sabato 31 marzo 2012

INGANNEVOLE È IL CUORE PIÙ DI OGNI COSA (2004), Asia Argento


Italia, USA, 2004
Regia: Asia Argento
Cast: Jimmy Bennett, Dylan Sprouse, Cole Sprouse, Asia Argento, Ornella Muti, Marilyn Manson
Sceneggiatura: Asia Argento, Alessandro Magania


Trama (im)modesta – Jeremiah (prima Bennett e poi i gemelli Sprouse) viene strappato alla sua famiglia adottiva e dato alla sua madre biologica, Sarah (Argento), una sbandata che si prostituisce, si droga, vive da vagabonda e passa da un uomo all’altro alla velocità della luce. Jeremiah assiste al prostituirsi della madre, al suo drogarsi, viene violentato da uno dei suoi fidanzati, finisce in una casa di fondamentalisti cristiani e poi torna di nuovo con sua madre. Un’autentica odissea senza fine.


La mia (im)modesta opinione – Prima di parlare di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, è giusto spiegare la genesi della storia. Uscito nel 2001, il romanzo omonimo fece grande scandalo: non solo si parlava di droga, pedofilia, malattie mentali e madri snaturate ma tutti i fatti erano di natura autobiografica. Ma, come si scoprì in seguito (con sconcerto dei fan di J.T. Leroy), lo scrittore non era mai esistito e tutta la storia era stata inventata. Dietro l’identità di questo autore stava la scrittrice Laura Albert. Non c’era nessuna autobiografia. A suo tempo i critici, che odiano la Argento per le sue uscite trash che più trash non si può, le andarono addosso accusandola di aver trasformato qualcosa di traumatico perché veritiero (ma ancora non si sapeva nulla dell'identità dell'autrice) in una specie di show scandalistico, sempre alla ricerca dell’eclatante e dello scandaloso. Non è vero.


Lo ammettiamo, Asia Argento non ci sta simpatica: è villana, è immeritatamente famosa, la sua carriera si basa più che altro su scandali e come attrice è anche piuttosto cagna. Era facile prevedere che un film da lei scritto (in parte), interpretato e diretto venisse masticato e sputato dai critici. Ma, ancora una volta, sentiamo il bisogno di distaccarci da questa opinione. Il film della Argento è forte, crudo ma mai sensazionalistico, non ostenta nulla, non ricerca lo scandalo e l’unica cosa che gli si possa rimproverare è forse una certa mancanza di autentico afflato registico e la fossilizzazione in un ruolo, quello di Sarah, che ormai per l’Argento è trito e ritrito: cioè la donna sfatta, cagnaccia, sciupata e devastata.


Nonostante questo, il film è «ben distribuito nelle scene, negletto in apparenza ma condotto con molto artifizio». Nessun «argomento nel periodare che possa accusare l’autore di affettazione». La regia glissa in maniera non dico elegante ma elegantemente discreta sulle scene di violenza più abietta mentre un altro regista, magari alla ricerca di un effetto di repulsione sugli spettatori, avrebbe mostrato la violenza in maniera esplicita e cruda. Belle sono anche le interpretazioni, su tutti Asia Argento che si trova forse troppo a suo agio in una parte che ha troppe volte recitato (ma anche Johnny Depp ricalca in continuazione lo stesso personaggio) e i gemelli Sprouse che riescono a mescolare l’innocenza all’amor filiale.


Per il resto il film non è memorabile. Nessun guizzo da parte della sceneggiatura o da parte della regia ma solo la trovata brillante di simboleggiare l’abuso sul piccolo Jeremiah con degli uccelli rossi animati presenti in tutte le scene dove il bambino ricorda i suoi traumi. Ma vera forza del film sono i camei degli attori di culto che paiono piovere: Peter Fonda, Michal Pitt, Ornella Muti, Winona Ryder, Josh Robinson (il biondino di quel film grandioso che fu Elephant di Gus Van Sant), Ben Foster e uno struccatissimo e pedofilo (ma non temete, non è il solo) Marilyn Manson che, come ci si aspettava, ha accettato il ruolo più controverso del film.


Altro punto di forza è l’insistere da parte della Argento sul tema dell’indifferenza verso i problemi dell’infanzia da parte di adulti che semplicemente non sono davvero interessati e preferiscono punire ciecamente che risolvere difficoltà e questioni psicologiche. Simbolo di questo comportamento è la psichiatra di Winona Ryder che minaccia di punire Jeremiah quando lui si dimostra non collaborativo davanti alla psicoterapia.


