USA, 2005
Regia:
Marcos Siega
Cast: Evan
Rachel Wood, Adi Schnall, Elisabeth Harnois, Ron Livingston, James Woods
Sceneggiatura: Skander Halim
Trama (im)modesta – Kimberly Joyce, figlia di un ricco
tycoon dell’elettronica, frequenta una esclusiva scuola privata di Beverly
Hills e aspira a diventare un’attrice famosa. Purtroppo la sua vita non è
affatto perfetta: praticamente ignorata dai suoi genitori e circondata da
persone false, Kimberly è una fredda manipolatrice che insieme alle sue amiche
Randa e Brittany cerca di scatenare il caos nella sua scuola accusando il suo
professore d’inglese di molestie sessuali. Per raggiungere i suoi scopi,
Kimberly non esiterà a strumentalizzare parenti, amici e compagni di classe ma
la guerra, perché Kimberly è in guerra contro il mondo intero, non è mai a buon
mercato.
La mia (im)modesta opinione – Il diavolo porta una gonna
grigia. Kimberly Joyce è la direttrice di un’orchestra grande quanto tutto il
mondo. È disposta a tutto per arrivare dove vuole, non rinuncia a distruggere
carriere altrui, sacrificare amicizie, andare a letto sia con uomini che con
donne e tutto per far girare il vento dalla sua parte. Non c’è sadico
compiacimento nel suo comportamento, Kimberly è più pratica. Non ama
manipolare, è solo brava, bravissima a farlo. Insomma, le viene naturale. Girano leggende su come abbia mandato in
tilt un computer che usava per il calcolo del Q.I. La sua mente è affilata e
inesorabile come le lame di una falciatrice e poco importa se gli steli che sminuzza
sono parenti, amici o amanti, tutti le cadono davanti come mosche. Non lo fa
per cattiveria, non le piace ferire. Ferire gli altri è necessario. Amorale?
Certamente. Il calcolo è il suo mestiere e nella matematica del successo
l’altro equivale a uno zero, uno zero da moltiplicare, dividere o addizionare.
Tutto è un numero.
Kimberly non è una cinica, dopotutto. Sa di dover fare
sacrifici e li fa tutti in vista di un bene superiore, non c’è esaltazione
narcisistica nel suo macchinare, non c’è vanteria infantile. Come lei stessa
dice ci sono ragazze belle e promiscue quanto lei, ma lei si differenzia dagli
altri per una cosa: ciò che lei chiama "the edge". The edge, il limite. Di cosa?
Non si sa, ma chi vede i limiti di qualcosa, la vede nella sua interezza. Non
possono esserci imprevisti, tutto è compreso nel computo. Basta un pizzico di
fortuna, notevole talento (e Kimberly ne ha più di quanto si creda) e ogni palla finirà rotolando quietamente nella sua buca. Kimberly è il perfetto modello di psicopatico:
una pantera tutta empatia simulata e cortesia di circostanza; priva di opinioni
e parole proprie, ridice e copia all’infito quelle altrui. Mai cattiva, sempre
arguta ma incapace di rimorso. L’unica cosa che mette sotto scacco questa
regina è l’essere scoperta, l’essere giudicata. Le uniche lacrime che verserà
saranno per se stessa, quando si renderà conto di aver sacrificato tutto per
nulla e di non essere troppo diversa da uno di quegli spree killer che, nel
film, ha compiuto un massacro in una scuola di Bel-Air.
Dice l’assassino:
«Just like shooting the ducks in a carnival, you know? They go by a line, one
at time and you’ve got your little rifle. Bam! Bam! Bam!». Così Kimberly
che piange vedendo nello sguardo del killer lo stesso disperato vuoto che percepisce nel
suo. Solo che se per qualcuno ci sono i proiettili, per Kimberly ci sono le
idee. E nessuno è risparmiato, nemmeno se stessa, davanti alla finale inutilità
del tutto. Ma, nonostante il personaggio di Kimberly appaia tanto drammatico,
il film del dramma non ha che la parvenza mascherato com’è sotto le spoglie di
una caustica e velenosa commedia liceale. Sì ci sono gli intrighi, sì c’è una rapida e
incisiva escursione nel terreno del thriller legale ma la verità è che Pretty
Persuasion fa ridere. Fa morire dal ridere. La Los Angeles del film è un luogo grottesco, comico se
visto dall’esterno ma più che di comicità, riguardo questa pellicola, io
parlerei di umorismo. Se il comico fa ridere in maniera abbastanza gratuita,
l’umorismo fa ridere solo per accidente nello scavare le piaghe e le pieghe del
mondo e della società.
