USA, 2007
Regia: Tommy
O'Haver
Cast:
Catherine Keener, Ellen Page, Ari Graynor, Evan Peters, James Franco, Romy
Rosemont
Sceneggiatura: Tommy O'Haver, Irene Turner
Trama (im)modesta – La nostra scena sta in Indianapolis,
Indiana. È l’estate del 1965 quando Betty e Lester Likens affidano le loro due
figlie, Sylvia e Jennie, a Gertrude Baniszewski, madre di sei figli, single e
con gravi problemi di portafoglio prima e di mente poi. Arrivata da poche
settimane in casa Baniszewski, Sylvia viene a conoscenza della gravidanza di
Paula, figlia maggiore di Gertrude. Quando il pettegolezzo sulla gravidanza
della ragazza di sparge in città, Paula denuncia Sylvia come delatrice e
afferma che le sue sono solo calunnie. Nel frattempo Gertude sprofonda nella
depressione e pericola sull’orlo della povertà; così, delusa da un giovane
amante che le strappa solo denaro, furiosa per il denaro dei genitori di Sylvia
che tarda ad arrivare, con la testa nascosta da una nuvola di antidepressivi e
psicofarmaci, sfoga la sua rabbia su Sylvia: colpevole supposta delle voci che
girano sulla sua primogenita e del suo stato di semi-miseria. Le punizioni
corporali si fanno sempre più brutali fino a culminare con la segregazione di
Sylvia nella cantina di casa e nella sua morte, causata dalle perpetue
percosse, dalla disidratazione e da numerosi traumi.
La mia (im)modesta opinione – Definito “il più turpe crimine
mai perpetrato nello stato dell’Indiana”, il massacro di Sylvia Likens fu un
vero capolavoro di sevizie e crudeltà umana. La sedicenne venne ripetutamente
umiliata, segregata, picchiata a sangue, torturata con acqua bollente,
denutrita, fu costretta a mangiare le sue stesse feci, venne stuprata con una
bottiglia di Coca-Cola che le danneggiò per sempre l’apparato genitale e le
furono marchiate a fuoco sull’addome svariate frasi ingiuriose. Sylvia morì in
seguito di emorragia cerebrale, shock e denutrizione. Ciò che morde
maggiormente lo stomaco, però, è sapere che Gertude Baniszewski non fu l’unica
aguzzina della ragazza sedicenne: a unirsi alle torture furono anche le sorelle
“adottive”, vicini di casa, amici di scuola, fidanzatini delle figlie della
Baniszewski, che, dopo quell’episodio, ricevette il tetro soprannome di “Madre
Tortura”. Cosa scatenò tanta abiezione? Cosa trasformò un tranquillo sobborgo
di Indianapolis in una remota colonia di Auschwitz?
La sventurata figura di Sylvia Likens ha fatto accapponare la
pelle a una buona metà del mondo ed è andata a ingrossare le fila delle Kitty
Genovese, dei Matthew Sheperd e delle Dalie Nere, vittime di insensata e animalesca
ferocia per non si sa che motivo. Due film sono stati prodotti su questa
storia: The Girl Next Door e An American Crime. Due film che osservano la
complicata questione del massacro di una ragazzina innocente da due diversi
buchi della serratura. Se The Girl Next Door si sprecava tutto in un fosco
grand-guignol, abbellendo romanzescamente le vicende di casa Baniszewski con dettagli
chiarificatori (il sadismo e la crudeltà sono semplicemente esposti ma non
spiegati, la storia non segue un filo logico preciso); An American Crime
sceglie un approccio affatto sensazionalistico, versato allo scavo psicologico,
alle dinamiche fra i personaggi dove violenze e crudeltà sono solo dette ma
raramente viste.
