Belgio,
2011
Regia:
Bouli Lanners
Cast:
Zacharie Chasseriaud, Martin Nissen, Paul Bartel, Didier Toupy, Marthe Keller
Sceneggiatura: Bouli Lanners, Élise Ancion
Trama (im)modesta – Zak e Seth sono due fratelli di tredici (e
tre quarti) e quindici anni. I due sono totalmente liberi durante l’estate,
abbandonati a loro stessi da una madre assente e perennemente lontana. I due
prendono l’auto del nonno e vanno nella loro casa in campagna. Durante il
tragitto si unisce a loro il quindicenne Danny. Le cose vanno bene fino a
quando i tre non rimangono senza denaro e affittano la casa a uno strambo
spacciatore di marijuana che vuole trasformarla in una piantagione. Ma le cose
non vanno come previsto e l’estate dei ragazzi diventerà un’odissea dolceamara
fra spinelli fumati di nascosto, improbabili tinte di capelli e strani incontri
con un mondo degli adulti grottesco e deformato.
La mia (im)modesta opinione – Certi film sono davvero
impagabili. Certi film danno come pochi certe emozioni così forti e penetranti.
Les Géants è uno di questi. All’apparenza lo sconclusionato periplo per la
sconfinata campagna belga di tre teppistelli sudicioni, in realtà un racconto
sull’infanzia singolarmente potente nel restituire quella vibrante, gioiosa,
viscerale ebbrezza del vivere che si prova ad una certa età. Se ormai gli
autori cinematografici riescono solo a cavare del torbido dai racconti
infantili (anche torbido inconsapevole, il sesso fra preadolescenti è uno dei
guilty pleasures più in voga), i creatori di questo film sono capaci di
descrivere una scoperta della vita segnata dal candore e dall’innocenza più
assolute e, al contempo, di scavare con intensità chirurgica nelle psicologie
dei propri personaggi.
Chiariamoci: non che Les Géants sia un film dal facile
buonismo. Anzi, è un film amaro, a volte difficile da digerire, a volte rigato
dal sale di lacrime cocenti. I suoi stessi protagonisti non sono affatto
innocenti: tre ragazzini che si muovono attraverso una campagna di certo bella
ma che di idilliaco ha ben poco, una campagna popolata da loschi figuri:
spacciatori sdentati, cani idrofobi, grassi scagnozzi, signore affettuose ma
strambe, fratelli violenti e pazzoidi. I protagonisti la loro innocenza l’hanno
persa da un bel po’ ma riescono tuttavia a vivere le loro emozioni e
sperimentare la loro vita con una freschezza a cui noi non siamo abituati e
anche i loro dolori (perché se il dolore fa crescere, questi ragazzi sono già
adulti fatti e finiti) sono vissuti con aspra sofferenza ma sono tutti
ammantati come di una luce illibata e pura.
Ed è proprio nei protagonisti che il film trova la propria
forza. Tre ragazzi “veri”, non quei ventiseienni che il cinema USA cerca di
spacciarci per sedicenni, tre ragazzi sinceramente belli, ognuno a suo modo,
ognuno sanguinante per una ferita diversa. Abbiamo il più piccolo e vivacissimo
Zak con quel suo muso quasi felino e gli occhi vispi e ribollenti e sanguinanti
a un tempo di rabbia, lacrimanti per l’assenza (soprattutto affettiva) di una
madre perennemente lontana, costantemente vagheggiata e dovunque ricercata;
abbiamo Seth, con quel suo profilo esagerato, sghembo e lo sguardo scuro e
meditativo sempre sconcertato davanti le piccole tragedie della vita, e poi c’è
Danny, con quella sofferenza che brucia al calor bianco nelle sue iridi azzurre
e l’espressione languida e triste di un angelo in esilio sposata a un corpo già
quasi adulto. Una tripletta non solo di volti, ma di attori formidabili, bravi
fino all’eccesso, che lasciano stupefatti e commossi.
Se dovessi usare una parola per descrivere la sensazione che si prova alla fine di questo film, "commosso" sarebbe il termine giusto. Commosso per l’inguaribile
nostalgia del candore dell’infanzia, commosso per la tenue e fragile bellezza
della rorida e selvatica campagna belga (deturpata da paludi marcescenti, concrezioni di
metallo ritorto e rugginoso, baracche pericolanti), commosso per il dramma
immedicabile e profondamente umano dei personaggi, commosso per la solitudine che soffia nel vento
sul finire dell’estate, trascinando qui e lì qualche sparuta foglia autunnale, commosso per quel senso di desolazione che non può non esplodere (in questo senso le inquadrature a campo lungo sono essenziali: i giovani protagonisti sono soli in un deserto verde e rigoglioso, un luogo ameno ma sempre un deserto. Forse un'allegoria della moderna giovinezza?).
Commosso perché tutto ha e deve avere una fine. Les Géants è un film da vedere. Un film
toccante non lacrimoso, delicato non buonista, intimista ma non deprimente.
Insomma, la mia idea di film.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Il grande classico della
mia infanzia (che mi ha segnato, mio malgrado) ovvero Stand By Me (1986) di Rob
Reiner. Poi omaggio al nostrano Io non ho paura (2003) di Gabriele Salvatores e
al grande classico I quattrocento colpi (1959) di François Truffaut. Cito il negletto
(a torto) Correndo con le forbici in mano (2006) di Ryan Murphy, lo stranamente
deprimente Un ponte per Terabithia (2007) di Gabor Csupo, l’insolito e ambiguo
En Tu Ausencia (2008) di Ivàn Noel e il duro Twelve and Holding (2005) di
Michael Cuesta.
Scena cult – Il delicato dialogo davanti al fuoco, in riva
al lago, in cui si parla della morte e del dolore e la scatenata scena di
vandalismo nella casa delle vacanze disabitata.
Canzone cult – Soundtrack stupenda e minimale tutta
realizzata dai The Bony Kings of Nowhere. Le tracks più notevoli sono Across the River, The Stranger e For the Autumn. Ma la soundtrack completa la
troverete qui.
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