domenica 24 febbraio 2013

SILVER LININGS PLAYBOOK (2012), David O. Russell


USA, 2012
Regia: David O. Russell
Cast: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert DeNiro, Jacki Weaver, Chris Tucker, Julia Stiles
Sceneggiatura: David O. Russell


Trama (im)modesta – Pat è un uomo che ha sofferto per tutta la vita di un disturb bipolare mai diagnosticato. Dopo aver scoperto il tradimento della moglie e aver picchiato quasi a morte l’amante di lei, è stato rinchiuso in un istituto di sanità mentale per otto mesi. Tornato a casa, Pat non è ancora del tutto sano: ha reazioni violente, sbalzi d’umore, si ostina a non prendere le medicine ed è ossessionato dall’idea di ritrovare sua moglie Nikki. Una sera, a cena da amici, conosce Tiffany, una ragazza depressa per la morte del marito, che rimane affascinata da lui. I due diventeranno amici e poi fidanzati, complice una scommessa di football del vecchio padre di Pat e una gara di ballo natalizia.


La mia (im)modesta opinione – Prima di guardare Silver Linings Playbook (in italiano Il lato positivo) vi devo avvertire: è una commedia. Il finale, dunque, sarà senza dubbio lieto. A parte questo (nella vita, si sa le cose non vanno sempre per la migliore) il film è bello, non m’ha coinvolto quanto ad altri, non mi ha fatto né ridere né piangere ma s’è fatto guardare, anche grazie alle performances stellari, nel caso di Bradley Cooper, o semplicemente molto, molto buone degli altri membri del cast. Valore aggiunto è Jennifer Lawrence, bellissima dark lady, che offre un’interpretazione bellissima del personaggio di Tiffany, ma non per questo meritevole di tutti i premi che s’è portata a casa.


Silver Linings Playbook è, in definitiva, un film che, in un mondo perfetto, sarebbe nella media ma nel panorama cinematografico attuale, spicca per la perizia con la quale i personaggi sono delineati e la regia del bravo Russell. Tutte cose, queste, che un buon film dovrebbe avere basilarmente, almeno in un mondo ideale. Non nego certo la bellezza o (perché no?) l’eccezionalità di una pellicola come questa; ma, nonostante tutto, l’ho trovata almeno dal mio punto di vista una commedia simpatica e dolcemara, ben diretta, scritta meglio e recitata in maniera eccellente, ma artisticamente un poco fiacca. Non rimprovero certo mancanza di stile, solo un’ordinarietà che impedisce al film di diventare qualcosa di veramente epocale.


Per il resto tutto è ineccepibile: Bradley Cooper e Jennifer Lawrence sono al loro meglio, e fa piacere vedere un attore come Cooper finalmente in un ruolo che lo metta alle prese con un personaggio di certo non facilissimo, com’è quello di un uomo bipolare. Quanto alla Lawrence, la sua bravura è semplicemente riconfermata. Voglio spendere solo due parole in più su Robert DeNiro e Jacki Weaver. La performance di DeNiro è stata molto incensata, inutile dire che a me è parsa assai modesta, dato anche il fatto che un attore come DeNiro ci ha abituati a personaggi assai più leggendari e quello del ruvido padre di provincia non gli consente né di esprimersi al meglio né di ambire seriamente a una statuetta che meglio starebbe in mani altrui. La Weaver era andata benissimo in Animal Kingdom ma anche qui e più che altro una comparsa, priva di quella profondità che anche il personaggio di DeNiro ha in minor misura rispetto a quelle dei protagonisti.


Una delle commedie migliori dell’anno passato, dunque, ma non un grandissimo film. Più che altro questo Silver Linings Playbook è un’occasione di riflettere su come i nostri standard cinematografici si siano, anche se di poco, abbassati. Certo, non è il caso in cui la mediocrità regna sovrana, ma il film, una volta visto, si dimentica e non lascia veramente un gran segno. Lo preferisco comunque ai film nominati agli Oscar 2013 che l’accompagnano: meno scolastico, meno vegliardo, meno soporifero e catarroso. Una buona lezione di cinema, che si fa del bene a non prendere con enormi pretese.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I grandi personaggi con malattie mentali al cinema e in televisione: per il disturbo bipolare abbiamo The Hours (2002) di Stephen Daldry, il grande Misery (1990) di Rob Reiner, Michael Clayton (2007) di Tony Gilroy e la serie tv Homeland (2011-…) di Howard Gordon e Alex Gansa. Commedie dolceamare ne esistono a bizzeffe: c’è il recente Quasi amici (2011) di Olivier Nakache ed Eric Toledano, il Win Win (2011) di Thomas McCarthy, il travolgente Happy Go Lucky (2008) di Mike Leigh, An Education (2009) di Lone Scherfig e la commedia Beginners (2010) di Mike Mills.


