USA, 2011
Regia: Tony
Kaye
Cast:
Adrien Brody, Sami Gayle, Betty Kaye, Marcia Gay Harden, James Caan, Christina
Hendricks, Lucy Liu
Sceneggiatura: Carl Lund
Trama (im)modesta – Henry è un supplente del liceo con un
passato doloroso alle spalle che si sofferma spesso a pensare al mondo e alle
persone che lo circondano e nasconde la desolazione che prova sotto un garbato
distacco. È così che si protegge dal dolore che la visione delle vite altrui
gli trasmette e magari è così che cerca di aiutare, seppur con il più grande
distacco possibile. Le persone che popolano la sua vita sono delle più
problematiche: psicologhe scolastiche frustrate dai futili problemi di studentesche
sempre più vacue e superficiali, professori ‘invisibili’, nostalgici, solitari,
che prendono il Valium, genitori assenti e aggressivi, ragazze incomprese e
tristi, prostitute-bambine abbandonate a loro stesse. Come Henry scoprirà,
però, quella del distacco è un’arma a doppio taglio.
La mia (im)modesta opinione – Taglientemente intellettuale,
freddamente chirurgico eppure appassionatamente poetico, profondamente commosso
e assolutamente totale. Posso dire senza ombra di dubbio che Detachment è uno
dei film più belli che mi sia capitato di vedere ma anche uno dei più tristi,
commossi e disperati in cui mi sia mai imbattuto: un pessimismo contrito e
austero fatto nobile e scintillante da una morale crudele e adamantina, un
senso di paralisi profonda, di stagnamento, di inevitabile morte e freddo,
tanto freddo irradiano da questo film. Come anche dalle sue anime perdute quasi
esiliate in un mondo desolato e tutto pervaso come da un impalpabile algore (e il regista si preoccupa di straniarci
quando e come può: ogni inquadratura del film sembra irreale, idealizzata quasi
teatrale), un mondo dove in pochi capiscono la loro lingua, un mondo dove la
santità si è fatta spogliata dall'esaltazione del misticismo e si è ritirata a vivere in case dalle pareti imbiancate e vuote.
In questo mondo (che, non fatevi ingannare, è il nostro
mondo, trasposto in simboli idealizzanti) l’attività dell’insegnante, che
comporta la quotidiana attestazione dello stato di desertificazione spirituale
e ghiacciamento culturale delle vuote masse della odierna generazione, diventa
una missione salvifica, un mandato divino, quasi un martirio appassionato il
cui senso ribolle sotterraneo nelle vene del mondo e poi esplode in apoteosi
del dolore e rari raggi di fredda luce biancastra. Detachment è un film
metallico, freddo e acre, ma, come il metallo, conduce bene il calore dei cuori
infranti e l’elettricità dei pensieri che corrono veloci come iscrizioni
lapidarie a suggellare la pellicola. Molti lo chiamerebbero un film poetico, ma
Detachment è diverso. Non di certo un film filosofico perché appare troppo
estasiato dalle inaspettate bellezze della vita quotidiana, dai suoi giochi di
luce, dalle sue sfumature rosate e lontane. Detachment è un misto di tutto: è
un vero e proprio poema filosofico.
Il film procede come viaggio nella mente e nel ricordo di Henry Barthes, docente e (suo malgrado) filosofo che va predicando la propria dottrina sulla vita e sul mondo. Gli eventi di questo film non vengono messi in atto: vengono rimembrati. E della rimembranza hanno la struttura: l’arrivo dell’emozione trascritta con disegni di gesso sulla lavagna, la memoria per telecamera per mettere a fuoco dettagli fatali, quadri generali o anche solo per immaginare eventi, reazioni. Quando vediamo gli altri personaggi nel loro privato si tratta sempre di un’immaginazione, un sogno a occhi aperti scaturito dall’intimo e doloroso bisogno di empatizzare con un altro essere umano che soffre e smettere di patire il distacco, il distacco che è indossato come una tuta da palombaro per sfuggire all’affogamento del dolore. Adesso quello dell’insegnante diventa un simbolo: il professore si fa profeta, angelo e crocifisso dal mondo in cui vive e che cerca di salvare vagando in mezzo alle masse degli enfants perdus, naufraghi del mostruoso ventunesimo secolo. L’impostazione filosofica di Detachment, infatti, non va assolutamente trascurata.
