USA, 2012
Regia: Jay
Roach
Cast: Will
Ferrell, Zach Galifianakis, Dylan McDermott, Brian Cox, Dan Aykroyd
Sceneggiatura: Chris Henchy,
Shawn Harwell
Trama (im)modesta – Cam Brady è un famoso politico, cinque
volte membro del Congresso, corrotto fino al midollo con tutti i vizietti di
italiana stirpe che il caravanserraglio del nostro ex-Premier ci ha insegnato:
escort, volgarità gratuite, slealtà di ogni tipo, droghe, festini selvaggi. Dopo
l’ennesima gaffe, due importanti e ricchissimi industriali decidono di creare
dal nulla un nuovo candidato-fantoccio che risponda ai loro desideri. La loro
scelta ricade su Marty Huggins, mite e delicato padre di famiglia, che, da un
giorno all’altro, si trova catapultato nel mondo infuocato dell’agone politico.
Così, fra un’ipocrisia e l’altra, la campagna elettorale va avanti senza
esclusione di colpi, fino alla votazione finale.
La mia (im)modesta opinione – Si può dire di tutto,
guardando questo The Campaign, opera partorita dal grande Jay Roach, papà
cinematografico del mio santo personale: Austin Powers. Mentre lo guardavo,
devo confessarlo, ero davvero entusiasta. Entusiasta non per la particolare
grandezza cinematografica del film (che comunque è molto, molto valida) quanto
per l’apparizione di un genere di commedia che ritenevo ormai scomparso per
sempre: il comico puro, mescolato alla satira più perversa e spietata. Del
resto, cosa ci si poteva aspettare dal produttore di Borat? The Campaign è un
film che funziona su tutti i livelli, non c’è scena che non finisca in gag e
non c’è gag che appaia stanca, o peggio ancora sciocca. Anche quando tutto
questo fosse sufficiente da solo (e lo è) il film si porta ancora più avanti e
rompe il muro del suono della modernità: la satira è affilatissima, scorretta
al massimo; le citazioni alla cultura pop sono vulcaniche (il pugno al
cagnolino di The Artist? Geniale); tutto, insomma, riesce a far ridere senza
essere un comico troppo alla grossa.
Protagonisti del film sono i due “onorevoli” che si
contendono il seggio. Due omuncoli paradossali, eccessivi; ma del tutto
esilaranti. All’angolo destro del ring c’è Cam Brady (finto) padre di famiglia,
puttaniere incallito, venduto fino all’ultimo centesimo a ogni industriale, del
tutto disinteressato alle sorti dei suoi elettori. Davanti a lui sta Marty
Huggins, rotondo ed effeminato signore di campagna, pieno di hobby delicati,
amante dei suoi dolci carlini. Inutile dire che, nel corso del film, Marty
subirà un completo restyling da parte di Tim Wattley (Dylan McDermott mi ha
fatto morire dal ridere) che lo farà diventare il classico macho-man americano,
fanatico di fucili e pistole, con due bei baffoni alla Tom Selleck. Inutile dire
come entrambi i personaggi siano utili allo strumento satirico degli autori:
con Cam Brady vediamo il lato scintillante e corrotto dell’arena politica, con
tutte le volgarità nascoste, il perbenismo che nasconde torride telefonate a
prostitute; con Marty Huggins la svendita della politica, la disponibilità
degli elettori a farsi infinocchiare dal primo venuto a cui basta, per ottenere
il trionfo, solo adattarsi a uno stereotipo nazionale.
La bassezza umana, poi, dell’intero circondario di politici
e aiutanti è meravigliosa. La campagna stessa, tutta basata sulle bastardate
reciproche, ne è un esempio. I due candidati che litigano per dare un bacio a
un bambino, i dispetti da terza elementare, gli insulti, i reciproci sgambetti,
tutto è teso a dipingere una classe politica rozza, corrotta, debosciata e
disinteressata a elettorati e famiglie. Persino una velata allusione ai brogli
elettorali è fatta. Tutto merito, dunque, di una grande sceneggiatura che,
però, è colpevole, in certi momenti, di aver inanellato una serie di gag di
sicuro effetto ma di quando in quando di scarsa pertinenza allo svolgimento
della trama. Ma questo, per fortuna, capita solo per poche scene (la riunione
di famiglia degli Huggins in cui ognuno racconta i propri segreti) che hanno la
fortuna di essere divertentissime e, per questo, vengono senz’altro perdonate.
Il cast, poi, è azzeccatissimo. Si va da un Will Ferrell al
suo meglio, a un Zach Galifianakis di rara bravura capace di impersonare, con
assoluta credibilità, entrambi i lati del suo personaggio: delicato e morbido santarellino
di provincia da un lato, e minaccioso guerrafondaio dall’altro. All’equazione
si unisce un Dylan McDermott incredibile, stupendo nella sua impassibile
freddezza. Una piccola parte la ha pure il grande Brian Cox e l’ex blues
brother Dan Aykroyd nella parte del corrottissimo industriale. La regia di Jay
Roach (ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo) giostra il film con arte
consumata: la comicità è perfetta, sopra le righe al punto giusto, tagliente ma
non offensiva, intelligente seppur sboccata. Grazie agli autori il film riesce
a evitare la trappola della demenzialità fine a se stessa e così contribuiscono
a confezionare un film che figurerà senza timore alcuno fra le migliori
commedie dell’anno.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Il richiamo al grande
classico è uno: l’augusto Mr. Smith va a Washington (1939) di Frank Capra. Per
un altro filmone granitico sulla politica corrotta potete vedere l’acclamato
ma, a mio parere, noioso Le Idi di Marzo (2011) di George Clooney, oppure il
molto più esaltante Good Night and Good Luck (2005) sempre di George Clooney.
Abbiamo inoltre il grandissimo Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan
J. Pakula. Se vogliamo buttarla sul comico, invece, a venirne in mente è
ovviamente The Dictator (2012) di Larry Charles.
Scena cult – La telefonata di Cam Brady alla prostituta,
ascoltata erroneamente da una devota famiglia cristiana a tavola.
Canzone cult – Non pervenuta.
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