domenica 30 dicembre 2012

ARGO (2012), Ben Affleck


USA, 2012
Regia: Ben Affleck
Cast: Ben Affleck, Bryan Cranston, John Goodman, Alan Arkin, Clea DuVall
Sceneggiatura: Chris Terrio


Trama (im)modesta – Teheran, 1979. È in corso la rivoluzione islamica capeggiata dall’Ayatollah Khomeini. I militanti inferociti contro il governo degli Stati Uniti, colpevole di aver messo al governo del paese un crudele dittatore, irrompono nell’ambasciata americana e prendono 52 cittadini americani in ostaggio. Sei americani, che lavorano all’ambasciata, riescono a scappare e a rifugiati presso l’ambasciata canadese. I sei corrono il serio rischio di essere trovati e uccisi, per cui la CIA affida all’agente Tony Mendez, esperto di operazioni sotto copertura, il salvataggio dei rifugiati. L’idea di Mendez ha dell’assurdo, ma pare geniale: arrivare in Iran, dunque portar via i sei americani facendoli passare per membri di una troupe cinematografica canadese in cerca di location per un film di fantascienza: Argo, appunto. Il piano è follemente rischioso, eppure i sei cittadini riusciranno a scappare dal paese.


La mia (im)modesta opinioneArgo è il thriller dell’anno, senza dubbio alcuno, ma difficilmente diventerà il film dell’anno. Mi spiego meglio: la pellicola di Ben Affleck è un thriller politico valido più per effetto (un grande, grandissimo effetto) che per effettivo valore intrinseco. Eppure già la sola costruzione della tensione, rende Argo un film più che memorabile. Lontano dalla malinconica disperazione di Gone Baby Gone (che ritengo superiore sotto molti aspetti), Ben Affleck crea una storia ad altissima tensione, un thriller al cardiopalma che, senza l’ausilio di effetti speciali o baracconate che ormai caratterizzano il genere, riesce a far saltare il cuore in gola allo spettatore; e per di più semplicemente raccontandogli una storia vera.


Argo è un film profondamente americano. A partire dallo stile di regia: solidissimo, granitico quasi; privo di orpelli di alcun genere, nascostamente epico e dunque, come tutta l’epica, anche profondamente patriottico – un patriottismo, però, che Affleck riesce bene a dissimulare fra le trame dello spionaggio e che si rivela solo nelle sottigliezze. Il che è un bene, dato che un film che avesse prestato troppo facilmente il fianco a letture in chiave filo-americana avrebbe senza alcun dubbio attirato su di sé critiche giustificate, com'è successo con certi critici che gli hanno rimproverato di aver dipinto gli iraniani come una massa informe d'invasati e violenti. Ben Affleck dirige dunque, con mano fermissima, un film dalla sceneggiatura granitica, che volontariamente sta lontano da affettazioni di sorta e si dimostra più portato verso prese più salde e virili.


Valore aggiunto della pellicola è la sua verità. O meglio il fatto che narri degli accadimenti effettivamente avvenuti. La storia stessa, nel suo svolgimento, non presenta particolari complicazioni: l’andamento è lineare, i passeggeri s’imbarcano sull’aereo che li porterà verso il lieto fine senza grandissimi scuotimenti. Eppure la tensione è grande, enorme. Tutto questo dimostra come Ben Affleck si sia rivelato un regista di prim’ordine (per fortuna, dato che come attore è alquanto cane), grazie anche a un cast di altissimo livello composto dagli eccellenti comprimari Bryan “Heisenberg” Cranston (che senza dubbio definirei uno dei migliori attori della sua generazione), il peso massimo John Goodman e il sempre gustosamente gigione Alan Arkin.


Come già detto il film non si concede a svenevolezze e languori, giusto qualche tocco d'umorismo per il tramite del personaggio di Alan Arkin, che ironizza sul mondo del cinema. Bandito è l’approfondimento dei personaggi, severamente censurata la possibile lettura del film come scontro fra verità e illusione. Le uniche emozioni presenti sono la tensione e il sollievo, null’altro è descritto se non l’azione dura e pura. Tutto ciò, come dicevo sopra, rende Argo un film di grandissimo effetto e sicuro valore, ma in qualche modo lo fa sembrare inutilmente abbottonato, privo di quella profondità di temi che caratterizza i film che entrano negli annali della storia del cinema. Ma oltre a ciò Argo è forse uno dei migliori film hollywoodiani dell’anno e andrebbe considerato dovere il guardarlo e apprezzarlo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Americani in guerra. Partiamo con la prima classe: Flags of Out Fathers (2006) e Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood, film di indiscussa grandezza e importanza; Syriana (2005) di Stephen Gaghan e l’importante The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow. Per vedere Ben Affleck alla regia, e sono tutti film spettacolari, ci sono Gone Baby Gone (2007) e The Town (2010). Storie di spionaggio e infiltrazioni? Ci sono Breach (2007) di Billy Ray, Burn After Reading (2008) di Joel ed Ethan Coen e Munich (2005) del decadutissimo Steven Spielberg.


Scena cult – La lettura del copione del falso film, inframezzata alla falsa fucilazione dei prigionieri.