Entrambi i film falliscono. Non clamorosamente ma
falliscono. The Girl Next Door era solo un teatrino da due soldi, recitato
senza troppo afflato e scritto più per disturbare che per denunciare, ma che
restituiva bene l’atmosfera di morbosità e perversione che si odorava in casa
di Madre Tortura. An American Crime, invece, cade nell’eccesso opposto:
recitato divinamente (ma le psicologie non sono delineate a dovere), scritto
con una giusta miscela di accuratezza di cronaca e arte narrativa, sobrio e
dotato di un cast di personali stelle (la Page, la Keener, James Franco e Evan
Peters) ma totalmente incapace di coinvolgere o di far assaggiare anche solo
una punta del disgusto che i crimini ispirano. Insomma la violenza non deve
essere gratuita, ma una storia truce come quella di Sylvia Likens richiedeva quantomeno
una vaga traccia di violenza, se non grafica almeno psicologica.
La pellicola risulta solidamente scritta ma inguaribilmente
fredda, non si percepisce ferocia, crudeltà – ferocia e crudeltà che già dalla
foto identificativa di Gertude Baniszewski esondano come fiumi in piena. E
queste sensazioni, suppongo di capisca bene, possono essere evocate tramite la
giusta scenografia, il giusto trucco e un paio di inquadrature orchestrate ad
arte. Insomma, non è particolarmente difficile per un qualsiasi mestierante.
Ricordiamo tutti benissimo il primo, valido Saw dove metà del disgusto era
fornito dalle lerce piastrelle del bagno e dalla sporcizia dei macchinari
dell’assassino o la scena della segregazione nel brividoso Dread, dove bastava
un poco di sporco in volto e capelli incrostati di lordura per suggerire
brutalità senza fine. In An American Crime non proviamo ripugnanza, forse non si
capisce nemmeno cosa stia succedendo e, se non si fosse al corrente della
storia vera, non si arguirebbe neppure il motivo della morte della Likens.
Tutt’al più la cosa che fa più ribrezzo sullo schermo è il
look di Evan Peters, allora appena ventenne, spaventosamente grasso e brutto,
totalmente distante dall’ibrido fra Kurt Cobain e Dylan Klebold che ci ha tanto
sedotto in American Horror Story. Giusto Ellen Page e James Franco (che è
scandalosamente poco presente) ci rinfrancano un poco; e Catherine Keener,
solitamente ridotta a comprimaria, si gode la sua luce di riflettori, ma forse
non è molto capace di gestire una parte del genere. Un film, in definitiva,
assai evitabile mascherato da film d’autore. Molto più raffinato e superbo è il
dramma legale All Good Things che con finezza e orrore ci mette davanti un caso
di cronaca di risonanza ben inferiore ma certamente meglio sfruttato,
artisticamente parlando. Un film sulla crudeltà come manca di crudeltà.
Peccato, quella di Sylvia Likens è materiale davvero incandescente e avrebbe
potuto essere trattato con il triplo della perizia e della bravura.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Sulla cronaca nera
americana i film abbondando: andiamo dal gustoso ma, in ultimo, abbastanza
fiacco The Black Dahlia (2006) di Brian De Palma, al validissimo Alpha Dog
(2006) di Nick Cassavetes. Risalendo poi la corrente perveniamo al capolavoro
Elephant (2003) di Gus Van Sant, allo stupendo Monster (2003) di Patty Jenkins,
a Zodiac (2007) di David Fincher, Lonely Hearts (2006) di Todd Robinson, Snowtown
(2011) di Justin Kurzel e Dear Mr. Gacy (2010) di Svetozar Ristovski.
Scena cult – Ahimè, nessuna
Canzone cult – Qualche pezzo anni ’60. Nulla di
rimarchevole.
Quando a suo tempo ho letto del fatto di cronaca ne sono rimasta impressionata. Non so se cedere nel vedere il film, il cast è decisamente interessante!
RispondiEliminaMeglio la cronaca. Ci sono tanti bei film tratti da storie vere, per questo non vale la pena.
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