Kimberly è sola, senza affetti veri. Il suo fidanzato, per
sua stessa ammissione, non gli piace, lo tiene come si terrebbe un cane, le sue
amiche sono oggetti carini che la fanno diventare verde d’invidia ma di cui
sbarazzarsi è facile, facilissimo. L’aggressività è sfogata tramite un sarcasmo
gustosissimo ma amaro. Le risate, quelle, sono assicurate. Ma, se all’inizio il
film suona come una commedia alla Mean Girls, alla fine la storia vaga più
dalle parti di un Cruel Intentions più umano e cupo. La scorrettezza e l'acidità delle idee incrina sempre la facciata sorridente e luminosa della teen comedy. Si va dalle battute antisemite del padre balordo e crapulone James Woods all’umorismo
politicamente corretto che nasconde dietro di sé gli strali della sconvenienza
più assoluta (meravigliosa la rimbeccata di Kimberly a un compagni di colore: «Zitto Senegal!») . Pretty Persuasion è la storia di una beffa che finisce male, il
divertente e saporoso crollo del muro delle apparenze che svela una realtà che
forse faceva meglio a rimanere nascosta.
Il film non è certo privo di difetti. Cambiando registro,
dal comico al tragico, circa a metà non riesce mai del tutto a spogliarsi delle
vestigia della commedia e dunque il senso del tragico che ne impregna la parte
finale è stranamente dissonante, attutito. La macchina filmica è perfettamente
ben congegnata, lo script brillante, pieno zeppo di arguzie pungenti e comicità
irriverente e irresistibile. Le grandi lodi però vanno alla meravigliosa Evan
Rachel Wood, ai tempi soltanto diciassettenne, che gestisce una parte
sicuramente molto più matura adombrando il resto del cast, la brillantezza
dello script che sa ben gestire la transazione danzerina fra tragico e grottesco e la grazia di una regia levigata che però non sfocia mai nel
lezioso. Inoltre Pretty Persuasion è uno dei film più divertenti e cattivi che
mi sia capitato di vedere, corrosivo come pochi e scorretto come rari,
senza contare, poi, un cameo della meravigliosa Octavia Spencer, che appare
come una donna intervistata in un programma televisivo.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Fratelli rispettivamente
maggiore e minore del film sono la pietra miliare Cruel Intentions (1999) di
Roger Kumble e Mean Girls (2004) di Mark Waters. Cugino di primo grado di
Pretty Persuasion è il vansantiano Da Morire (1995) e altri lontani parenti
sono Schegge di Follia (1989) di Michael Lehmann e il classico immortale The
Crucible (in italiano La seduzione del male) in entrambe le sue versioni: la
prima del 1957 adattata da Jean-Paul Sartre e diretta da Raymond Rouleau e la
seconda, più sontuosa, del 1996 diretta da Nicholas Hytner e adattata dal
grande Arthur Miller, autore, fra le altre cose, dell’opera teatrale originale.
Altre vaghe arie di famiglia appaiono con Election (1999) di Alexander Payne, Hard
Candy (2005) di David Slade, Le regole dell' attrazione (2002) di Roger Avary e
La ragazza della porta accanto (1993) di Alan Shapiro.
Scena cult – Tre. La telefonata erotica di Hank Joyce, padre
di Kimberly, che viene origliata da quest’ultima e poi usata come strumento di
ricatto, Kimberly che getta al cane i sonniferi del padre in un gesto di
innocente crudeltà e il finale nichilista che vede Kimberly piangere davanti la
televisione.
Canzone cult – Strana, bella musica abbiamo qui. C’è la sorniona samba Summer Rain di
Smokey & Miho, il funky da blaxploitation Stiffed dei The SEX-O-RAMA Band e
What Goes On dei The Velvet Underground.
non sapevo nulla di questo film.
RispondiEliminadirei che vado subito a cercarlo, innanzitutto per evan rachel wood, e poi perché un film con uno stile tra cruel intentions, mean girls e da morire non posso proprio perdermelo!
Il film ti piacerà, te lo assicuro. E' di una bastardaggine rara, rarissima.
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