Canzone cult – Non pervenuta.

sabato 29 dicembre 2012

BURLESQUE (2010), Steve Antin


USA, 2010
Regia: Steve Antin
Cast: Christina Aguilera, Cher, Cam Gigandet, Stanley Tucci, Kristen Bell, Alan Cumming, Eric Dane
Sceneggiatura: Steve Antin


Trama (im)modesta – Ali Rose è la classica ragazza di provinciale di buon cuore e gran tette che sogna i brillanti palcoscenici del mondo dello spettacolo. Per questo decide di mollare la sua vita da campagnola nello Iowa e se ne va a Los Angeles in cerca di fortuna. Dopo giri e rigiri, finisce una sera al Burlesque Lounge, locale dove procaci fanciulle si esibiscono in voluttuose figure di danza (per dir così). Il locale è tenuto da Tess, giunonica matrona con problemi di fisco, insieme a Sean, suo migliore amico e direttore artistico. Ali inizia prima per lavorare come cameriera, conoscendo il barista bonazzo Jack, finirà poi sul palco a esibirsi con la sua voce da urlo (letteralmente). Ma il triangolo amoroso non ci poteva mancare, ed ecco arrivare Marcus, uno che compensa la mancanza di fisico atletico con un barcone di soldi. E tutto è bene quel che finisce bene.


La mia (im)modesta opinione – Non che avessi aspettative esagerate a guardare Burlesque. Ai tempi in cui uscì lo ignorai se non con supponenza, almeno con risentito snobismo. Poi me lo sono trovato davanti. Lo devo ammettere, è stata una gradevole sorpresa. Sapevo benissimo che era un one-woman show da manuale e così è stato: questo film è stato scritto per l’ingresso della Aguilera nel mondo del cinema e, devo dirlo, senza la biondissima Christina la pellicola non avrebbe ragion d’essere. I pezzi musicali sembrano usciti dal suo album di maggior successo, Back to Basics, in cui si sentivano profondi echi della musica anni ’30 e di uno swing rielaborato per vestire a pennello la voce della cantante; e anche qui la magia funziona ancora: Christina canta, balla e recita ed è lei il centro assoluto della storia, assolutamente insostituibile. Questo è il limite più pesante che il film è costretto a sopportare – un limite ben poco sentito, del resto, dato che il film poggia sulle spalle di una entertainer di prim’ordine quale era la Aguilera qualche anno fa, prima della svolta elettronica e dell’esplosione adiposa.


La storia è banale ma grazie agli accorgimenti di uno script che evita con discrezione ed eleganza le trappole del cliché più grigio, Burlesque risulta una visione disimpegnata godibilissima e assolutamente piacevole. Niente di che, sia chiaro, una commedia musicale che di tanto in tanto eccede nel videoclipparo (ormai Cher non ne potrebbe fare a meno, vista la ragguardevole età, sebbene sepolta sotto gli strati del silicone e del make-up), e forse è vagamente manierata in certi punti ma che alla fine fra l’andamento favolistico in cui nulla va troppo male e le risoluzioni intelligenti di uno script scarno ma giustamente sobrio, risulta il classico film da poter vedere a cuor leggero e senza troppi patemi d’animo, godendosi magari pure dei numeri musicali affatto male. La musica è totalmente in stile Christina Aguilera ai tempi di Back to Basics, questo fattore ogni tanto si nota non senza un certo, lontanissimo fastidio però è possibile glissare sui difetti della storia e andare avanti deliziandoci delle atmosfere saporosamente retrò, dei protagonisti che (naturalmente) sono uno più strafigo dell’altro e delle musiche commerciali ma coinvolgenti.


Il cast è pure una sorpresa. Al di là della Aguilera, che giustifica con la sua presenza l’intero film, e di Cher, che sembra aver stretto un patto col diavolo (o col chirurgo, ma è la stessa cosa), l’ensemble del film è assolutamente piacevole, a parte un paio d’attori condannati ingiustamente al margine della vicenda e della sceneggiatura. Ci si riferisce, com’è ovvio, in primo luogo ad Alan Cumming, che è un grande caratterista e sarebbe degno di una parte più incisiva o almeno necessaria; e poi a Kristen Bell che non che sia poi tutta questa grande attrice ma ci è sempre stata simpatica e in fondo come pseudo-cattiva non è manco tanto stronza e odiosa. Vera sorpresa è Cam Gigandet, attore da me mentalmente relegato nella categoria di “quelli che recitano con gli addominali, colpevole anche un’ignominiosa partecipazione nel franchise di Twilight, ma che non solo riesce a essere un plausibile strafigo ma è pure un gran simpaticone. Come al solito meraviglioso è il grande Stanley Tucci, un attore che dovrebbe affogare negli Oscar, ma che, inspiegabilmente, nessuno si sogna mai di premiare.