Scena cult – Assolutamente, la gara di ballo.

Canzone cult – Bene la colonna sonora con la mia beneamina personale Goodnight Moon degli Shivaree, seguita da Girl from the North Country di Bob Dylan, il brano Hey Big Brother degli Rare Earth e i due pezzi dei White Stripes Hello Operator e Fell in Love with a Girl.

sabato 23 febbraio 2013

UNCERTAINTY (2009), Scott McGehee, David Siegel


USA, 2009
Regia: Scott McGehee, David Siegel
Cast: Joseph Gordon-Levitt, Lynn Collins, Assumpta Serna, Louis Arcella, Nelson Landrieu
Sceneggiatura: Scott McGehee, David Siegel


Trama (im)modesta – New York, 3 Luglio. Una giovane coppia, il musicista Bobby e la ballerina Kate, discutono sul ponte di Brooklyn: hanno una scelta da fare. Tirano una moneta, si guardano e iniziano a correre in direzioni opposte. Qui le due storie divergono: Bobby e Kate, a Brooklyn, andranno ad aspettare il quattro luglio con la famiglia di lei, indecisi se rivelare o meno la gravidanza di lei; a Manhattan, invece, Bobby e Kate trovano un misterioso cellulare che contiene prove schiaccianti circa una truffa milionaria alla lotteria e si ritrovano inseguiti da una banda di criminali che lo rivuole indietro. Dalle due parti della città, le due coppie vivranno due giornate diverse, avendo a che fare con dilemmi d’amore e fughe rocambolesche.


La mia (im)modesta opinioneUncertainty, incertezza. L’incertezza sull’esito di un tiro di moneta, l’incertezza del futuro, l’incertezza della sopravvivenza. Il film stesso è incerto: oscilla fra dramma sentimental-familiare intimistico e inseguimento urbano. Unico denominatore comune: l’estate a New York. Checché se ne dica, non c’è versione cinematografica della Grande Mela che preferisco più di quella estiva. La calura dell’asfalto e l’ombra dolce; la torma umana che striscia, ronza, bisbiglia sommessa e sciamante; il limpido nitore della notte, le luci pigre, le brezze fresche sui tetti. Lo scenario che più commuove è questo: la città e i suoi bassifondi. E non manca, Uncertainty, di suggerire interessanti spunti di riflessione, nella sua metà “gialla”, sulla persecuzione urbana della tecnologia, sulle mille spie elettroniche che non ci lasciano nemmeno il riposo di un’ombra, che ci rendono tutti visibili, tutti vulnerabili.


In altre parti della pellicola si toccano poi le tematiche del buio futuro: lo spettacolo in cui Kate balla chiuderà in tre mesi, Bobby dovrà tornare nel natìo Canada, la sorella di Kate vorrebbe intraprendere il sentiero dell’arte ma la madre la disapprova. Non c’è la perfezione ma i protagonisti di Uncertainty vorrebbero altrimenti. Se una scelta è troppo complicata basterà continuare ad andare avanti, proseguire nel cammino. Qui i due protagonisti, l’adorato Joseph Gordon-Levitt (che per me diventa, film dopo film, sempre più un’icona) e la bellissima Lynn Collins, danno il loro meglio, considerando anche che la maggior parte del dialogo fra i due attori è stato improvvisato al momento, per deliberata scelta registica. Ed è proprio l’illusione di verismo che i due registi/autori riescono a creare a fare del film un assoluto cult underground.