Un vero e proprio psicodramma collettivo, questo Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, che non ci fa riflettere ne riflette sui temi dell’abuso, dell’infanzia rubata, del rapporto madre-figlio ma li mette direttamente in scena senza porre e porsi domande, insomma proprio come avviene nella realtà.


Se ti è piaciuto guarda anche... Correndo con le forbici in mano (2006) di Ryan Murphy, perché, al di là della regia di un autore che sopporto poco per aver rovinato Glee e pasticciato un po’ troppo con American Horror Story, è un film godibile, con due dei miei attori di culto personali (Evan Rachel Wood e Brian Cox) e, alla fin fine, ben scritto, originale e ruffiano in modo insolito e meno irritante di molte altre pellicole. Fenicotteri Rosa (1972) di John Waters, perché è la versione comica, parodistica e tremendamente trash della vicenda familiare di Sarah e Jeremiah. Thirteen (2003) di Catherine Hardwicke, perché anche prima di generare Twilight, la Hardwicke era una buona regista. Inoltre potrebbe essere considerato un prequel spirituale del film. Garden of the Nights (2008) di Damian Harris, perché è un film forte, coraggioso, crudele che racconta di un’altra infanzia violata.


Scena cult – Due su tutte: il sogno che Jeremiah fa sugli uccelli rossi che gli rubano le braccia e l’allucinatissima e confusa sequenza di Sarah che traveste Jeremiah, come scambiandosi di corpo e personalità.

Canzone cult – Ovviamente la triste e malinconica Karen Koltrane dei Sonic Youth che tanto esprime dell’atmosfera di squallore e povertà che domina nel film.

venerdì 30 marzo 2012

TORMENTED (2009), Jon Wright


Regno Unito, 2009
Regia: Jon Wright
Cast: Tuppence Middleton, Alex Pettyfer, Dimitri Leonidas, April Pearson, Larissa Wilson, Calvin Dean
Sceneggiatura: Stephen Prentice


Trama (im)modesta – Esacerbato dal bullismo, Darren Mullet (Dean) si suicida. Lo stesso giorno Justine (Middleton) entra a far parte della classica cerchia dei ragazzi popolari della scuola, vera e propria baby gang dominata dall’alto da Bradley (Pettyfer, praticamente Patrick Bateman ai tempi del liceo). La notte dopo il funerale, i suoi aguzzini cominciano a ricevere messaggi offensivi: Darren Mullet è tornato e vuole la sua vendetta. Insomma, there will be blood.


La mia (im)modesta opinione – Il fiero popolo inglese si dimostra ancora una volta il primo in Europa (e forse nel mondo intero) nel campo dell’originalità e della critica sociale. La sceneggiatura di Tormented, vergata dalla santa mano di Stephen Prentice, è un capolavoro di ironia tragica, slasher movie sopra le righe, denuncia sociale (e che denuncia!) e storia di fantasmi. Anche la regia di Jon Wright è solida e sicura e ha il colpo di genio di non cercare la scontata suspance ma di concentrarsi sul lato sadico delle morti violente che lo spettro di Mullet infligge ai suoi carnefici.


Il film, infatti, non cerca il colpo di scena. Prima di ogni morte il regista ci ammicca segretamente e ci avverte delle modalità dell’assassinio per vie traverse: percepiamo fin dall’inizio di ogni scena la presenza inquietante di oggetti appuntiti, acqua profonda, armi contundenti, prevediamo con cinque minuti d’anticipo ogni morte. Poi la vediamo accadere e rabbrividiamo per il chirurgico distacco con cui Wright ci fa contemplare il sangue. Dunque nessuna suspance. È dunque uno splatter movie che alterna risate e mattatoio? No. Wright mette in atto quella che chiamerei, citando Carmelo Bene, una sospensione del tragico. Diceva Bene: «Un'azione fermata nell'atto è quanto m'è piaciuta definire sospensione del tragico. È così che, grazie all'interferenza d'un accidentaccio, la surgelata lama del comico si torce lancinante nella piaga inventata tra le pieghe risibili-velate della rappresentazione nel teatro senza spettacolo.»


La lama surgelata del comico si torce sì nella piaga del tragico e lo fa nel modo più agghiacciante possibile. Nessuna morte è come potremo aspettarcela, c’è un vero e proprio climax di violenza non privo di qualche citazione colta: per esempio, la scena in cui l’amico di Darren, Jason, ha una matita in ciascuna narice e piange chiedendo aiuto pare una copia esatta della famosa scena delle patatine fritte ne Un pesce di nome Wanda, Justine legge Delitto e Castigo, guarda insieme ad Alex l’horror Ju-On e discute dei fantasmi che compaiono nel Macbeth in classe, proprio mentre vede lo spettro di Mullet fissarla da lontano. Wright è dunque abile nel prendere gli stilemi dello slasher movie e stiracchiarli, deformarli, giocando con un amarissimo humor nero e una violenza sadica che gareggia con i vari Audition, Martyrs e Le colline hanno gli occhi.


