Francia, Austria, 2001
Regia: Michael Haneke
Cast: Isabelle Huppert, Annie Girardot, Benoît Megimel,
Susanne Lothar, Udo Samel
Sceneggiatura: Michael Haneke
Trama (im)modesta – Erika è un’insegnante di pianoforte che lavora
al conservatorio di Vienna. Al culmine della mezza età, vive ancora con la
madre, una donna asfissiante e invadente che controlla ossessivamente la sua
vita e si intromette nei suoi affari personali. All’apparenza irreprensibile e
castigata, in realtà Erika cova dentro di sé un focolaio nascosto di
perversioni inenarrabili. L’incontro con un giovane studente che si innamora di
lei sarà l’occasione per l’esplosione dei suoi desideri più nascosti.
La mia (im)modesta opinione – Il bianco. Colore acromatico
per eccellenza. Alta luminosità, nessuna tinta. Non tanto l’assenza di colore
ma tutte le sfumature dello spettro cromatico che si condensano e azzerano in
una singola, vaga tinta. Il bianco è il colore dello spirito moderno in cui
tutte le spinte e le suggestioni
storiche, morali e culturali si fanno così vicine che finiscono per
annichilirsi a vicenda. Insomma, bianco è più sinonimo di amoralità che di
candore e questo Haneke lo sa bene. Il bianco ricorre praticamente in quasi
tutti i suoi film. È nei completi dei maniaci torturatori di Funny Games, è nell’arredamento e nelle
architetture di Niente da nascondere,
è legato alle braccia di bambini che, un domani, diventeranno i nazisti ne Il nastro bianco. Anche ne La Pianista il bianco è una presenza
perpetua, ossessiva e quando non è l’abbacinante riverbero di una pista di
ghiaccio o del marmo della sala del conservatorio è una luminosità lattea che
soffonde praticamente ogni inquadratura.
La pianista è un
film sconvolgente, perturbante. Dalla visione di questo film si esce estenuati, febbricitanti, tesi come la corda di un violino o, per meglio dire, di un pianoforte. Non tanto per le taglienti e indecifrabili sottigliezze
psicologiche di cui sono imbevuti i suoi personaggi, quanto per il clima di
tensione costante derivato da uno svolgimento lento che pare quasi centellinare
ogni singola inquadratura. Haneke non vuole sbrigarsi, la sua lentezza è
studiata, metodica. È uno strumento di tortura con cui sferza lo spettatore.
Ogni minimo indugio è una stilettata dritta al cuore. E l’attesa non si risolve
tanto nell’attuazione di un evento quanto nella osservazione forzata delle
morbosità e delle perversioni cui ci costringe il regista. L’indugio
dell’occhio dell’autore su ciascuna scena, quell’analisi che siamo costretti a
fare ci sfibra, ci lascia prostrati, ansimanti e adoranti insieme, perché
quello che vediamo con La pianista è
una vera e propria opera d’arte totale.
Una sceneggiatura che ha la profondità e lo scavo
psicologico di un romanzo d’autore (e il romanzo originale l'ha scritto un premio Nobel), delle interpretazioni che paiono
cristallizzate, di adamantina perfezione, una regia che sembra un’operazione
chirurgica, lancinante e surgelata come un bisturi. Isabelle Huppert è di una
bravura terrificante. Fa diventare di carne e sangue una donna che altrimenti
sarebbe esistita solo sulla pellicola o sulla carta stampata. Restituisce con
impressionante realismo sia l’algida scorza di Erika, sia la sua polpa crudele
e depravata. Vediamo in Erika una donna glaciale, al contempo prigioniera e
attrice del proprio ruolo, i cui occhi balenano di sadico desiderio, assistiamo
allo sviluppo dei suoi pensieri come se fossero fiori che sbocciano, osserviamo
le sue perversioni e le sue devianze mettersi in atto senza pietà, senza
censura. Haneke ha la lucidità di un chirurgo o di un assassino nel
dissezionare una psicologia, analizzarne minutamente le singole parti e poi
darci una visione d’insieme.
Il finale del film è ermetico ma ugualmente destabilizzante.
È il trionfo di qualcosa ma di che cosa? Dopo due ore di visione, si esce da
questo finale come massacrati, sfiancati, pieni di domande. La pianista è un film che non solo va
visto, va anche finemente meditato e che una recensione come questa può solo
segnalare ma non veramente afferrare nella sua essenza più intima. Come ogni
altro film di Haneke anche questo rappresenta una tappa dello studio sulla
crudeltà che il regista si propone di fare. Il quesito posto da questa
pellicola è questo: cosa succederebbe se invece di assorbire la devianza in
maniera passiva, lenta e inconsapevole ci si buttasse a capofitto, ingollandone
avidamente il liquore amaro direttamente dalla sua fonte più pura? La
distruzione, è l’unica risposta. Insensata, brutale distruzione.
Se ti è piaciuto guarda anche… - Due film che mi vengono in mente pensando a La pianista sono immancabilmente il
grandioso Che fine ha fatto Baby Jane?
(1962) di Robert Aldrich, geniale e cattivissimo dramma da camera, e il più
moderno Il cigno nero (2010) di
Darren Aronofsky, film bello ma sicuramente meno viscerale e sottile dell’opera
di Haneke. Altre profonde analisi sulla crudeltà generata dall’indifferenza ai
valori morali sono lo splendido Diario di
uno scandalo (2006) di Richard Eyre e Boxing
Helena (1993) di Jennifer Chambers Lynch e, per restare nell’ambito del
cognome Lynch, è impossibile non citare il Velluto
Blu (1986) del grande David Lynch.
Scena cult – La scena del bagno. Definitivo trionfo del
sadismo e della cattiveria di Haneke che costringe gli spettatori a un tour de force mentale lentissimo,
crudele e vagamente perverso (sempre meno perverso degli hobby serali di
Erika).
Canzone cult – Musica classica per questo film. Musica
lenta, ponderata, taglientissima. Il pezzo preferito? Il trio per pianoforte,viola e violoncello n. 2 in Mi bemolle maggiore di Schubert.
Concordo in tutto e per tutto.
RispondiEliminaNon il mio preferito di Haneke, ma di certo un film capace di entrarti dentro come un coltello nel burro. A suo modo, terrificante.