Certo, la perfezione non è cosa da film underground. Resta oscura (ma non meno brillante) l’idea dell’iniziale lancio di moneta con gemmazione delle storyline diverse, leggermente meno digeribile è la commistione fra dramma familiare e thriller urbano, sebbene tutte e due le parti riescano a integrarsi verosimilmente. Leggermente più debole è la parte thriller che pecca solo di non dare spiegazioni alla fine, optando per il classico taglio del nodo di Gordio che fa restare oscuri gli oscuri e conosciuti i conosciuti. E sebbene la critica non abbia valutato grandemente questo film, io mi sento di consigliarlo assolutamente vuoi per la bellezza commovente di certe scene (che indicherò più in basso), vuoi per la chimica divina che s’instaura fra i due protagonisti, vuoi per il ritratto così sgargiante e carnale di New York, vera terza protagonista muta della vicenda. Per una volta siate certi: recuperate questo film.


Se ti è piaciuto guarda anche... - Non c'è New York migliore di quella di Kids (1995) di Larry Clark; mentre per le storie sdoppiate, sognate, divise abbiamo il cupo e monumentale Inception (2010) di Christopher Nolan, Sliding Doors (1998) di Peter Howitt, il thrillerone Triangle (2009) di Christopher Smith, il melò 2046 (2004) di Wong Kar-Wai. Sul versante drammatico abbiamo poi i due miei preferiti: Rachel Getting Married (2008) di Jonathan Demme e The Vicious Kind (2009) di Lee Toland Krieger.


Scena cult – I fuochi d’artificio del quattro luglio, visti da punti opposti della città da entrambe le coppie; il finale ad anello sul ponte di Brooklyn, la scena d’amore fra Levitt e la Collins, inedita prova di buongusto e lirismo legati ad una scena di sesso per una volta non facilmente volgare.

Canzone cult – Non pervenuta.

mercoledì 20 febbraio 2013

RUBY SPARKS (2012), Jonathan Dayton e Valerie Faris


USA, 2012
Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris
Cast: Paul Dano, Zoe Zakan, Chris Messina, Annette Bening, Antonio Banderas, Deborah Ann Woll
Sceneggiatura: Zoe Zakan


Trama (im)modesta – Calvin ha ventinove anni, a diciannove ha scritto un romanzo così rivoluzionario che è entrato nella storia della letteratura Americana ma adesso la sua vena creative s’è esaurita. Il blocco dello scrittore lo devasta, complice il narcisismo di cui è vittima e che l’ha portato a distruggere la sua unica vera relazione d’amore. Affascinato dal sogno ricorrente di una ragazza perfetta, Calvin decide di scrivere la sua storia d’amore con quella ragazza, inventando un nome (Ruby, appunto), una biografia, una personalità. La scrittura del nuovo romanzo procede a gonfie vele fino al giorno in cui Ruby appare davvero in casa di Calvin, esattamente come lo scrittore l’ha descritta e sognata. Ma c’è un problema: Ruby è una creatura d’immaginazione, e Calvin può manipolarla a proprio piacimento. La cosa ha sapore d’inganno: che cosa deciderà di fare il giovane scrittore? Preferirà la realtà o la finzione?


La mia (im)modesta opinione – Abbiamo davanti, con Ruby Sparks, una delle più grandi commedie dell’anno passato. Non solo una riflessione profonda sul rapporto fra realtà e finzione, ma anche una storia d’amore: è incredibile infatti come all’interno di una sola storia i procedimenti del pensiero siano a tal punto colorati e fatti vivi dalle vive psicologie dei personaggi e dai loro rapporti d’amore che la storia stessa arriva ad assumere un colore d’umano. Una novella didascalica, la storia di un insegnamento, questo è Ruby Sparks, la folgorante opera seconda di quegli stessi registi che, anni fa, diressero quella gemma malinconica che fu Little Miss Sunshine.


Uno stile rigoroso eppure sobrissimo, che poco si concede a zuccherosità cinematografiche. Eppure certe inquadrature tolgono il fiato, certe scene sono puri diamanti e il registro della narrazione è talmente flessibile da poter fluttuare con assoluta libertà e disinvoltura fra i toni della commedia brillante, del dramma romantico, fino ad arrivare all’orrore soprannaturale. Ha qualcosa di sadico e oscuro quella scena in cui Calvin gioca con Ruby facendola muovere e ballare come una marionetta impazzita. Naturalmente fondamentali sono i grandissimi comprimari: Paul Dano, uno che grandissimo lo è stato fin dai suoi inizi, e Zoe Zakan, nuovo volto del cinema indie che, per l’occasione, ha pure firmato la sceneggiatura.