Complice è anche la perfetta sceneggiatura di Prentice che, come già detto, non solo imbastisce uno slasher movie con i fiocchi ma lo struttura come un thriller, con il colpo di scena finale (che è telefonato ma, abbiamo già detto, questo film non vuole sorprenderci) e pure il velenoso epilogo dopo i titoli di coda. Altro merito che bisogna concedere alla sceneggiatura è quello di saper fotografare con inesauribile cinismo il mondo dei bulli e delle loro insostenibili prevaricazioni e sevizie sulle loro vittime. E l’unione di una regia tecnicamente perfetta e una sceneggiatura senza sbavatura alcuna ci fornisce uno spaccato tremendo sull’orribile mondo del bullismo ma, per una volta, lo fa dalla parte dei bulli.


Inutile dire, dunque, di come anche certi momenti consentano un certo scavo psicologico sui personaggi (non voglio esagerare: i personaggi sono autentiche sagome di cartone, caratterizzati solo da una insaziabile cattiveria e una cecità davanti alle proprie colpe che non ha pari) che non è molto profondo ma permette agli attori di mettere mano alla loro bravura. Su tutte dunque regna Tuppence Middleton, una delle poche scream queens sfigate che mi vengono alla memoria, che sa gestire bene tutti gli spettri emotivi che il suo personaggio richiede, altro astro è il fantastico Alex Pettyfer, da me considerato attore più bello che bravo ma che riesce a dare una certa profondità al suo Bradley, incarnazione somma della crudeltà del bullo. 


Dunque teniamo d’occhio questo biondo inglesino che sta per apparire nelle (poche) vesti di spogliarellista losangelino nel suo primo film “da grandi” ovvero il Magic Mike di Steven Soderbergh, anche se i suoi colleghi non mi fanno ben sperare: sono gli odiatissimi Channing Tatum, Joe Manganiello e (orrore!) Matthew McConaughey. Il resto del cast è nella media ma si segnalano due facce già note: April Pearson e Larissa Wilson, già colleghe di telecamera nel rivoluzionario Skins.


Tormented piacerà a tutti gli horrorofili: è estremo (più nel sadismo che nella violenza grafica) e spiritoso quanto uno Scream ma più coraggioso nel mostrare crudeltà, sesso e uso di droghe. Buona regia, sceneggiatura brillante, cast di alto livello, basse pretese e dunque alte rendite: insomma, perfetto per una spooky night all’insegna del divertimento.


Se ti è piaciuto guarda anche… - Vacanze di Sangue (2004) di Jay Chandrasekhar, versione coatta, caciarona e villana di Dieci Piccoli Indiani, gemma trash degna di una visione seriamente disimpegnata. L’intera saga di Scream (i film vanno dal 1996 fino al 2011) di Wes Craven, diadema di pellicole che prendono in giro l’horror, ironizzano sugli stereotipi dello slasher e fanno una delle metacinematografie più spassose che si siano mai viste. L’alba del morti dementi (2004) di Edgar Wright, perché è un film di culto dello spoof horror, sempre inglese, sempre acidissimo, sempre irriverente. E per finire la serie tv inglese Dead Set, autentica messa alla berlina di una società profondamente idiota e vana, assoluto gioiello televisivo come sono gli inglesi sanno farne.


Scena cult – Il divertentissimo e ansiogeno (ma solo per finta) omicidio di Marcus, classico atleta idiota e muscoloso, che è il protagonista di una delle scene più violente e caustiche di tutto il film.

Canzone cult – Il film ha una colonna sonora davvero mirabile ma la prima traccia che mi è saltata all’orecchio è stata la scanzonata Ride del gruppo rock alternativo The Vines.

giovedì 29 marzo 2012

LES AMOURS IMAGINARIES (2010), Xavier Dolan


Canada, 2010
Regia: Xavier Dolan
Cast: Xavier Dolan, Monica Chokri, Nils Schneider
Sceneggiatura: Xavier Dolan


Trama (im)modesta – Francis (Dolan) e Marie (Chokri) sono due amici insoddisfatti della routine quotidiana tanto prevedibile quanto frustrante e si innamorano entrambi dello stesso ragazzo, il bellissimo Nicolas (Schneider). Inizierà una sorta di bizzarro ménage à trois basato sulle fantasie dei due e sulle loro tattiche (spesso anche meschine) per la conquista di un amore molto favoleggiato ma che di reale ha ben poco.