Certo il film non è esente da certi difetti: lo stile del
regista è costantemente teso al tragico e al sublime e di tanto in tanto preme tanto sul tasto dell’idealizzazione da debordare (ma solo in un paio di
occasioni) in un'involontaria maniera. Ma sorvolando su questi bassi difetti (e il film vola alto), devo dire che poche altre
pellicole erano riuscite ad analizzare così profondamente non dico una generazione ma una società
intera, una società fatta di assenza, di gelo pungente, di tundra degli affetti,
di distruttivo dramma umano. Gli autori scelgono, come testimone di tanto
deserto, un uomo qualunque, un uomo distaccato, un uomo che pensa, un viso
umano che attorno a sé vede solo maschere di cartapesta, un individuo che
assiste al crollo di qualunque speranza o ideale e che prova con sofferenza a distaccarsene.
Chiariamoci, l’Henry Barthes di Adrien Brody (bravissimo, superlativo) non ha
rinunciato a provare emozione ma prova a tenere lontana ogni cosa quando
vorrebbe entrare in questa o in quella tragedia ma sa che non deve. Non deve
per non essere distrutto.
Lo ripeto, Detachment è la bellezza sotto forma di film,
cinema elevato a letteratura, appena un gradino sotto Magnolia (che è
imbattibile e imbattuto) e addirittura superiore (questa ha sorpreso anche me)
alle due superpietre miliari della mia cinematografia personale: Kids ed
Elephant. E tutto questo grazie ad una regia perennemente tesa al sublime, uno
script degno di un premio Nobel e un
cast di attori superbo, strabiliante. Su tutti Adrien Brody insieme a Betty Kaye
(che sembra Cathy Bates giovane e altrettanto brava) e Sami Gayle (che invece è
una piccola Liza Minnelli), poi il redivivo James Caan (poco credibile nel
ruolo di insegnante ma superlativo nel suo gigioneggiare sardonico), la
figurante Blythe Danner che affianca la meravigliosa Marcia Gay Harden e la
sorpresa Lucy Liu e un intenso cameo per il grande Bryan Cranston. In conclusione, è un film ad alto tassi
di depressione maggiore e pessimismo cosmico ma perderlo sarebbe perdersi un
classico.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Insegnanti e malinconia. Il
genere è ricco: la figura dell’insegnante che cerca di aiutare i propri
studenti a rinascere spiritualmente è sfruttata in ogni tipo di produzione,
seria o comica che sia. La gemma del genere è ovviamente il lirico A Single
Man (2009) di Tom Ford in cui la solitudine diventa un senso di poesia
trascendente, poi abbiamo la solitudine che sfocia nella perversione con La Pianista (2001) di Michael Haneke e Diario di uno Scandalo (2006) di Richard
Eyre, seguono l’insegnamento che trascina alla pazzia con L’Onda (2008) di
Dennis Gansel. Poi c’è il film allegro sull’insegnamento ovvero il mitico
School of Rock (2003) di Richard Linklater e, infine, il capolavoro verista La
Classe (2008) di Laurent Cantet.
Scena cult – Due: la scena dell’assassinio del gatto a opera
di un ragazzo annoiato e l’onirico finale con il sottofondo delle malinconiche
parole di Edgar Allan Poe. Perché la casa degli Usher non è solo un edificio ma
un modo di essere.
Canzone cult – Non pervenuta.
sì, un grandissimo film!
RispondiEliminain effetti sei stato sull'entusiasta andante come preannunciato :)
però giustamente: è una pellicola piena di roba. come dici è freddo, però è anche poetico e per quanto pessimista fa anche intravedere un raggio (minimo) di luce
Più che freddo, questo è un film che parla del freddo. Ancora non avevo mai visto una tecnica registica così sprofondata nella mente umana. Il modo di gestire ricordi e impressioni è geniale.
Eliminaun film che parla di scuola senza essere zuccheroso, davvero bello
RispondiEliminaIl film non è zuccheroso ma secondo me parla di cose che hanno centro nella scuola ma vanno molto al di là della scuola in sè.
Eliminaanche secondo me la regia è grandissima: per me è un film sul vuoto che attanaglia alla stessa maniera la nuova generazione e la vecchia, rappresentata dagli insegnanti.La scuola è solo il punto di partenza per esporre le macerie delle vite di un pugno di bellissimi personaggi...
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