Il risultato è un film splendido, toccante che ha il raro dono di possedere personaggi profondamente umani, fragili, problematici. Grande è anche la spigliatissima colonna sonora e gli stupendi scenari losangelini. Spettacolare la luminosa fotografia, spettacolari i volti dei personaggi comprimari: Annette Bening, Antonio Banderas (che ci ricorda che sa essere un bravo attore, quando sta lontano dagli spot televisivi) e la bellissima rossa Deborah Ann Woll, la vampira Jessica del decadutissimo True Blood che anche nei cinque minuti della sua apparizione (apparizione di essenziale importanza per la decodifica dell’intera vicenda) riesce a alzare ancor di più il già alto livello del film.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente il mitico Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, grande capolavoro del cinema indie. Per il rapporto realtà/finzione abbiamo il bello Vero come la finzione (2006) di Marc Forster, il grande Sliding Doors (1998) di Peter Howitt e i due immani classici The Truman Show (1998) di Peter Weir e Inception (2010) di Christopher Nolan.


Scena cult – La definitiva rottura fra Ruby e Calvin e il poetico finale.

Canzone cult – Due: il La donna è mobile cantato dal sempre troppo sopravvalutato Andrea Bocelli e la gemma vintage Quand tu es là di Sylvie Vartan.

giovedì 14 febbraio 2013

THE WALKING DEAD, Stagione 1 (2010), Frank Darabont


USA, 2010
Regia: Frank Darabont, Michelle MacLaren, Gwyneth Horder-Payton, Johan Renck, Ernest Dickerson, Guy Ferland
Cast: Andrew Lincoln, Jon Bernthal, Sarah Wayne Callies, Laurie Holden, Jeffrey DeMunn, Steven Yeun, Chandler Riggs, Norman Reedus
Sceneggiatura: Frank Darabont, Charles H. Eglee, Jack LoGiudice, Robert Kirkman, Glen Mazzara, Adam Fierro


Trama (im)modesta – Sembra un regolare giorno di lavoro, quello di Rick Grimes, sceriffo, impegnato nell’inseguimento di un gruppo di criminali armati; ma l’imprevisto è dietro l’angolo: nella sparatoria immediatamente successiva, Rick viene ferito quasi a morte da un colpo d’arma da fuoco e cade in coma. Al suo risveglio, il mondo è cambiato. Ospedale e città deserti, cadaveri disseminati per le strade, rovine su rovine e nessun essere umano in vista. E quando Frank vede proprio i morti rialzarsi alla ricerca di carne viva da divorare ogni dubbio è fugato: il mondo è vittima di quella che molti definirebbero una zombie apocalypse. I morti viventi superano i sopravvissuti in rapporto di cinquemila a uno. A Rick non rimane altro che mettersi in viaggio, da solo, alla ricerca dei superstiti e della propria famiglia, affrontando tutti i pericoli che un mondo tanto devastato ha in serbo...


La mia (im)modesta opinione – Su The Walking Dead s’è detto e ridetto moltissimo. E io mi sento di confermare le opinioni più entusiastiche a riguardo, riservandomi però il (condiviso) dubbio circa l’effettiva funzionalità dello show. Mi spiego meglio: esiste un episodio (il terzo) che erra nelle miscele, spostando il focus sul lato più strettamente drammatico della vicenda, che riesce a essere davvero noioso. Da qui si capisce come The Walking Dead sia una serie perennemente in bilico, che, per avere successo (e lo ha a grandissimi livelli), deve necessariamente riuscire a mescolare il dramma umano all’horror o fondendoli, come nel migliore dei casi, o quantomeno accostandoli. È quanto succederà, a detta di tutti, nella seconda stagione che per la prima metà risulterà assai mediocre riprendendosi poi nella seconda parte.


Ed è proprio questo il problema essenziale di una serie come questa: la trama è troppo lineare. Non ci sono colpi di scena da aspettarsi, non ci sono spesso motivi che spingano lo spettatore ad aver bisogno di guardare la puntata successiva. Si tratta solo di sapere se i protagonisti sopravviveranno e come. Questo, l’argomento della prima stagione che, va detto, è comunque relegata a sei esigui episodi. Per il resto la qualità della serie è ottima: l’impianto aperto della narrazione a episodi permette uno sviluppo del dramma connaturato allo zombie movie più disteso e potente, laddove gli altri film di genere potevano solo optare sulla forzata scelta della chiave orrifica (comunque declinabile in molti modi diversi) senza creare una vera e propria empatia con i personaggi – empatia assolutamente presente e viva in The Walking Dead, e che va considerata il maggior punto di forza dello show.