La mia (im)modesta opinione – Dolan non è propriamente un genio, ma ha un grande senso del bello, un fortissimo gusto estetico e una naturale tendenza al dialogo minimale e al monologo, tipici stilemi tarantiniani. Tutto questo traspare dal suo film. Prima degli Amours, Dolan aveva diretto, scritto e interpretato il deludente J’ai Tué Ma Mere ed era apparso di sfuggita in quello spettacoloso grand-guignol che è stato Martyrs e, più recentemente, nella dark comedy Good Neighbors. Ma è solo con i suoi Amours che Dolan dispiega le sue ali alla perfezione, ed stupisce non poco che a soli 22 anni il suo stile registico sia tanto maturo e compatto. Trama ed episodi di questo film minimali e ridotti all’osso, lunghi e densi monologhi e conversazioni futili e brillanti, lunghe sequenze al ralenty (lo ammetto, le adoro!) e una cornice originale come può esserlo quella del sottobosco indie/hipster/omo-bisessuale della Montreal giovane.


Un film scintillante, coloratissimo, fotografato con perizia, insomma puro godimento audiovisivo. Dolan ama sospendere i movimenti, concentrarsi su gesti plastici e scultorei (mentre Nicolas balla si vedono fugaci frames che ritraggono il David di Michelangelo), tirare fuori vere e proprie foto artistiche dalla realtà in movimento. Proprio per questo la realtà va fotografata, condensata in gesti essenziali e il film è essenzialmente questo: una foto in posa ma, come tutte le foto in posa, l’imprevisto è in agguato e quindi vediamo questa altrimenti patinata realtà incrinarsi e lasciare trasparire piccole e grandi nevrosi, insoddisfazioni, infantilismi.


Dolan è un fotografo più bravo di quanto voglia far credere. Coglie tutte le sfumature cromatiche sia del paesaggio cittadino che dell’animo umano. Cattura alla perfezione la sensualità di questo o quel gesto e le piccole grandi fragilità che ci gonfiano il cuore di lacrime, conosce l’alchimia bizzarra dei colori, delle forme e degli sguardi, coglie con maestria giochi di luce e accordi segreti fra suoni e geometrie. Ma la sua visione non è soltanto estetizzante: i dettagli che racconta e fotografa sono anche privati, forse imbarazzanti, dettagli di cui ci potremmo vergognare noi stessi dato che sono così comuni e, soprattutto, umani. Sì, ed è l’umanità il punto forte di Dolan: i suoi film sono personali, raccontano perché ci raccontano tutti, nei nostri piccoli drammi personali.


Il suo film si pone come pomo della discordia all'interno del dibattito sulla natura dell'amore tra i vari film romantici (o presunti tali). L’intervento di Dolan è, insomma, sconvolgente: e se l’amore moderno fosse possibile solo come immaginario? Un sogno, una fantasia? Forse l’amore, pieno di orrore per il cinismo moderno, ha deciso di diventare fenomeno puramente mentale e nevrotico, staccandosi e staccando tutto il resto dalla realtà. I protagonisti di Dolan siamo proprio noi: tanto desiderosi di calore umano che siamo disposti a inventarcelo. Ma il quadro non è certo tragico: c’è una sorta di ironia nel ripetersi degli eventi, delle nevrosi, delle musiche che ci risuonano nell’animo. Insomma, abbiamo davanti un autentico maestro, uno stupefacente enfant prodige del cinema. Un Tarantino dei sentimenti, un Wong Kar-Wai più turgido e spirituale, un Almòdovar più essenziale e penetrante. Aspettiamo Xavier Dolan con il tuo terzo, meraviglioso (si spera) parto intellettuale: Laurence Anyways, storia dell’amore impossibile fra una donna e un uomo transgender, attualmente in produzione.


Se ti è piaciuto guarda anche... The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci, perché è un film molto intellettuale, radical chich e ha nel suo centro giovani e triangoli amorosi. My Blueberry Nights (2007) di Wong Kar Wai, perché è bello, è malinconico, commovente fino all’ultimo fotogramma, chiaro ispiratore di Dolan. A Single Man (2009) di Tom Ford, perché questo film è una corda testa così tanto sull’arco del lirismo che pare spezzarsi in singhiozzi in ogni momento. Splendidi Amori (1999) di Gregg Araki, perchè è un altro ménage à trois, sempre ispirato, sempre lirico e soprattutto il film più accessibile di tutta la filmografia di Araki, solitamente regista astruso e volutamente lambiccato. Jules e Jim (1962) di François Truffaut, perché è un film a cui gli Amours devono molto in termini di stile e contenuti, e anche perché Truffaut è un autore meraviglioso.