Ricapitolando, Burlesque è un film abbastanza sciallo, simpatico, nonostante la sconcertante orgia di lustrini e sederi al vento, e, nelle ambientazioni e nello stile di canzoni e coreografie, pare un Chicago in chiave (molto, molto, moltissimo) minore, virato, per così dire, al commerciale. M’ha pure ricordato, per trama e andamento, la prima parte di Memorie di una Geisha, e in effetti la trama dei due film presenta non indifferenti parallelismi. Non entrerà nella storia del genere, è palese, ma il cinema è anche fatto di commedie leggere, posto che siano abbastanza ben realizzate, ben scritte e intelligenti. Burlesque lo è. Dunque, quando vi sarete stancati dei vari film intimistici e d’autore (che son belli ma, alla fine, causano ipertensione) guardatelo o, se l’avete già visto, riguardatelo: il film è innocuo e zuccheroso come un buon placebo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Qui il gioco è facilissimo: Flashdance (1983) di Adrian Lyne, Chicago (2002) di Rob Marshall, che è il campione del genere; e il fin troppo vituperato Nine (2009) sempre di Rob Marshall, che per quanto inferiore, rimane un film piacevole e non l’Anticristo del musical, come è stato dipinto. Cito ancora Memorie di una Geisha (2005) curiosamente ancora di Rob Marshall e la dolce e piana commedia romantica Il club di Jane Austen (2007) di Robin Swicord insieme al negletto eppur bellissimo film Dirty Dancing 2 (2004) di Guy Ferland.  E, per il tema “anche chi si smutanda ha un cuore”, ricordiamo il valido ma moscissimo Magic Mike (2012) di Steven Soderbergh.


Scena cult – Non pervenuta.

Canzone cult – Oltre alla Ray of Light di Madonna, che in mezzo a tanta Aguilera pare una scappata di disco, segnalo la stupenda Long John Blues, cantata nel film da Kristen Bell con la voce della mitica Megan Mullally e la sempre bella Tough Lover della strafigona Aguilera.

sabato 22 dicembre 2012

PITCH PERFECT (2012), Jason Moore


USA, 2012
Regia: Jason Moore
Cast: Anna Kendrick, Anna Camp, Brittany Snow, Skylar Astin, Alexis Knapp
Sceneggiatura: Kay Cannon


Trama (im)modesta – Beca ama la musica e vorrebbe lavorare come DJ a Los Angeles, ma il padre, professore, le impone di andare al college in cui lavora per un anno e di entrare, per meglio integrarsi, in uno dei vari club degli studenti. Fra i tanti, Beca sceglie quello delle Barden Bellas, un gruppo femminile di canto a cappella, che continua a perdere perché propone sempre la stessa trita canzone. Rivali giurati delle Bellas sono i Treblemakers, bastardissimo gruppo di canto maschile di inverosimile bravura. Sembra poi uno scherzo del destino quando il ragazzo che piace a Beca entra a far parte del gruppo rivale. Così, a colpi di battaglie musicali e mash-ups, le Bellas intraprenderanno la scalata alle competizioni nazionali di canto a capella, accettando la ventata di novità che Beca si porterà dietro.


La mia (im)modesta opinione – La trama così come l’ho esposta pare quella del più banale fra i musical adolescenziali, lo so; ma è stata una scelta intenzionale. Perché su una trama tanto banale gli autori del film costruiscono una storia divertente e scorrettissima che, da dietro la maschera della commedia teen, mena fendenti di esplosiva comicità a destra e a manca, complice un intero, stupendo stuolo di comprimari eccellenti a cui sono affidati i momenti e le situazioni più meravigliosamente grottesche del film, senza risparmiarsi una frecciatina nascosta, ma non per questo meno velenosa, ai musical ambientati nei liceo americani con particolare (e acidissimo) riferimento all'ormai passivissimo Glee. Ed è proprio questa la forza del film: far saltare in aria una mina di acidissima scorrettezza in mezzo a una trama apparentemente ingenua e stereotipata e condire il tutto con numeri musicali da capogiro, con particolare menzione al rap e all' R&B.


Fra gli esilaranti e demenziali commenti dei presentatori degli show, gli spettacolari personaggi di Fat Amy (in bocca a lei sono le battute più devastanti) e della bizzarrissima cinesina Lily con la vocina bassa e lo sguardo spaurito e con le stupende scene di canto a cappella (finalmente non si sentono strumenti musicali invisibili che suonano!), il film procede se non gloriosamente almeno radiosamente, trascinato da una talentuosissima Anna Kendrick (lei è davvero una delle migliori giovani attrici sulla piazza) e dalla biondaggine dabbene di Anna Camp, volto noto a cinefili e teledipendenti per i suoi ruoli in The Help e, soprattutto, per la celeberrima scena del sesso orale amministrato a una bottiglia di birra nella seconda stagione dell’ormai supertrash True Blood. Da notare il cameo di Donald Faison, il Turk della fondamentale serie tv Scrubs.