Già dalla puntata pilota, ciò che ci colpisce è il profondo senso d’umana pietà che pervade l’intera storia: l’invasione dei morti viventi è il punto centrale, sì, ma la nostra attenzione si sposta più sulla desolazione che questa invasione s’è lasciata dietro, sul senso di abbandono e solitudine, sulla precaria solidarietà che i pochi manipoli di uomini rimasti riescono a stringere. Il senso di disperazione e ferocia ci si presenta in tutta la sua più accorata drammaticità, stranamente dissonante con le placide ambientazioni naturali in cui la serie è immersa: il verde è una costante dello show. Prati, foreste, parchi, cieli azzurri: il mondo di The Walking Dead non è un incubo cementizio ma una sorta di Eden contaminato, sempre e comunque vicino all’universo della natura di cui i morti viventi sono la cancerosa perversione, testimoni viventi (o non-viventi) di una depravazione del normale circuito delle cose.


Rick Grimes è un eroe integerrimo, quasi un moderno Enea tanto è pieno di alti e nobili sentimenti: il dovere, la devozione alla famiglia e alla propria causa, la salda moralità, la spinta eroica verso il sacrificio. Un eroe del genere fa piacere all’inizio ma poi stanza: nel ventunesimo secolo sono lodevolissimi gli esempi di tanta profonda compassione e virtù, ma ci sarebbe bisogno di eroi più problematici, più sfaccettati. Se Rick è un gigante del lato luminoso, gli manca una controparte, mentre tutti i suoi co-protagonisti appartengono all’area grigia dell’irrisolutezza morale: sono loro i veri eroi sfaccettati, problematici. E su tutti brillano la bella Andrea, il sanguigno bifolco Deryl e l’assai tormentato Shane Walsh, amico di Frank che ha salvato la moglie e il figlio dell’amico mentre questo era in coma e ha finito per innamorarsene.


Il livello tecnico della serie è poi d’indiscussa altezza: grandi recitazioni, bei dialoghi (anche se si riservano qualche mosceria), stupendi la regia e gli apparati artistici con la spettacolare, limpidissima fotografia e l’uso tanto perfetto dei silenzi e delle musiche. Tanto che si può arrivare a dire che il contesto del suono è il protagonista onnipresente ma invisibile di tutta la serie. Grandi poi Andrew Lincoln e Laurie Holden, vere stelle recitative della stagione. The Walking Dead è insomma uno dei migliori show degli ultimi anni (ma questo già si sapeva) nonostante delle falle che, tutto sommato, scegliamo di perdonare in ragione della grande, grandissima qualità del risultato finale.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Lo zombie movie più spassoso che mi sia mai capitato di vedere, oltre a Shaun of the Dead (2004) di Edgar Wright, è il cubano Juan De Los Muertos (2011) di Alejandro Brugués. La citazione è d’obbligo, poi, per perle moderne come 28 Giorni Dopo (2002) di Danny Boyle e L'alba dei morti viventi (2004) di Zack Snyder. C’è poi l’originale Le cronache dei morti viventi (2007) di George Romero, da accoppiare a uno dei più grandi film del grande maestro: Zombi (1978), film di indubbia qualità ma dalla messinscena alquanto scadentuccia. Per la serie delle grandi figate c’è poi il saporosissimo Planet Terror (2007) di Robert Rodriguez e il più ironico Benvenuti a Zombieland (2009) di Ruben Fleischer. Mentre nella sezione “sconosciuti ma illustri” abbiamo  Dead Snow (2009) di Tommy Wirkola, il folgorante  Deadgirl (2008) di Marcel Sarmiento e Gadi Harel e il pecoreccissimo Big Tits Zombie (2010) di Takao Nakano, un film così brutto che è bellissimo.


Scena cult – La morte della sorella di Andrea, la donna morta che torna a bussare alla propria porta di casa.