Scena cultIl geniale epilogo, autentico sugo di tutta la storia. Perfetta chiusura ad anello che gioca sull'ironia, la malinconia, l'allegria malinconica che sta alla base del lavoro di Dolan.

Canzone cult – Scelta scontata: il Bang Bang di Dalida che ricorre come leitmotiv a evocare quella sorta di speranza ridente e malinconica a un tempo che domina nel cuore di ogni innamorato "immaginario".

mercoledì 28 marzo 2012

MY OWN PRIVATE IDAHO (1991), Gus Van Sant

USA, 1991
Regia: Gus Van Sant
Cast: River Phoenix, Keanu Reeves, William Richert, Chiara Caselli, Udo Kier
Sceneggiatura: Gus Van Sant


Trama (im)modesta – Mike è un gigolò narcolettico che, ogni volta che pensa alla madre perduta, sprofonda in uno stato di sonno profondo. Scott è il ricco figlio del sindaco di Seattle che, oltre a prostituirsi, si è unito a Bob Pidgeon, una specie di versione per adulti del Fagin di Dickensiana memoria, per furti, divertimenti, insieme alla sua banda di gigolò. Tutti e due partono alla ricerca della madre di Mike, incontrano bizzarri personaggi, attraversano un Oceano per arrivare fino a Roma e si perdono, fino a quando tutti e due troveranno la propria casa.


La mia (im)modesta opinione – Dice Calderòn della Barca: « toda la vida es sueño, y los sueños, sueños son » ovvero, «tutta la vita è un sogno e i sogni son solo sogni». È sogno anche la vita del Mike Waters di River Phoenix (lui e Brad Renfro, sono gli attori che più compiango fra tutte le vittime della gioventù bruciata di Hollywood) che vaga per strade che gli paiono sempre uguali, nel sogno sprofonda all’improvviso ed è mosso dal ricordo vago e inesatto di una madre che non ha mai conosciuto, di un padre che non sente suo e di una vita che è un ripiego, un accomodamento.


Si potrebbe interpretare il film come la metafora di una fuga dall’andamento onirico e picaresco da una strana malinconia verso un passato felice e ormai irraggiungibile, Van Sant avrebbe potuto imbastire un bildungsroman sul tema della ricerca della propria identità nel mondo e di un senso di appartenenza a qualcosa, forse un gruppo sociale, forse una famiglia, e invece crea questa fantasmagoria americana (tutto in questo film è profondamente americano) popolata da creature grottesche, deformi, bislacche e inquietanti che riempie con tutte le sue ossessioni artistiche: l'amore per la sublimità del vuoto, la bellezza ermafrodita, triste e polverosa, dei suoi efebi biondi , la famiglia disfunzionale, l'America dei sobborghi, squallida e grandiosa; il senso di solitudine e malinconia, la ricerca della propria identità individuale e sociale.


Ma la scena finale contraddice tutto: chiudendosi dove è iniziato (o chiudendo una parentesi in cui la storia onirica è compresa), Mike Waters ripete a se stesso di aver già visto quella strada e che forse la strada non cambia mai e che forse quella strada corre in tondo seguendo un circolo immenso, ma non ha fine né inizio, è insensata. Il film dunque si chiude così: con l’insensatezza. E dopo aver formulato questo pensiero, Mike sprofonda di nuovo in quel suo inquietante sogno narcolettico, viene derubato di tutti i suoi averi da due balordi e infine soccorso in una sequenza che rammenta molto l’episodio biblico del buon Samaritano.


E di riferimenti non solo alla religiosità, ma anche all’arte e alla poesia il film è pieno: il film è una dichiaratamente libera (molto libera) interpretazione dell’ Enrico IV di Shakespeare e di passi del Bardo il film è infarcito. Lo stesso può dirsi dell’arte: mentre Mike dorme, Scott Favor (un Keanu Reeves che non si comprende quanto sia convincente e quanto non lo sia) lo sorregge e i due assumono la stessa posa della Pietà di Michelangelo (benché invertita).