Magari il film non sarà la commedia dell’anno, ma le risate sono certamente assicurate – le risate vere, quelle intelligenti e vagamente bastarde che solo un film così creativo e sopra le righe sa regalare. Certi pezzi della colonna sonora sarà meglio segnarseli (specialmente quello dei superstronzi Trablemakers) e il film, ve l’assicuro io, diventerà col tempo un piccolo cult del musical di ambientazione universitaria. Ulteriore lato positivo: finalmente un musical dove, prima di cantare, i performers provano, lavorano su canzoni e coreografie e nessuno s’inventa più niente. E dunque, fra colonna sonora supergiovane e supercreativa, interpretazioni brillanti da parte di tutto il cast e sceneggiatura esuberante e cattivella (certa roba sembra rubata a una Diablo Cody di qualche anno più acerba), Pitch Perfect è uno dei (pochi) musical che è riuscito a davvero non solo a farmi ridere ma anche a conquistarmi.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per musical di buona qualità e sempre sopra le righe, la mia lista è alquanto succinta: abbiamo il cult assoluto The Blues Brothers (1980) di John Landis, il sommo capolavoro Chicago (2002) di Rob Marshall, il travolgente Hairspray (2007) di Adam Shankman e il sempre meraviglioso The Rocky Horror Picture Show (1975) di Jim Sharman. Per le commedie bastarde abbiamo lo spassosissimo Le amiche della sposa (2011) di Paul Feig, Funeral Party (2007) di Frank Oz, La ragazza della porta accanto (2004) di Luke Greenfield e il dementissimo La figlia del mio capo (2003) di David Zucker.


Scena cult – Su tutte, il malevolissimo incipit, una delle scene più elegantemente trash che mi sia capitato di vedere e la battaglia musicale nella piscina vuota, che vi consiglio di vedere, giusto per assaggiare l'innata figaggine del film.

Canzone cult – Oltre alla Starships della di solito odiatissima Nicki Minaj che però, stranamente qui, riusciva a suonar bene, abbiamo Please Don’t Stop the Music e la spettacolare Right Round (di cui, nella mia generosità, vi fornisco pure la clip) dei Treblemakers, insieme al loro pazzesco pezzo finale, il mash-up Bright Lights Bigger City/Magic; per le Bellas ci sono il mash-up di Just the Way You Are/Just a Dream e le Songs About Sex del meraviglioso duello musicale, che non elenco, temendo la noia dei lettori.

mercoledì 19 dicembre 2012

THE PERKS OF BEING A WALLFLOWER (2012), Stephen Chbosky


USA, 2012
Regia: Stephen Chbosky
Cast: Logan Lerman, Ezra Miller, Emma Watson, Nina Dobrev, Dylan McDermott, Joan Cusack
Sceneggiatura: Stephen Chbosky


Trama (im)modesta – Charlie è un ragazzo introverso che ha appena iniziato il liceo. Ancora livido e sanguinante per le ferite che si porta dentro, ha difficoltà persino a parlare alla gente e non ha amici. Un giorno conosce la coppia di fratellastri Patrick e Sam, che lo prendono sotto le loro ali e lo introducono nel loro gruppo di amici. Per Charlie inizia una nuova vita ma, mano a mano che si lega sempre di più alle nuove conoscenze, scopre che lo stesso dolore che lui sopporta, perseguita tutti gli altri. Non resta a Charlie che prendere le armi contro il suo mare d’affanni e, opponendovisi, porvi fine, non senza però uscire dalla battaglia con se stesso ancor più lacerato e pesto.


La mia (im)modesta opinione The Perks of Being a Wallflower è il più bel film sugli adolescenti che io abbia mai visto, hands down. Ne esistono altri, è vero, che riproducono con realismo estremo la vita dei giovani e dei giovanissimi, ce ne sono alcuni, diventati addirittura di culto, che sono stati elevati a simbolo di un’intera generazione; ma nessuno di tutti questi è riuscito a pugnalarmi al cuore con tanta forza quanto il film di Chbosky. La pellicola, va detto, non poteva essere più fortunata: tratta da un romanzo cult il cui autore s’è improvvisato regista e sceneggiatore, l’aderenza non tanto alla trama quanto al più sincero spirito del libro era assicurata e dunque la bellezza del film va oltre ogni travisamento. Il merito va anche al grandissimo cast di giovani promesse scelto per dare corpo ai dolenti personaggi partoriti dalla mente dell’autore.


L’adolescenza non è un bel periodo, e lo sappiamo tutti. C’è la timidezza d’affacciarsi alla ribalta della vita, l’identità che non fa che frantumarsi e collassare su se stessa, la dolorosa urgenza di vivere che cela una nuova consapevolezza che, in futuro, nella senilità, diventerà l’ormai famosa partita a scacchi con la morte; c’è il dolore, dovunque. E però questo significa crescere, perché per ogni gioia che riusciamo a cavare dall’esistenza, dieci nuove sofferenze sbucano fuori, a volte lasciandosi dietro cicatrici insanabili. La follia ci guarda da dietro ogni angolo coi suoi occhi sporgenti, ed è solo il nostro riflesso allo specchio. E questi sono i protagonisti della pellicola/opera letteraria di Chbosky: ragazzi comuni che, come ogni altro, scoprono ogni giorno nuove crepe nel loro volto e si sentono un rivoltamento nello stomaco, non sapendo se si tratti d’indigestione, nausea o inedia.


