martedì 10 luglio 2012

BATTLE ROYALE (2000), Kinji Fukasaku


Giappone, 2000
Regia: Kinji Fukasaku
Cast: Tatsuya Fujiwara, Aki Maeda, Takeshi Kitano, Chiaki Kuriyama, Taro Yamamoto, Kou Shibasaki, Masanobu Ando
Sceneggiatura: Kenta Fukasaku


Trama (im)modesta – In un non precisato ma prossimo futuro, gli studenti cercano di boicottare il sistema scolastico giapponese. Spaventato dalle escandescenze della gioventù, il governo giapponese passa il Millenium Educational Reform Act, detto anche BR Act. Ogni anno viene scelta una classe delle superiori che parteciperà alla Battle Royale, un gioco al massacro in cui gli studenti sono costretti a uccidersi fra loro nell’arco di tre giorni. Se non ne sarà rimasto solo uno, le bombe che ognuno di loro porta attaccate al collo esploderà, uccidendoli.


La mia (im)modesta opinione – Il problema di questo Battle Royale non è tanto la povertà di soggetto (anzi, il soggetto è brillante e rivoluzionario, considerando che questo film, ispirato dal romanzo omonimo, uscì ben 12 anni fa) quanto la scarsa capacità narrativa tipica del cinema giapponese. Ebbene sì, il Giappone possiede tecniche narrative tutte sue che chi si è pasciuto della narrativa occidentale/europea non può che valutare negativamente. In Battle Royale, oltre a varie idee alquanto brillanti, regia e sceneggiatura danno fondo a un intero repertorio di teatralità non necessaria, retorica pomposa e manierismo sentimentale che, personalmente, hanno gravemente rovinato il film.


Peccato, certi punto della messinscena sono sinceramente crudeli, sadici fino all’inverosimile ma vengono rovinati dalla componente umana della situazione, ovvero da una recitazione troppo teatraleggiante e manierata, specialmente per quel che riguarda l’odiosissimo protagonista, interpretato dall’ancor più odioso Tatsuya Fujiwara, con quel faccino idiota da giapponesino di plastica che riesce a trasformare in parodia involontaria anche i momenti più drammatici. Più bravi sono gli altri attori, su tutti l’imperturbabile Takeshi Kitano, che fa, come al solito, la sua porca e luciferina figura e anche la tarantino girl Chiaki Kuriyama, che io ho riconosciuto subito con il nome di Gogo Yubari.


Non che questo film mi abbia deluso alla grande, ma dopo un così superbo incipit e con trovate così geniali, come quella della musica, con tutto il potenziale di crudeltà che potrebbe sprigionarsi dalla pellicola, Battle Royale si è rivelato un film sconciato, non tanto dal sentimento, quanto da una sentimentalità troppo esagerata e sospirosa che, con il suo prendersi così ossessivamente sul serio, ha contribuito a far sfaldare il tessuto stesso della storia, un tessuto che magari poteva essere organico e omogeneo ma che risulta scaglionato in una serie di episodi dove si presta una vaga attenzione alle psicologie dei personaggi, analizzandole, per altro, con parecchia superficialità e faciloneria. Basti dire che prima di morire almeno una mezza dozzina di personaggi dichiari il proprio amore nascosto alla propria cotta di sempre con tanto di musica drammatica e paroloni da dramma barocco.


Non finisce qui. Lo spirito così profondamente nipponico del film fa sì che si mescoli stereotipo da manga ad agghiacciante tragedia con sconvolgente facilità e ingenuità. Pare stranissimo che la stessa mente che si sia ingegnata dei trucchi di crudeltà e sarcasmo tanto perversi riesca pure a mettere in scena omicidi e soprattutto suicidi sanguinolenti con cuor così leggero. Ma questa è proprio la tendenza di molti prodotti della cultura giapponese che ha una visione tutta diversa del suicidio e una idea radicalmente diversa della narrazione, legata com’è alle storie sempre uguali e tragiche del teatro nō o del kabuki. Però questo non significa che il film non sia privo di pregi. Anzi, i pregi ci sono e notevoli.


Per prima, la musica. Trovata geniale e beffarda il commentare quasi tutte le scene con sinfonie, messe da requiem, valzer. Su tutti titaneggia il gigantesco incipit commentato dal Dies Irae di Verdi. In definitiva Battle Royale sconta i propri difetti in quanto è la prima pietra su cui è stato fondato il genere del reality violento che ha trovato in The Hunger Games di Gary Ross la sua (finora) cristallizzazione più perfetta. Ma per arrivare alla punta di diamante del genere la strada è ancora lunga. In fondo anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – La citazione a The Hunger Games (2012) di Gary Ross è d’obbligo, poi abbiamo lo zoppicante ma fascinoso Breathing Room (2008) di John Suits e Gabriel Cowan, il gran capolavoro “povero” 13 Tzameti (2005) di Géla Babluani, il brillante La habitacìon de Fermat (2007) di Luis Piedrahita e Rodrigo Sopeña, il violento Hunger (2009) di Steven Hentges, non grandissimo ma comunque degno di una visone fugace e il claustrofobico Iron Doors (2010) di Stephen Manuel.