Il film procede dunque come un sogno, erratico e vagabondo. Gus Van Sant trasforma l’amplesso in scultura, frulla riadattamento shakespeariano e sesso omosessuale, confessioni private e larvati quesiti filosofici. Ma ciò che sorprende, al di là dell’estetica di Van Sant che trafigge sempre il cuore con la sua commozione per lo squallido, è la gigantesca interpretazione di River Phoenix, attore davvero infinito, capace di creare un personaggio fragilissimo e muscolare, nerboruto e compulsivamente bisognoso d’affetto e di calore umano. Una creatura confusa e mesta, senza passato apparente e senza futuro, che si consuma girando in tondo su se stesso, dorme dove viene e viene, assalito dai suoi tristi sogni.


Il film si distingue anche per la sconfinata abilità del regista che fa conversare i modelli delle riviste erotiche di un locale a luci rosse fra loro dalle copertine delle riviste stesse, che riscrive la geografia dell’America (Mike, in Idaho, vede il monte Hood, ma la montagna è in realtà troppo lontana ed è addirittura coperta da un’altra montagna più grande), riavvolge il tempo, ricuce lo spazio, delira e poi soffre, osserva commosso le lacrime e straniato il grottesco sempre pronto a nascondersi nella vita di ogni giorno. Un film sottile, penetrante, ipnotico e, come tutta la grande produzione di Van Sant, profondamente ed eternamente criptico.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I meravigliosi Gerry (2002) e Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant, perché sono due cult assoluti dove il tema di Van Sant della ricerca di un’identità perduta in un mondo dominato da indifferenza e insensatezza si fa più forte che mai. La voce della luna (1990) di Federico Fellini, per il suo andamento onirico, vagheggiato, sognante, perché è il testamento di Fellini e una gran prova di stile e originalità registica. Strapped (2010) di Joseph Graham, perché è un film bizzarro, labirintico, sottilmente filosofico, affatto compiaciuto dall’erotismo che mette in mostra, un piccolo gioiellino scintillante nell’ambito della cinematografia a sfondo LGBT.


Scena cult – Il funerale di Bob Pidgeon, scena degna di un Jodorowski, triste e delirante, mesta e coloratissima.

Canzone cult – La villana, discotecara, vintage-tamarra canzone Der Adler cantata da un Udo Kier all’apice del trash cult. Insomma, pura apoteosi filmica.

lunedì 26 marzo 2012

GRACE (2009), Paul Solet


USA, Canada, 2009
Regia: Paul Solet
Cast: Jordan Ladd, Gabrielle Rose, Samantha Ferris, Malcom Stewart
Sceneggiatura: Paul Solet


Trama (im)modesta – Incinta di otto mesi, Madeline perde il marito e la bambina che ha in grembo a causa di un incidente. Ma invece di partorire una neonata morta, Madeline dà alla luce una bella bambina che chiama Grace. Ma la bambina non è normale: non sembra voler bere latte, le mosche si accalcano a frotte nella sua stanza, piange di continuo e il seno di sua madre sanguina sempre dopo che l’ha allattata. In breve Madeline realizza presto che la sua piccola figlia non ha fame di latte materno, ma di sangue umano. E l’amore di una madre non si ferma mai davanti a nulla.


La mia (im)modesta opinione – La tematica del maternity horror (con la sua inesauribile miniera di sfumature psicologiche) ha sempre attirato l’attenzione di artisti e registi: si pensi, già nell’antica Grecia a Medea o Fedra (e soprattutto Medea troverà interessanti interpreti cinematografici moderni in Von Trier e Pasolini), e più di recente all’evoluzione dell’orrore legato ai temi del prenatale e della maternità. Il tema è abusato. Diciamo che è facile realizzare un buon horror a base di maternità e gravidanza: la gravidanza deforma in modo sensibile il corpo della donna, il parto è un evento sanguinoso e traumatico, la donna incinta è una centrale nucleare ribollente di ormoni. Difficile è dunque sbagliare, almeno in termini di immagini e trovate (per così dire) sceniche, bersaglio quando al centro dell’investigazione dell’incubo c’è il tema della gestazione.
Eppure, Grace sbaglia, clamorosamente.


Il film procede per tappe confuse, non si concentra su nulla, si disperde nel seguire e tentare di analizzare tanti personaggi diversi invece che di creare un’atmosfera morbosa o inquietante, impresa evidentemente sottovalutata dal regista. Non basta certo mostrare un paio di mosche (finte) che vanno su e giù per la faccia di una sventurata neonata e piatti della cucina non lavati per creare atmosfera, non basta scompigliare e struccare la povera Madeline (una Jordan Ladd visibilmente male in arnese) per farla sembrare una pazza, non basta mescolare e complicare riferimenti già in sé oscuri per essere intelligenti o intellettuali. Paul Solet magari è un bravo regista, ma non si applica. Si intuisce, al fondo di tutto, una certa velleità narrativa che vorrebbe pescare al genere gotico moderno, al grand-guignol, all’horror immaginoso e disturbante ma il film non ci arriva.