Gli aspetti dell’adolescenza che il film annovera non sono tutti, non siamo certo davanti all’enciclopedia del cuore di un giovane, ma la rassegna è forse delle più complete e dettagliate. Non starò qui a elencarvi protagonisti con relativi problemi, guardate il film e tutto sarà spiegato. Titanici sono certamente gli attori. Prima di tutto il sorprendente Logan Lerman, che aveva iniziato con film molto di facile consumo ma s’è rivelato uno dei visi outsider più sorprendenti della nuova generazione di Hollywood; abbiamo poi Ezra Miller, un tipo che è saltato al primo posto della mia classifica degli attori di culto al suo primo film, che si rivela essere sempre una spanna sopra metà di tutti i suoi colleghi, e che finalmente è relegato in ruolo non da psicopatico. E infine Emma Watson, radiosa, bellissima, passata con disinvoltura da Harry Potter a film, come questo, di grandissimo spessore con un’eleganza da far paura. È, senza alcun dubbio, la nuova Natalie Portman.


Ma oltre al principale trio d’attori e al cast di contorno, bravo ma dimenticabile, il film più che brillare, splende grazie a uno script che è l’apoteosi del teen movie, non solo densissimo a livello narrativo ma anche a livello artistico e letterario, ornato di frasi e battute di culto come la stupenda citazione al The Rocky Horror Picture Show, sposate a sequenze da far commuovere. Incredibile come il regista/autore/scrittore sia stato capace di manipolare la cinematografia riuscendo, nell’ultima mezz’ora di film a passare da un registro quotidiano a soluzioni freddamente visionarie, che non saprei nemmeno ricollegare all’esperienza di registi precedenti. The Perks of Being a Wallflower, lo ripeto, è il miglior film sull’adolescenza mai girato, insieme a pochi altri che più sotto elencherò, a uso dei Pazienti Lettori. Il miglior film dell’anno? Purtroppo no, esistono produzioni di gran lunga più ricche e sorprendenti, ma rientra a buon diritto nella top ten dei cult dell’anno che sta per passare e assolutamente nel gotha dei miei film preferiti di sempre.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Arduo compito, quali sono i migliori film sull’adolescenza mai girati? Il primo, il più viscerale e lirico è certamente l’immortale The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci, abbiamo poi lo sconvolgente Kids (1995) di Larry Clark. Poi c’è il capo dei capi Donnie Darko (2001) di Richard Kelly, il capolavoro Il giardino delle vergini suicide (1999) di Sofia Coppola, intossicante mescolanza di macabro candore e disperato inno alla morte; il Thirteen (2003) di Catherine Hardwicke, il sublime Stand By Me (1986) di Rob Reiner, Lasciami Entrare (2008) di Tomas Alfredson e i capolavori di Gus Van Sant: Elephant (2001) e Paranoid Park (2007).


Scena cult – Lo spettacolare finale, il commovente dialogo sull’amore fra Ezra Miller e Logan Lerman e il primo bacio di Charlie.

Canzone cult – La colonna sonora del film è spettacolare. Pezzo fortissimo è la Heroes di David Bowie.

martedì 18 dicembre 2012

MARGIN CALL (2011), J.C. Chandor


USA, 2011
Regia: J.C. Chandor
Cast: Kevin Spacey, Jeremy Irons, Zachary Quinto, Paul Bettany, Stanley Tucci, Penn Badgley, Demi Moore, Simon Baker
Sceneggiatura: J.C. Chandor


Trama (im)modesta – Quando Eric Dale, capo del settore rischi di un colosso del credito finanziario di Wall Street, viene licenziato in tronco, fa appena in tempo a passare all’analista Peter Sullivan una chiavetta con all’interno un lavoro lasciato a metà. Tornando sul lavoro del capo, più tardi, Peter scopre che Dale aveva previsto un crollo delle azioni pronto a demolire con gli interessi la società per cui lavorava. È emergenza. Nella notte gli alti papaveri della società si riuniscono, prendono atto del vicino naufragio e si confrontano su una scelta: svendere tutte le azioni, causando una metastasi del credito e la rovina di milioni di investitori, o colare a picco insieme alla nave? I pareri sono discordanti, ma il verdetto è presto pronunciato: la catastrofe incombe su tutto il mercato.


La mia (im)modesta opinione Margin Call è un film tragico, un dramma sofocleo che, curiosamente, rispetta pure le tre unità (di tempo, d’azione e di spazio) che costituivano il canone della tragedia greca. Un götterdämmerung notturno da colletto bianco che vede gli scafisti del mondo (diciamocelo pure, è il denaro che fa girare l’universo) decidere fra le proprie sorti e quelle dei passeggeri che insieme a loro solcano il mare sul barcone dell’economia. E sebbene il livello di teatralità del film sfiori pericolosamente lo zero, la storia è tutta attraversata dai temi trasversali e dalle allegorie della rovina e del crollo, nel senso più fisico del termine. Le vertiginose inquadrature dei grattacieli newyorchesi, gli strapiombi da centesimo piano e persino una svelata scena in cui il personaggio di Paul Bettany sentenzia sul gettarsi dai tetti, tutte quante suggeriscono il pericoloso tema della caduta, del tracollo e del baratro.


