Regno Unito, USA, 2007
Regia: Anton Corbijn
Cast: Sam Riley, Samantha Morton, Alexandra Maria Lara, Toby
Kebbell
Sceneggiatura: Matt Greenhalgh, Deborah Curtis
Trama (im)modesta – Ian Curtis (un ideale Sam Riley) è un inquieto
ragazzo profondamente affascinato dalle musiche di David Bowie e dei Sex
Pistols. Ragazzo delicato con un animo da poeta, Ian fonda insieme ai suoi
amici il gruppo che sarà poi noto e celebre con il nome di Joy Division.
Ispirandosi alle vicende della propria, problematica vita Ian scrive le sue
canzoni ma non riuscirà mai a risolvere i suoi problemi con la moglie (Samantha
Morton), afflitto anche dal senso di colpa derivante dal tradimento.
Ossessionato dai suoi problemi, dalla colpa, dall’epilessia e dal suo essere
fedifrago, Ian si suiciderà all’età di 23 anni.
La mia (im)modesta opinione – I biopic a sfondo musicale
hanno spesso successo e si rivelano quasi sempre ottimi film. Il perché è
presto detto: si basano su personaggi interessanti e drammatici, quegli stessi
personaggi fanno pure parte del nostro sostrato culturale, le vicende narrate
sono spesso estreme o comunque coinvolgenti e lo stile della narrazione è
sempre spinto verso i livelli più alti. Control
è, allora, un campione purosangue del genere: racconta la vita di una icona
enigmatica ed elusiva, è diretto da un famoso fotografo di rockstar, ha un cast
di tutto rispetto e si presenta come un film stiloso, direi quasi modaiolo, che
vuole piacere all’occhio con quel suo bianco e nero nitido e chirurgico e
quella simmetria quasi pittorica che assumono certe inquadrature.
La buona riuscita del film è coadiuvata anche da
interpretazioni brillanti. Stella assoluta del film è Sam Riley, con quella sua
faccia triste e dai sentimenti costipati e repressi che si trasformano in una
strana tetraggine. Riley è davvero bravo a recitare nella parte di Curtis: sa
cantare, sa muoversi come lui, gli somiglia in volto, simula alla perfezione
gli attacchi di epilessia. Poi c’è Samantha Morton, che interpreta la moglie di
Curtis, Debbie, e lo fa con la consumata arte di una grande attrice (sebbene
proprio la Morton sia eccessivamente sottovalutata, io la preferisco
addirittura a Carey Mulligan) e restituisce nel personaggio il dramma umano di
una donna giovane e innamorata ma bistrattata dall’umore cupo e bizzoso del
marito e frustrata nel suo amore da una sorta di indifferenza che si trasforma
in rabbia ingiustificata da parte di Curtis.
Essendo il regista un fotografo, la fotografia del film non
poteva essere trascurata. È una fotografia stupenda, bellissima, poetica. Un
bianco e nero sontuoso, ricchissimo, cristallino. E la fotografia si fonde poi
con la nitida e formalissima regia di Corbijn, anche questa elegantissima, di
perfezione adamantina. Il film è un singolo, strabiliante movimento di camera.
I fotogrammi sembrano foto d’arte che si muovono al ritmo della musica degli
Joy Division che fa da sottofondo costante (ma non sono gli unici gruppi a
cantare nel film) a tutte le scene del film. L’eleganza dello stile registico
si vede anche nelle sue perfette capacità di sintesi visiva e uditiva, una
concisione alla dinamite che rende il film denso fino al parossismo eppure
lieve e aereo allo stesso tempo.
Anche la sceneggiatura opera una mirabilissima opera di
sintesi e messa in scena. La voce di Riley ci legge i poetici testi di questa o
quella canzone e poi sentiamo il gruppo registrare e poi ancora un bisticcio
tra marito e moglie che tradisce una crisi profonda, un senso di colpa
divorante e cocente. La sceneggiatura non sbava, non si confonde né inciampa da
nessuna parte. Crea personaggi solidi e situazioni credibili, organizza
l’azione dandoci l’idea perfetta dei tempi, dei caratteri e delle vicende.
Eppure proprio in questa sceneggiatura sta la falla principale del film,
l’errore imperdonabile che fa sfumare un probabile cult movie personale in un film carino ma comunque evitabile.
Il grande errore che compie la pellicola è quello di essere
banale nei contenuti. Ebbene sì, la vita di questo Ian Curtis è davvero
interessante? Gira il mondo, si droga, fornica in giro, litiga con la moglie.
Ma non ne abbiamo viste a bizzeffe di cose così? Ogni aspetto del film è
perfetto, il film stesso è perfetto ma solo a livello di forme, non di
contenuti. Risulterà difficile allo spettatore tenere concentrata l’attenzione
e si potrebbe arrivare al punto di dire che se gli attori non fossero bravi, il
regista espertissimo, la fotografia stupenda e la sceneggiatura poetica, se
solo uno di questi elementi fosse appena meno curato, minimamente inferiore a
com’è il film esporrebbe il fianco a mille e mille critiche.
Insomma, il personaggio di Ian Curtis sembra banale,
assolutamente poco incisivo, assolutamente grigio. A poco serve avere muscoli
gonfi e lineamenti perfetti se sotto alla carne non ci sono ossa e tendini
saldi e forti. Questo accade con Control.
All’inizio è anche affascinante, poi comincia man mano ad annoiare e finisce
per far diventare un film in bianco e nero in un film grigio, grigio in modo
insopportabile. Cos’è dunque Control?
Un prezioso esercizio di stile, ma nulla di più. Non aspettatevi nient’altro.
Se ti è piaciuto guarda anche... – I film biografici sulla
vita tormentosa di musicisti e cantanti, antichi e moderni, abbondano. I miei
preferiti sono di gran lunga lo stupendo Amadeus
(1984) di Milos Forman, il delicato e ustionante Quando l’amore brucia
l’anima (2005) di James Mangold, il visionario e poetico I’m Not There (2007) di Todd Haynes, La Vie en Rose (2007) di Oliver Dahan che non nervosismo e insolito
turgore descrive la vita di Edith Piaf e infine il malinconico Last Days (2005) di Gus Van Sant sulla
figura del mitico Kurt Cobain.
Scena cult – Le scene del film dove viene descritta la
giovinezza di Curtis, che con una stanza, un personaggio e la sola musica
restituiscono tutto il fervore musicale della fine degli anni ’70.
Canzone cult – La canzone che fa da perno ideologico del
film: She’s Lost Control, ovviamente degli Joy Division. Nella versione cantata da Sam Riley, sia nell'originale degli Joy Division.
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