. Spettacolari gli ultimi tre episodi. Aspetto con ansia la terza stagione.

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