Svezia, 2008
Regia: Ella Lemhagen
Cast: Gustaf Skarsgård, Tom Ljungman, Torkel Petersson,
Annika Hallin, Amanda Davin
Sceneggiatura: Ella Lemhagen
Trama (im)modesta – Goran e Sven sono una coppia omosessuale
recentemente trasferitasi in un educato quartiere alto-borghese. I due sognano
ardentemente di avere un figlio e sono quasi arrivati alla fine del lungo iter
burocratico che gli permetterà di avere un bambino. Dopo un’iniziale delusione,
gli viene proposto l’affidamento di Patrik ma, a causa di un errore di
battitura, la coppia è convinta di aver adottato un bambino di un anno e mezzo.
Si capisce allora il loro sbigottimento quando, alla loro porta, si presenta un
quindicenne turbolento dal passato criminale. Se Sven è irritato dai trascorsi
del ragazzo e dai suoi atteggiamenti da piccolo criminale, Goran lo prende in
simpatia, scoprendo i traumi della vita del giovane Patrik.
La mia (im)modesta opinione – I buoni sentimenti li prendo
soltanto in salsa nordica. Solo il cinema del Nord Europa, infatti, è capace di
regalarmi ritratti positivi e calorosi dei sentimenti d’affetto e d’amore –
sentimenti che, grazie al cielo, non condisce mai con scocciante buonismo o
ricatti morali ma sa rendere solo più saporosi con il gusto di una positività
se non consolatoria (che è un brutto termine), almeno rassicurante. Al mondo
non c’è solo bruttura, insomma, e reintegrare positivamente un disadattato
nella società (una società moderna, beninteso, simboleggiata da una coppia
omosessuale che ancora patisce i colpi di coda di un’omofobia solo larvata) è
possibile e non vuole per forza dire incasellarlo dentro un quadro di monotonia
borghese ma dargli amore e calore umano dove altri hanno preferito
istituzionalizzare, comprendere invece di maledire, ascoltare i sensi dietro le
parole di un ragazzo invece di spaventarsene.
Il fulcro della vicenda, si capisce, è costituito da Patrik,
impersonato alla perfezione dal giovane Tom Ljungman, un ragazzo regolare, le
cui provocazioni sono più una difesa che un attacco e che, per tutta la durata
della pellicola, viene tacciato di crimini che si urlano terribili ma che
paiono poco rilevanti. Il personaggio di Patrik è uno di quei personaggi che si
vorrebbe abbracciare, non lasciare da solo, tanto è il suo desiderio di essere
accudito, protetto. E di questo si accorgerà anche Goran, incarnato anche lui
dal bravissimo Gustaf Skarsgård (fratello di quell’Alexander Skarsgård che popola
i nostri teleschermi sotto il nome di Erik Northman, il vampiro vichingo di
True Blood), che capirà che il suo desiderio di paternità può anche risolversi
nel voler bene a un individuo già fatto e finito e non per forza a un paffuto
neonato cresciuto per vanità che per amore. Sinceramente antipatico è il
personaggio di Sven, inutilmente terrorizzato da Patrik e dai suoi trascorsi,
risoluto nell’odiarlo fino alla crudeltà gratuita, non del tutto salvato nella
sua redenzione finale
Un punto essenziale che mi pare che il film abbia scoperto è
quello del motivo delle adozioni. All’inizio, per Goran e Sven, l’avere un
bambino da coccolare è un capriccio infantile: desiderano un neonato da
spupazzarsi perché vedono altre madri farlo. Anche loro vogliono essere
orgogliosi di portare un bambino fra le braccia, anche loro vogliono portarlo a
spasso in un passeggino, anche loro vogliono una belle culla e una stanzetta
deliziosa. Quando Patrik si presenterà alla porta, però, tutta la loro
meschinità viene alla luce: loro volevano adottare un figlio ma non quel
figlio. Loro volevano un altro figlio, magari piccolo e carino, magari senza
problemi alle spalle. Solo Goran si salverà dalla taccia di cattiveria quando
capirà cosa vuol dire voler bene a un figlio, mentre Sven preferirà indire una
crociata inutile in nome di un bambinello sciocco, in nome dell’idea di un
cucciolo d’uomo da coccolare.
Patrik, Age 1.5 è un gran bel film, uno di quei film che fanno
voler bene al mondo e ci fanno capire che, in fondo, non si tratta solo di
giocare a scacchi con la vita e con gli altri ma che anche riversare il proprio
affetto su qualcuno che ne ha bisogno, curarne le ferite e fare del bene può
essere qualcosa di bellissimo. Buonismo? Forse, ma vedete questo film e andrete
tutti orgogliosi di essere buonisti. Ricatti morali? Nessuno. Solo sentimenti
che, se non sono buoni, sono almeno belli e che farebbe bene vedere ogni tanto
sullo schermo. Lo ripeto, è solo il cinema nord-europeo che riesce a creare
gemme come questa, che trattano le dinamiche familiari e affettive con
sensibilità fresca, solare e nuova senza mai strafare, senza mai indottrinare o
abbindolare. Mi inchino, dunque, e chiudo con le parole del grande Renoir a
commentare questo film. «Per me, un dipinto deve essere una cosa amabile,
allegra e bella, sì, bella. Ci sono già abbastanza cose noiose nella vita senza
che ci si metta a fabbricarne altre. So bene che è difficile far ammettere che
un dipinto possa appartenere alla grandissima pittura pur rimanendo allegro. La
gente che ride non viene mai presa sul serio».
Se ti è piaciuto guarda anche... – Fra i film nordici dai
buoni sentimenti (ma con intelligenza) presenti nella mia rassegna, figurano Dreng (2011) di Peter
Gantzler, Evil (2003) di Mikael Håfström sempre con Gustaf Skarsgård, lo stupendo
Les Géants (2011) di Bouli Lanners e il
delicato North Sea, Texas (2011) di Bavo Defurne. Tematica umanistica, ma
condita con più lirismo, la si avverte anche nel rutilante Detachment (2011) di
Tony Kaye. Simile a Patrik, Age 1.5 è anche il Transamerica (2005) di Duncan
Tucker, come anche l’iconico Léon (1994) di Luc Besson.
Scena cult – Patrik che scruta verso la telecamera nella sua
stanza. Gli sguardi profondi m’hanno sempre colpito.
Canzone cult – In mezzo a tutta la paccottiglia country che gli
stessi protagonisti del film dichiarano di odiare (sic!) si segnala solo la
triste ballata Love Me Like You Used To Do di Tanya Tucker.
Sembra un bel film!
RispondiEliminaHai detto bene! Proprio un bel film. Ma non aspettarti nulla di troppo impegnato: è una cosa molto leggera. Bella ma leggera.
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