I personaggi che animano la vicenda non sono meno tragici. Ci sono i più umani, come quelli interpretati da Stanley Tucci, Zachary Quinto e Kevin Spacey, che riescono a percepire, al di là della cruda moneta, la presenza di un’umanità la cui sicurezza da loro dipende; ci sono quelli più avidi e secchi, come quelli di Simon Baker e Penn Badgley, che aspirano al confortante freddo dell’oro; e poi ci sono i disillusi, in questo caso il broker Paul Bettany e il capo dei capi Jeremy Irons, per cui il problema non è perdere o guadagnare, ma sopravvivere. E quello di Jeremy Irons è forse il personaggio più emblematico, a cui è affidata la chiave di lettura dell’intero film. Vera maschera d’Arpagone, arcidiavolo ed eminenza grigia, il John Tuld di Jeremy Irons va oltre il semplice concetto di avidità: la crisi è sempre esistita ed è sempre tornata, lui dice, la storia ripete sempre lo stesso giro implacabile, l’etica è un problema obsoleto perché inutile è l’eroismo, l’unico obiettivo sensato è la sopravvivenza; vanità tutto il resto.


Ed è proprio questo lento crescendo di dissidio interiore e mercantilizio (per dirla in questo modo) con la duplice acme finale dell’ineluttabilità della sventura, da una parte, e, dall’altra, dell’attaccamento alle piccole cose, quelle di nessun valore (in mezzo a tutti i disastri del mondo, Kevin Spacey soffre per la morte del proprio cane) che rende un film altrimenti freddo, un’allegoria del mondo. Il pessimismo è amaro, la pietà lontana, ma non per questo il film è perfetto. Sebbene infatti la pellicola dell’autore/regista Chandor riesca a volare alto, le spinte più tragiche e umane finiscono per sfociare in una necessaria (e originale) freddezza da ragioniere: il film è lento, la trama è pressoché immobile, i personaggi ben sbozzati ma, tutto sommato, abbastanza dimenticabili. Questo, dunque, il limite principale della pellicola che però, nel suo voler essere assolutamente moderna e attaccata fino alla minuzia alla realtà dei fatti, si concede momenti d’alta significanza: Demi Moore piangente sullo sfondo dell’alba di Manhattan, il cinico contrasto fra i due direttori d’azienda e la donna delle pulizie dentro l’ascensore, le amarissime considerazioni di Zachary Quinto e Paul Bettany sul mondo e sul denaro.


Per spiegare tutto questo, Chandor rinuncia totalmente all’artificio. Il film è naturale, nudo e crudo, le strutture narrative sono denudate e palesi, i personaggi spiegati in modo piano e meditatamente naive e la denuncia sociale serpeggia liberamente per tutte le scene del film, ma con una certa discrezione, grazie al cielo, evitando inutili additamenti e faziosità. Qui sono i personaggi crudeli che si autoaccusano; ma, sebbene esista un’accusa, non ci sono né giudice né giuria. Il mondo è così com’è e ogni rospo lo dobbiamo ingoiare. Per questo suo carattere iperintellettuale (nel senso che quelle della crisi sono teorie, elucubrazioni e calcoli) il film cade ancora una volta nella trappola della freddezza. Peccato non sia dunque così immediatamente entusiasmante ma molti gran bei film colpiscono più in testa che in pancia. Ci accontenteremo e, nel frattempo, non dimenticheremo questo Margin Call.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I principi dell’economia al cinema sono, senza alcun dubbio, Wall Street (1987) e Wall Street: il denaro non dorme mai (2010) di Oliver Stone. Altro cinico (e freddo) ritratto della società odierna è il recente Le idi di Marzo (2011) di George Clooney. Abbiamo poi Capitalism: A Love Story (2009) di Michael Moore, il televisivo Too Big to Fail (2011) di Curtis Hanson, Inside Job (2010) di Charles Ferguson e The Flaw (2010) di David Singleton.


Scena cult – Sul podio sta il monologo di Jeremy Irons sulla natura del denaro e della storia, in seconda posizione troviamo Demi Moore che, piangendo, contempla l’alba e, in terza, la scena di Paul Bettany sul tetto.

Canzone cult – Ovviamente la stupenda Wolves dei Phosphorescent.

venerdì 14 dicembre 2012

THIS MUST BE THE PLACE (2011), Paolo Sorrentino


Italia, Francia, Irlanda, 2011
Regia: Paolo Sorrentino
Cast: Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson, Karry Condon, Harry Dean Stanton
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello


Trama (im)modesta – Cheyenne è una rockstar ormai in pensione che s’è ritirata in una lussuosa magione in Irlanda con la moglie. Vive, Cheyenne, coi suoi soldi e i suoi rimorsi; e sebbene abbia abbandonato da anni e anni il palcoscenico, non rinuncia ancora al trucco di scena e alle bizzarre capigliature. Ogni settimana va a deporre fiori sulle tombe di due ragazzi che, prendendo troppo per filo e per segno le sue deprimenti canzoni, si sono uccisi. La vita di Cheyenne procede nel cristallo di questa mesta monotonia, finché gli giunge una notizia sconvolgente: suo padre è a New York, sul letto di morte. Non fa Cheyenne in tempo ad arrivare che il padre con cui non ha mai parlato è spirato, ma scopre che quest’ultimo aveva speso quasi tutta la sua vita alla ricerca di un criminale nazista che abitualmente l’umiliava ai tempi di Auschwitz. Cheyenne decide allora di completare le ricerche del padre e vendicarlo, e così s’imbarca per un viaggio solitario che gli farà rivalutare la vita e se stesso.