Scena cult – La raggelante spiegazione delle regole della Battle Royale a opera di un agghiacciante video in cui una giapponesina parla di omicidio come se si trattasse di caramelle.

Canzone cult – Molta bella musica nel film, ma il Dies Irae di Verdi è il brano più figo di tutti.

6 commenti:

  1. A me era piaciuto tantissimo (però io sono giapponofila fino al midollo), ma hai ragione, il picco lo si raggiunge quando compare il meraviglioso "Beat" Takeshi e la scena più agghiacciante è quella della BR spiegata da un'idol!

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    1. Se riuscissero a sistemare meglio la loro narrazione sono sicuro che anche i film giapponesi potrebbero arrivare al livello di quelli europei. Questo Kitano l'ha capito alla grande, ma ancora resta imperfetto e un po' lambiccato. Comunque BR è un film assolutamente fondamentale, questo è certo.

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  2. sei stato persino troppo duro con un film che in effetti ha un sacco di imperfezioni, per me soprattutto il troppo elevato numero di personaggi poco sviluppati, però per originalità (per quanto tratto da un romanzo) lo spunto è davvero grandissimo.

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    1. Lo so, per me il mondo è bianco o nero. Lo spunto, come ho ammesso, è davvero geniale. Geniale nel senso che Battle Royale ha creato un genere, è la pietra miliare. Non tutte le pietre miliari sono sempre belle in sè, però. Il cinema di Akira Kurosawa ne è un esempio perfetto. Presto, immagino, arriverà la definitiva perfezione del genere. Un film importante, ma non per forza un bellissimo film.

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  3. a me questo film è piaciuto molto ma non ha importanza. Però permettimi di dirti che trovo abbastanza incauto parlare di "scarsa capacità narrativa tipica del cinema giapponese. Ebbene sì, il Giappone possiede tecniche narrative tutte sue che chi si è pasciuto della narrativa occidentale/europea non può che valutare negativamente."
    Il cinema giapponese è diverso da quello occidentale tutto qui, non ha una scarsa capacità narrativa. Forse a un mio primo approccio col cinema orientale anche io la potevo pensare così. Ma sbagliavo e più film giapponesi ( e orientali in genere) ho visto e più mi sono accorto di quanto fosse sbagliato il mio pregiudizio.Probabilmente non conosci gli autori giusti ma ti assicuro che nel cinema giapponese ( e orientale) ci sono fior di autori che l'Occidente gli invidia. Parliamo di gente come Shion Sono, come Hirokazu Koreeda, Shinji Iwai, Kiyoshi Kurosawa e tanti altri che sono dei registi favolosi , ognuno con le proprie carattteristiche. E ti assicuro che di tecnica narrativa come la definisci tu ne hanno da vendere. Poi c'è anche il cinema di basso livello come in tutti i posti. Per non parlare della Corea, attualmente il posto dove si girano in assoluto i migliori thriller. Altro che Hollywood!

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    1. Ovviamente quando parlo di scarsa capacità narrativa lo faccio comparando gli standard asiatici a quelli più prettamente occidentali. Parlando di un film di Shion Sono, ovvero Suicide Club, si avverte tanta perizia ma la tecnica narrativa tout court è mal digeribile per un europeo: la storia non è lineare, non ha al centro personaggi fissi, i protagonisti muoiono a metà pellicola e l'andamento non va verso il concetto alla maniera europea ma ci gira intorno da tutti i lati. Questa tendenza è mutuata dal loro diverso sostrato culturale. Ovviamente l'Asia ha i suoi grandi registi ma la loro narrazione risulta (almeno a me, che, lo ammetto, sono un gran viziato)un poco indigesta perchè confusionaria. Perfino il grande Kurosawa, del resto, lavorava su stereotipi senza approfondire le psicologie (pensa a 'I sette samurai') anche se era perfettamente capace di farlo. Se parlo di scarsa capacità narrativa lo faccio da spettatore medio 'occidentale': fossi abituato agli sviluppi del cinema asiatico (giapponese sopratutto, già cinese, coreano e thailandese sono più europeizzati) di sicuro saprei apprezzarlo molto meglio.

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