venerdì 2 novembre 2012

I’M NOT THERE (2007), Todd Haynes


USA, 2007
Regia: Todd Haynes
Cast: Cate Blanchett, Heath Ledger, Christian Bale, Richard Gere, Ben Whishaw, Marcus Carl Franklin
Sceneggiatura: Todd Haynes, Oren Moverman


Trama (im)modesta – Sei personaggi e sei storie che si intrecciano l’un l’altro (ma spesso solo a livello morale) per dipingere la vita e l’arte del Menestrello d’America, Bod Dylan. C’è l’undicenne di colore Woody che gira per l’America a cantare blues e a entrare e uscire dalla vita della gente; c’è il fuorilegge Billy che scappa di borgo in borgo; c’è la bastardissima superstar Jude che affronta a muso duro le orde di fan delusi dalle evoluzioni della sua musica; c’è Jack che da profeta della musica folk, scopre la fede e si fa sacerdote; c’è Arthur che risponde a domande che un gruppo di persone gli pone con frasi enigmatiche e brillanti; c’è Robbie, attore soverchiato dal proprio ruolo, che vede la sua famiglia cadere a pezzi e, lentamente, scomparire.


La mia (im)modesta opinioneI’m not there è un film colossale. It takes one to know one. Inutile sarebbe stato descrivere la vita di Bob Dylan fase per fase, illustrarne la filosofia, spiegarne i punti di vista. Dylan è, più che persona o personaggio, un fenomeno. Un fenomeno vivente, controverso, ma che ha dominato la scena culturale non di un decennio ma dell’intera metà di un secolo. Metto subito le mani avanti: non sono appassionato di Bob Dylan, non amo il folk, tranne per qualche azzeccata canzone, e non spetta a me interpretare i significati del film di Haynes. Ciò che dà veramente valore al film è che anche un profano come la persona che scrive queste righe può entrare nel fenomeno Dylan, esplorarlo. Perché, come ho già detto, I’m not there non descrive: evoca.


Invece di vedere Dylan attraverso le opere e i giorni, vediamo ciò che quelle opere e quei giorni hanno comportato; i fatti sono spogliati dalla mera contingenza ed elevati/rimandati a puri simboli, significanti. Solo una persona potrà capire davvero questo film: Bob Dylan stesso. Non c’è diversa maniera di mettere sullo schermo la vita di Dylan, variegata e polimorfa, se non frazionarla, come si fa con la luce, nella semplicità dei suoi spettri principali. Un arcobaleno di sei colori, non sette; sei personaggi che, con le loro alterne vicende, rappresentano le facce di quella gemma scalena che la vicenda di Dylan rappresenta. Una vicenda in cui arte e vita si confondono e trascolorano l’una con l’altra, influenzandosi a vicenda.


I’m not there è un film geniale, profondamente geniale ma anche estenuante, eccessivo, stracarico. Non fraintendetemi, non c’è un solo attimo, in questa pellicola, di infelicità, la lingua di Haynes non balbetta mai, lo stile mai inciampa anche in mezzo alla barocca fusione di stili e registri radicalmente diversi. No, il film in sé è forse uno dei migliori del passato decennio: è la visione del film a essere una vera maratona. Per varie ragioni: la complessità strutturale dell’opera, la mancanza di un fil rouge da seguire, la profondità dei temi trattati, la lunghezza stessa dell’opera che deborda le due ore senza perdere nemmeno un minuto in densità, importanza, profondità. Non c’è un solo minuto di cinema spiccio in I’m not there, non c’è un solo calo di tensione. Ma è proprio la mancanza di rilassamento che porta il film a essere, ironicamente, ipertensivo, quasi snervante, senza dubbio stancante.


Il cast degli attori è di primissimo ordine: si passa da un meraviglioso Marcus Carl Franklin, saggio e malinconico ragazzino vagabondo, al sontuoso Richard Gere; c’è lo sfuggente Heath Ledger (che va a braccetto con una sublime Charlotte Gainsbourg), un Christian Bale di puro granito e, infine, i miei preferiti: il pungente e affilato Ben Whishaw e la spettacolare Cate Blanchett, incredibile sosia dello stesso Dylan durante la chiaccheratissima svolta rock degli anni ’60. I comprimari non sono da meno: c’è la sempre stupenda Julianne Moore (ma praticamente il suo è poco più di un cameo), la comparsata della radiosa Michelle Williams nel ruolo di Coco, alter ego di Edie Sedgwick, e un sorprendente David Cross nel ruolo del poeta/vate Allen Ginsberg.


I’m not there è un film che può non piacere ma che semplicemente va visto, certamente il migliore della sua annata e in testa alla top ten dei primi dieci anni del 2000. Incredibile è il talento visivo e grafico di Todd Haynes capace di mescolare influenze diversissime tra di loro (la sequenza del sogno con protagonista Jude Quinn pare strappata a Lynch, le scene del club ricordano l’estetica anni ’60 che impazza ancora adesso con Mad Men e A Single Man di Tom Ford) in un tutto stranamente unitario, sotto il segno musicale, artistico, culturale e umano di una personalità, come quella di Dylan, che finirà, un giorno, sui libri di scuola e caratterizzerà l’evoluzione della nostra stessa cultura moderna.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per fruire del talento visivo di Todd Haynes non si può che rimandare ai suoi capolavori, ovvero Velvet Goldmine (1998) e Lontano dal Paradiso (2002) con particolare menzione anche alla grande miniserie Mildred Pierce (2011) girata per conto della HBO. Importanti biopics musicali sono anche il negletto Control (2007) di Anton Corbijn, il supremo monumento All That Jazz (1979) di Bob Fosse e l’essenziale Amadeus (1984) di Milos Forman. Per la riflessione a tutto campo sul mondo (e la mente) dell’artista un film che mi è venuto in mente guardando I’m not there è il superclassico (1963) di Federico Fellini.


Scena cult – Le sette regole di vita di Arthur per vivere alla macchia.

Canzone cult – Moltissime. Iniziamo con Ballad of a Thin Man di Stephen Malkmus & The Million Dollar Bashes, si prosegue con Goin’ toAcapulco di Jim James e i Calexico e Steppin’ Stone dei The Monkees, Pressing On di John Doe, l'appassionato Tombstone Blues di Richie Havens fino alla stupenda Trouble in Mind del menestrello Bob Dylan.

4 commenti:

  1. Un modo assolutamente geniale per fare un film biografico senza renderlo didascalico o etichettabile come biografico! Anche se sì, risulta un po' pesantino nonostante la bellezza visiva..

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    1. Abbastanza pesante. Forse un po' troppo.
      Ma comunque il film è bellissimo.

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  2. Ma c'è il mio grande amore Ben Whishaw !
    Permettimi un paio di secondi con gli occhi a cuoricino *-*

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