Canzone cult – La bella Tomorrow is a long time di Bob Dylan, la potentissima orchestrale Sunshine di John Murphy (tratta dall’omonimo film di Danny Boyle) e la blueseggiante I’m a Man dei Black Strobe.

martedì 12 febbraio 2013

MISFITS, Stagione 4 (2012), Howard Overman


Regno Unito, 2012
Regia: Nirpal Bhogal, Jonathan van Tulleken, Dusan Lazarevic,
Cast: Joseph Gilgun, Nathan Stewart-Jarrett, Nathan McMullen, Karla Crome, Matt Stokoe, Shaun Dooley, Natasha O'Keeffe
Sceneggiatura: Howard Overman, Jon Brown


Trama (im)modesta – Dopo gli eventi della terza stagione, Simon è tornato indietro nel tempo, Kelly e Seth si sono trasferiti in Africa e a occuparsi del servizio comunitario sono rimasti solo Rudy e Curtis, affiancati da due nuovi volti: Finn, un timido ragazzo con il dono della telecinesi, e Jess, una ragazza capace di vedere attraverso gli oggetti solidi. Insieme la nuova banda dovrà avere a che fare con il nuovo assistente sociale, Greg, e con tutta una serie di nuove figure: il misterioso barista Alex, la femme fatale Lola, la suora Nadine e Abbey, una ragazza che ha perso la memoria e non sa nulla del proprio passato. E le avventure in cui il gruppo si ritroverà impegolato sono delle più bizzarre: avranno a che fare con conigli assassini, cloni inquietanti, zombie, sorellastre dai poteri taumaturgici...


La mia (im)modesta opinione – Geniale. Geniale è la quarta stagione di Misftis, checché ne dicano i nostalgici che avevano già dai tempi della scomparsa dell’idolo assoluto Nathan Young, lamentato un sensibile calo nella qualità della serie. E se la terza stagione aveva fallito, impigliandosi fino all’eccesso dentro la trama sci-fi e, in generale, prendendosi troppo sul serio, gli autori della quarta stagione hanno deciso di dare una nuova svolta alla serie, trasformandola in una vorticosa giostra di situazioni, di generi differenti fra loro, di spinte gemelle sia verso il registro comico che verso quello drammatico. Lo humor è nerissimo, in questa quarta stagione, e la stagione stessa è nera, buia, piena a sprazzi di assurde genialate autoriali che ora reinventano un genere, ora ne creano uno del nulla, sfruttando situazioni del tutto strane e stranianti e non rinunciando a della sana metanarrazione con i personaggi che discutono i clichés che li caratterizzano.


Il personaggio di Rudy si è rivelato, adesso, degnissimo sostituto di Nathan con un repertorio di smorfie, scorrettissime battute, scurrilità e follie che, da sole, già bastano a rendere la serie più che meritevole d’essere guardata. Non parliamo poi delle assurde trovate degli autori che riescono a tirar fuori dal cappello genialate come un assassino dalla testa di coniglio che uccide le sue vittime con una mazza da golf, i quattro Cavalieri dell’Apocalisse come teppisti nerovestiti che cavalcano BMX armati di katana, lesbiche che rubano peni a uomini malcapitati e molto altro ancora. Ed è proprio questa la maggiore qualità della quarta stagione di Misfits: la capacità di reinventarsi costantemente e di rimanere sempre se stesso, la capacità di inglobare bassissima comicità e alte riflessioni sulla vita e sull’esistenza (agghiacciante Rudy che, giocando con una tastiera elettronica, compita casualmente un “We all die alone”); uno show che sa sia far ridere che far rimanere di sasso davanti alla morte di alcuni personaggi o alle incisive e agili caratterizzazioni dei personaggi più marginali.


Tutto questo accade grazie agli attori (anche se Karla Crome ha un personaggio leggermente più scialbo e dotato di minor forza comica o drammatica di tutti gli altri suoi colleghi), Joseph Gilgun su tutti ma senza dimenticarci un grandissimo Shaun Dooley, rude e amareggiato assistente sociale, e la stupenda Natasha O’Keeffe, che interpreta la triste Abbey. Insomma, poco importa la nostalgia: Misfits è tornato alla grandissima in questa stagione, pieno di genialità, di musiche delle più belle e di regie sempre più esperte che toccano poi vertici di assoluta arte cinematografica in episodi come quello dello zombie noir, assoluta perla non solo della serie ma dell’intera produzione televisiva inglese degli ultimi anni, o quello del coniglio assassino, inquietantissimo misto di crasso umorismo e inquietante dramma da camera rivisitato da Kafka. Assolutamente immancabile.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente le più grandi serie tv inglesi: Black Mirror (2011-2013) di Charlie Brooker, presto rinnovato per una seconda stagione; la grande Dead Set (2008) sempre di Brooker. C’è poi il sommo classico Ai Confini della Realtà (1959) di Rod Serling, insieme alla nuova serie del Doctor Who (2005-2013) di Sydney Newman, C. E. Webber e Donald Wilson. Abbiamo poi il bel The Fades (2010) di Jack Thorne e la Being Human (2009-2013) di Toby Whithouse.