Manca tensione, tensione stilistica che tende ad un fine (senza necessariamente raggiungerlo). Se lo stile non è teso alla perfezione non può ambire nemmeno all’imperfezione perché si è già relegato da solo nel campo del tentativo vano. Questo è il campo di Grace, scalcagnato horror, che con spocchia simula il sangue, la paura, l’elemento inquietante ma fallisce, presuntuoso, e se lo merita anche.
Non può un film perdersi e disperdersi tanto in mille riferimenti senza poi nemmeno dimostrare l’esaltazione sadica del sangue e dalla violenza (non per forza esibita, dipende dalla bravura del regista), senza affondare nella sottile meccanica del delirio, nel luridume dell’animo umano.
Ha avuto molto successo, questo povero Grace, ma, si sa, Dio non ha fatto tutti i poveri, soltanto tutti gli imbecilli.


Se ti è piaciuto guarda anche...À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury, perché anche con il dialogo ridotto all’osso un film può essere costruito in atmosfera con luci, suoni e visi e perché è uno splatter (stranamente) elegante e raffinato. Brood (1979) di David Cronenberg, perché è puro Cronenberg, autentico body horror che gioca sull’immagine e la carnalità del corpo e della mente femminile per descrivere le deformazioni e le infamie della fertilità. Omen (2006) di John Moore, perché è un remake ingiustamente sottovalutato, immaginoso, bello, formalmente superiore all’originale con il grande Gregory Peck. Rosemary’s Baby (1968) di Roman Polanski, perché, anche se di questi tempi ha perso la maggior parte del proprio mordente, è uno dei capisaldi dell’horror contemporaneo, che ha stabilito le regole e gli stilemi di un intero filone cinematografico.


Scena cult – Ahimè, nessuna. Il film è così insignificante che toglie pure la voglia di trovare una scena migliore delle altre.

Canzone cult – Già la regia è scadente, la colonna sonora dovrebbe esser meglio?


domenica 25 marzo 2012

MAY (2002), Lucky McKee


USA, 2002
Regia: Lucky McKee
Cast: Angela Bettis, Jeremy Sisto, Anna Faris, James Duval
Sceneggiatura: Lucky McKee


Trama (im)modesta – May (una perfetta Angela Bettis) è giovane, carina e vagamente psicotica. Emarginata sin da piccola per via del suo occhio pigro, ha come unica amica una bambola che non ha nemmeno mai toccato perché troppo delicata e dunque chiusa in una teca di vetro. Un giorno May incontra un fascinoso ragazzo con velleità registiche, Adam (Sisto), che, al manifestarsi della sua ingenua nevrosi, la abbandona senza troppi indugi. Lo stesso succede con la svampita segretaria lesbica che lavora nella sua clinica veterinaria, Polly (Faris), che, dopo averla sedotta, la abbandona per una bambolona bionda dalle gambe mozzafiato. Realizzando di voler bene solo a certe parti delle persone a lei vicine, May decide di unire insieme quelle parti per creare Amy: l’amico perfetto. Insomma, scorrerà parecchio sangue.


La mia (im)modesta opinione – Ho sempre amato l’ibridazione di genere. Il genere chiuso, a sé stante è qualcosa di povero, chiuso, dalle risorse limitate. Aprendosi a tutti i possibili generi narrativi, invece, un film (ma anche una qualsiasi opera) riesce a scoprire incroci strani, originali innesti che danno vita a pellicole, come questa, forse non bellissime e coinvolgenti ma di cui si apprezzano le fosforescenze psicologiche e i vicoli segreti dell’animo dei loro personaggi.


May è un film di questo genere: storia di formazione, macabra commedia romantica, body horror, thriller psicologico. Quello che sorprende, nel film, è la sottigliezza psicologica che, con le sue sfumature, disegna un potente crescendo di riferimenti e situazioni. Vediamo (o meglio indoviniamo) le idee di May formarsi nella sua mente, guardiamo con i suoi occhi, sentiamo con le sue orecchie.
E May è un personaggio magari non statuario ma che di certo lascia il segno. Rotto il sottile guscio della sua consapevolezza, ignorante del mondo e dei suoi processi, May prova a ristabilire una sorta di nucleo di normalità all’interno della sua vita basandosi su indizi vaghi, fuorvianti che la porteranno inevitabilmente all’omicidio. Già lo vediamo nella sua bambola: inquietante manichino rinchiuso per l’eternità nella sua bara di cristallo dove può vedere ed essere vista ma non partecipare, non vivere.