La mia (im)modesta opinione – Nevrotici, narcisi sopra le righe, nascosti dietro le lenti di occhi spenti e insonnoliti. Questi sono gli antieroi che popolano il cinema di Sorrentino, dall’amico di famiglia Giacomo Rizzo, al titanico Andreotti di Toni Servillo, fino al lento, torpido Cheyenne, con quei suoi modi infantili, le inflessioni da terza elementare, lo sguardo sperduto. Perché i personaggi di Sorrentino non sono le semplici figure, più o meno ben delineate, che popolano le geometrie preziose dell’inquadratura: sono parte integrante del cinema stesso, fulcri intorno a cui si svolgono le rivoluzioni di trama e regia. Non avrebbe senso immaginare un film di Sorrentino senza i personaggi di Sorrentino, né i suoi film sono altro da questo: studi su personaggi al di sopra (o sarebbe meglio dire al di sotto) di ogni sospetto.


E anche se a qualcuno potrà vedere queste mie considerazioni come una riduzione e impoverimento del cinema del nostro miglior cineasta nazionale, è ancor vero che sono i personaggi a titaneggiare nei suoi film e, più che i personaggi, gli antieroi insospettabili: uno sgorbio usuraio, un politico gobbo dalle arguzie taglienti e, nel nostro caso, una stramba rockstar, a metà Robert Smith e a metà Alice Cooper, che vaga per le strade dell’America imbattendosi in ogni genere di incontro, affrontato con saggia ingenuità. Poco importano, a parer mio, gli altri discorsi che il film stuzzica ma finisce per lasciar perdere: la vita, il perdono e la vendetta, la redenzione, l’identità, la famiglia. Idee sagaci, per quanto larvate, che sono comunque al centro di scene di esplosivo lirismo ma che finiscono per gonfiare oltre misura una pellicola che avrebbe fatto meglio a dotarsi di meno accessori.


E dunque, a fine film, oltre all’emozione che la storia sa evocare, non fatica a profilarsi l’idea vaga di un film fine a se stesso, certamente superlativo, ma privo di veri e propri messaggi di un qualche tipo. E dico così perché, va ammesso, la visione di This Must Be The Place è una visione infinita, estenuante. Il film dura due ore giuste giuste, eppure sarebbe stato opportuno stringere, compattare e incentrarsi su un solo obiettivo. Se quelli che definisco “studi su personaggi” sono di solito latori di messaggi di stampo più generale, questo studio su un personaggio estremamente singolare rende il film involuto, arroccato in una sorta di godurioso e ornato solipsismo. Mi spiego meglio: la catarsi avviene per Cheyenne, non per gli spettatori. Un classico esempio, insomma, di troppo finito: quello di Cheyenne è un personaggio così a sé stante, così sui generis che finisce per ammazzare l’empatia.


Vediamo la stramba rockstar riprendere il controllo sulla propria vita, guadagnarsi l’uscita dalla sua infanzia, ora proroga ora prigione, ma ciò che fa crescere Cheyenne non riesce a dare qualcosa di concreto allo spettatore. Il risultato? Il miglior film italiano dell’anno passato, forse anche di quest’anno; una prova magistrale di virtuosismo da parte dell’unico regista che separa l’Italia dal baratro della cultura; una performance attoriale da ricordarsi, che da sola sostiene tutto il film, affidata com’è alle poderose spalle di uno Sean Penn clamoroso come non mai, bravo oltre ogni dire, che supera sempre se stesso. Il tutto accompagnato da una fotografia, un montaggio e una colonna sonora di rarissima eleganza. This must be the place (e in maggior misura Il Divo) è la prova che il polso del nostro cinema non è una linea del tutto piatta.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente tutti gli altri stupendi film di Sorrentino a partire dal pressoché perfetto Il Divo (2008), L’Amico di Famiglia (2006), il fulgido Le conseguenze dell’amore (2004) e L’Uomo in Più (2001). Per la vita di rockstar sull’orlo del delirio ricordiamo il bellissimo ma un po’ vuoto Control (2007) di Anton Corbijn, sulla vita di Ian Curtis, e il difficile e oscuro Last Days (2005) di Gus Van Sant, riguardo le ultime settimane di vita di Kurt Cobain. Parecchio più sopra le righe ma ugualmente commovente è il I’m not there (2007) di Todd Haynes.


Scena cult – Il monologo di Aloise Lange e il commovente finale.

