Danimarca,
2000
Regia: Kristian
Levring
Cast: Miles
Anderson, Romane Bohringer, David Bradley, David Calder, Bruce Davison, Brion
James, Peter Khubeke, Vusi Kunene, Jennifer Jason Leigh, Janet McTeer, Chris Walker,
Lia Williams
Sceneggiatura:
Kristian Levring, Anders Thomas Jensen
Trama (im)modesta – Per un guasto alla bussola, un autobus
di turisti si perde nel deserto della Namibia e finisce in un villaggio
fantasma abitato da un solo uomo, Kanana. Mentre uno dei passeggeri va a
cercare aiuti in un villaggio vicino, tutti gli altri lo aspettano. Per tenere
il morale alto, Henry, l’intellettuale del gruppo, propone di mettere in scena
il Re Lear di Shakespeare. Dopo che il progetto ha preso piede, il teatro si
confonderà con la vita e le suggestioni della poesia del Bardo si mescoleranno
alla paura e alla morte che i dispersi affrontano nel deserto.
La mia (im)modesta opinione – The King is Alive è un film
volutamente difficile, scabro, involuto. Adattandosi pressoché pedissequamente
ai dettami del Dogma 95 (il movimento cinematografico d’avant-garde che si
propone di “purificare” il cinema dall’intrusione degli interessi economici e
degli effetti speciali rinunciando a fotografia, scenografia e di ogni altro
espediente scenico, eccettuato quello della camera a mano), la pellicola di
Levring risulta incisiva ma rude, quasi di foggia barbarica nel suo incedere
severo e spigoloso e nel suo evitare ogni carezzevolezza, ogni tipo di
amabilità. La storia è sicuramente fuori dall’ordinario ma la mancanza di
maniera è assoluta e trascende la stessa nozione di sobrietà nel suo spogliarsi
di colonne sonore, di dialoghi che non siano strettamente necessari, persino di
ragionamenti ché i moventi di moltissime azioni del protagonisti sono solo
intuibili, forse deducibili ma mai chiarificati e resi manifesti.
Come spesso succede, però, più a fondo ci si inoltra nel
terreno del realistico più è facile sbucare nelle regioni dell’onirico, ed ecco
allora il villaggio fantasma farsi proscenio del dramma, il deserto estendersi
sconfinato come in una favola con le sue sabbie abbrustolite dal sole e il suo
firmamento torrido e la sua polvere odiosa che dovunque si infiltra. In fondo
il realismo è la più cruda forma di escapismo. Il film è, per sua stessa
struttura, denso di mille e mille sottigliezze celate sotto l’apparente
crudezza di una messinscena estremamente povera. Il risultato è la percezione
degli elementi della storia come allegorie. Il deserto diventa una condizione
umana, il Re Lear di Shakespeare, pronunciato prima senza convinzione e poi con
lapidaria solennità, è la fragilità dell’uomo che si affanna inutilmente nel
deserto della vita mentre aspetta che qualcuno lo aiuti e la cui attesa
coincide con la vita stessa.
The King is Alive è un film crudele, impietoso, un film che
è anche oscuro ed ermetico tanto che si attirato addosso la critica di essere
«weird for the sake of weird», troppo cervellotico e forse anche un po’
radical-chic ma tutto ciò è errato dato che nessuno, all’interno della storia,
elucubra e ogni elemento legato alla razionalità del reale è un solo, piccolo
elemento che si carica di altri significati, significati puramente
intelligibili ma mai presenti. Come può un film senza concetto risultare concettoso?
Lo dice anche l’intellettuale Henry mentre spiega come recitare la tragedia del
Bardo, bisogna leggere le parole e trovare in esse il proprio significato. Ed è
per questo che il gruppo di superstiti al deserto, nell’ipnotica scena finale,
cita questi o quei versi della tragedia che commentano stati d’animo e
situazioni umane. Questo, dunque, è il cinema veramente colto che da spunti
brillanti trae conclusioni forse insufficienti ma di sicuro originali e
inaspettate.
È vero anche che un film come questo è abbastanza difficile
da digerire: i tempi morti abbondano, così come i silenzi enigmatici e alcuni
(non troppo necessari) nessi narrativi. Per contro il film annovera certi
grandi personaggi come l’intellettuale-artista Henry (un personaggio molto eastwoodiano,
virilmente silenzioso e volitivo, eppure profondamente commosso dalla bellezza
del mondo) e la complicata francese Catherine, interpretata da una grandissima
e fascinosa Romane Bohringer aggressiva e virginale insieme, troppo timida per
recitare ma intimamente desiderosa di interpretare un ruolo, quello di
Cordelia, che pare scritto proprio per lei. In definitiva The King is Alive è
un film che va visto “per forza”, se non per i suoi meriti artistici, almeno
come erudita esplorazione di un movimento d’avant-garde che ha avuto tanto peso
nell’evoluzione del cinema nordico moderno (il fondatore del Dogma 95 fu
infatti il mitico Lars von Trier che, in effetti, non perse molto tempo a
lasciar perdere le regole che prima aveva accolto).
Se ti è piaciuto guarda anche – Per esplorare i film del
Dogma 95 vi consiglio il precursore Festen (1998) di Thomas Vinterberg, Italiano per Principianti
(2000) di Lone Scherfig e l’italiano Così x Caso (2004) di Cristiano Ceriello.
Per qualche versione alternativa delle opere di Shakespeare, abbiamo L’ultima
tempesta (1991) di Peter Greenaway, Scotland, Pa. (2001) di Billy Morrissette, Looking for Richard (1996)
di Al Pacino, Cesare deve morire (2012) di Paolo e Vittorio Taviani e Rosencrantz
e Guilderstern sono morti (1990) di Tom Stoppard.
Scena cult – Il mesto notturno finale, davanti al fuoco,
dove i versi del Bardo sono pronunciati con amarissima consapevolezza e
profondo dolore.
Canzone cult – Tre solo le canzoni che figurano nella
soundtrack del film. La mia favorita in assoluta però è il vintage Every 1’s aWinner degli Hot Chocolate.
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