La rottura della teca di vetro è la rottura del guscio in cui May era rinchiusa. Questo processo è chiaramente visibile nella profetica sequenza dell’apertura della teca: vetri rotti e sangue e ferite degli occhi di May. Vedere è soffrire. Ma poi viene Halloween, May si rimbocca le maniche, si veste come la sua bambola e va a creare il suo amico perfetto. E la sequenza della creazione di Amy (una specie di simil-Frankenstein) è un vero capolavoro di esplorazione psicologica e amaro e tetro umorismo macabro.


Inutile dirlo, il film ha il suo punto di forza nella superba Angela Bettis, con le sue forme nervose, il suo sguardo sgusciante, i suoi sorrisi intimi e amari, le sue passioni torbide. Grande prova di recitazione al fianco di quella un po’ sopra le righe e inverosimile di Anna Faris, stupenda ochetta svampita e sensuale. Per il resto il film è un horror senza horror. Il regista gioca con l’orrore come un prestigiatore raffinato mostrandolo e facendolo scomparire nella manica, mostrandoci senza esitazione la degradazione, l’imbarazzo a cui May è sottoposta e anche la sua crescita in negativo, la sua sanguinosa presa di sé, e poi la ribellione finale che la vedrà cavarsi il suo “occhio malefico”. Perché a May è stato insegnato a non accettarsi, a non socializzare (si dice nel film «Se non riesci a farti un amico, inventatelo»)  e non ha mai imparato a interagire, a giudicare.


Altra genialità del regista è quella di non narrare la storia di May dall’alto di un registro orrifico (che avrebbe preferito trasformare May in mostro ripugnante e sanguinolento) ma dal punto di vista distorto della deformazione grottesca. Ed è infatti il grottesco che regna sovrano nella pellicola: grottesco è il comportamento della lesbica Polly, grottesco è il film diretto da Adam (dove una coppia di fidanzati invece di fare l’amore si cannibalizza a vicenda, ponendo un inquietante parallelismo con la realtà delle azioni successive di May), grottesche sono le proporzioni e l’anatomia del corpo di Amy, l’amico perfetto fatto su misura di May. 


Il film dunque assume i cupissimi colori burtoniani di una favola nera (naturale è l’associazione fra May e la Selina Kyle di Batman Returns, compresa la mania del cucito) con una morale perversa e incerta. Ci si chiede infatti che cosa finisca per rappresentare il film: non è certo un horror convenzionale, non è uno slasher movie né un semplice thriller psicologico, non parla di una vera storia d’amore (il rapporto May/Adam fallisce quasi subito) né è splatter, non ha i toni del morality play né del quesito esistenziale, non è denuncia o provocazione. È solo May. May dovunque, con le sue disturbanti bambole e il suo inquietante cucito. Del resto, è risaputo, l’uomo è un burattino ed è il Diavolo che tira i fili.


Se ti è piaciuto guarda anche...Batman Returns (1992) di Tim Burton, perché è il miglior Burton e perché parla, come May, dell’emarginazione sociale a cui sono costretti i diversi e i freaks. Willard (2003) di Glen Morgan, perché quanto a essere inquietante, Willard Stiles, con i suoi topi addestrati e il suo sguardo acquoso e tagliente, è il principe di tutti i mostri segreti che si nascondono nelle pieghe della società cosiddetta civile. Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, perché è il più grande classico che parla della tremenda follia dei “figli di mammà” e perché Anthony Perkins raggiunge livelli di spaventosità che rasentano il sublime. Profumo (2006) di Tom Tykwer, perché è stato il film che, tramite le immagini, è riuscito a creare i profumi facendoci sentire la frescura delle carni, le abiezioni degli spiriti e le infinite e segrete palpitazioni del sangue e del cuore.


Scena cult – Ma ovviamente lo splatterissimo cortometraggio di Adam, dove eros e cannibalismo si incrociano in un singolarissimo ed efficace matrimonio di suggestioni psicologiche.

Canzone cult – Difficile scegliere in un film dalla colonna sonora tanto ben fornita di polverosi pezzi di musica vintage ed elettronica ma, devo ammetterlo, i miei preferiti sono la triste canzone Do You Love Me Now? dei The Breeders e il divertente brano vintage Hanky Panky di Tommy James & The Shondells.


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