Canzone cult – Fra tutte eleggo la più scontata: ovvero la This Must Be The Place dei Talking Heads.

lunedì 3 dicembre 2012

REVOLVER (2005), Guy Ritchie


Regno Unito, Francia, 2005
Regia: Guy Ritchie
Cast: Jason Statham, Ray Liotta, André Benjamin, Vincent Pastore, Mark Strong
Sceneggiatura: Guy Ritchie, Luc Besson


Trama (im)modesta – Jake Green è appena uscito di prigione, dopo essere stato incastrato dal boss Dorothy Macha, con cui lavorava grazie alle sue incredibili doti nel campo della truffa e del gioco d’azzardo. Appena Jake riacquista la libertà scopre che gli scagnozzi di Macha sono sulle sue tracce e che gli restano pochi giorni da vivere per colpa di una misteriosa infezione del sangue. A questo punto viene contattato da due criminali, Zach e Avi, che gli propongono un misterioso affare: protezione completa in cambio di totale ubbidienza e di tutti quanti i suoi soldi. Jake accetta con riluttanza, salvo per poi scoprire di far parte di una colossale truffa che coinvolge Macha, il signore della droga Lord John e un onnipotente quanto oscuro padrino, Sam Gold, che nessuno ha mai visto in faccia...


La mia (im)modesta opinione – Descrivere il contenuto del film di Guy Ritchie è cosa quantomai complicata. Non a caso, infatti, una delle critiche principali mossa agli autori è stata quella di aver ultracomplicato la trama inserendo doppi, tripli e quadrupli giochi in una struttura di scatole cinesi. Una sorta di mise en abîme di inganni e manipolazioni che sfociano e s’intrecciano l’uno nell’altro senza una vera e propria soluzione di continuità. Ed è proprio la grande difficoltà di una trama volutamente contorta e raggomitolata su se stessa che da un lato santifica il film, dall’altro lo crocifigge. Ebbene sì, proprio perché non si può negare che Revolver sia uno dei film più brillanti (sia narrativamente che cinematograficamente) che vi capiterà mai di vedere ma nemmeno può essere negato che è uno dei più difficili e cervellotici.


Ovviamente, checché ne dica la critica di consumo, Revolver è una pellicola esaltante, geniale che prende avvio da un intrigo criminale per poi sfociare, nei suoi punti più alti, in uno scioccante dramma morale che pone taglienti interrogativi sulla natura della volontà, dell’identità (vista come emanazione del volere), del libero arbitrio e, in definitiva, della stessa natura umana. I due protagonisti principali, il truffatore Jake e il boss Macha, sono individui radicalmente diversi ma che, sebbene in maniere opposte, basano la loro esistenza su salde certezze: la propria analitica intelligenza per Jake, il proprio potere per Macha. Entrambi credono di dominare il gioco ma non sono che pedine mosse da un’intelligenza profonda e oscura che tira le fila di tutta la macchinosissima trama, seguendo le basilari e versatili leggi del potere. So di sembrare un poco incomprensibile ma, per capire veramente Revolver, bisognerebbe averlo guardato almeno tre o quattro volte.


Guy Ritchie si prende molto sul serio e, dato che tutta la trama finisce per risolversi in una novella sulla condizione umana, infarcisce la storia di riferimenti e simbolismi cabalistici: così vediamo l’ideale Trinità composta da Jake, Avi e Zach che già nei nomi corrisponde alla triade cabalistica di Giacobbe/Jake, Abramo/Avi e Zach/Isacco che rappresentano inoltre il principio unificante del tutto, rappresentato dal colore verde (e appunto Jake fa di cognome “Green”), il principio femminile, legato al colore nero (Avi infatti è un uomo di colore dai tratti femminili, per esempio la cura estrema nel vestire), e al principio maschile, associato al colore bianco (ovvero Zach, un uomo grande e grosso che veste secondo il cliché dell’uomo virile). Ricorre continuamente, inoltre, il numero 32, cifra mistica nelle tradizioni della cabala, che fa riferimento alle proporzioni del Tempio di Salomone.


Al di là dei sottesi filosofici e simbolici, Revolver è anche un film titanico sotto gli aspetti della mera cinematografia. A partire dalle spettacolari interpretazioni (sia Statham che Ray Liotta sono qui al loro meglio) non solo dei protagonisti ma anche degli eccellenti e stralunatissimi comprimari, passando per la fotografia mozzafiato, fino ad arrivare alla perfetta regia di Guy Ritchie che, sempre forte del suo senso del ritmo, mette in scena personaggi e sequenze di puro culto, al suono di musiche ora lente ora frenetiche e con angoli di ripresa inusitati e bizzarri e sequenze animate glorificate dal chirurgico montaggio e dalla messa in scena curatissima. Dunque, Revolver è uno degli sconosciuti illustri che non molti ricordano ma che merita grandemente più che una visione, un’ammirata esegesi.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I fratelli di Revolver, ovviamente, che sono Lock, Stock and Two Smoking Barrels (1998) e Snatch (2000) entrambi di Guy Ritchie. Per altri drammi criminali abbiamo lo stupendo Brother (2000) di Takeshi Kitano e i superclassici Hard Boiled (1992) e The Killer (1989) del grande John Woo. A seguire viene l’adrenalinico Shoot ‘em Up (2007) di Michael Davis, l’iconico Léon (1994) di Luc Besson, la gemma Lucky Number Slevin (2006) di Paul McGuigan e il classico Casinò (1995) di Martin Scorsese.


Scena cult – La scena dell’ascensore. Una delle sequenze allucinatorie migliori che mi sia capitato di vedere da anni.

Canzone cult – La sonata Quasi una fantasia di Beethoven e la Mucchio Selvaggio di Ennio Morricone, remixata dal duo 2raumwohnung.

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