Scena cult – Lo spettacolare quarto episodio, seguito a ruota da dal surreale sesto.

Canzone cult – La lista sarebbe troppo lunga. Cito semplicemente il Blue Jeans di Lana del Rey (inaspettata discesa nel “popolare” per una serie caratterizzata di un certo elitarismo in musica) e la The Power of Love, cantata dal grande Shaun Dooley nei panni dell’assistente Greg.

giovedì 7 febbraio 2013

LES REVENANTS (2012), Fabrice Gobert


Francia, 2012
Regia: Fabrice Gobert,  Frédéric Mermoud
Cast: Yara Pilartz, Jenna Thiam, Frédéric Pierrot, Clotilde Hesme, Anne Consigny, Pierre Perrier, Céline Sallette, Alix Poisson, Guillame Gouix, Swann Nambotin, Ana Girardot,  Grégory Gadebois, Jean-François Sivadier
Sceneggiatura: Fabrice Gobert


Trama (im)modesta – In un piccolo villaggio di montagna francese, i morti si risvegliano e tornano alle proprie case. Non sono zombie, non sono vampiri. Tornano esattamente come erano prima, pienamente umani eppure ci sono un paio di dettagli dissonanti: hanno sempre una gran fame, non hanno bisogno di dormire, non ricordano nulla circa la loro morte. E così tornano a bussare alla porta dei loro cari la piccola Camille, morta in un incidente d’autobus; Simon, suicidatosi il giorno del proprio matrimonio; Victor, ragazzino ucciso da una coppia di ladri; Serge, feroce serial killer morto anni e anni addietro. Il ritorno dei morti sconvolge le vite di tutti gli abitanti della piccola cittadina, ma non è il solo fenomeno misterioso: il livello d’acqua della diga prende a scendere vertiginosamente, gli animali delle montagne circostanti affogano in massa nel lago, strane piaghe ulcerose appaiono sui corpi dei vivi e dei morti…


La mia (im)modesta opinione Les Revenants è una serie sbalorditiva. Ed è incredibile come un dramma soprannaturale insieme così testo e così delicato sia riuscito per otto puntate diverse a rimanere stabile, senza nessuno scivolone di stile e con un pregio filmico altissimo. Merito dell’autore Gobert, che ha monopolizzato la direzione della serie a tutti i livelli (è autore di tutti gli episodi, che ha diretto per metà); merito dei bravissimi attori, volti non sconosciuti ai frequentatori, come il sottoscritto, di film d’autore come il Frédéric Pierrot de La Guerra è Dichiarata o la Céline Sallette della meraviglia filmica L’Apollonide, oppure lo stupendo Pierre Perrier, già visto nel visivamente forte Douches Froides e nel più recente (e, a dir dei critici, estremo) American Translation.


E Les Revenants è una serie estrema, nel suo genere; una serie che non si ferma davanti a nulla. Senza nessuna gratuità ci vengono mostrate violenze efferate, suicidi, scene di sesso esplicito che la HBO si può solo sognare, sequenze puramente horror, drammi familiari. Una televisione in stato di grazia, ecco cosa abbiamo davanti con Les Revenants, una televisione che anche in Europa è finalmente riuscita a toccare gli eccelsi livelli di altre serie tv che hanno fatto della vicinanza all’impegno e all’approfondimento del cinema una vera e propria raison d'être. Si può dire, fuor da ogni dubbio, che Les Revenants sia, con soli otto episodi, un istantaneo pezzo della cultura pop di oggi, imprescindibile lezione di stile “francese”: profondo, intellettuale, intenso e lirico. Non siamo dalle parti di The Walking Dead (non nella prima metà della serie, almeno) ma piuttosto nelle atmosfere rarefatte di Twin Peaks.


Certo, nonostante la grande qualità, nemmeno Les Revenants non è esente da marchiani difettacci, comunque scusabili in ragione della superba qualità artistica del prodotto finale. Vero è che il finale di stagione è aperto, ma l’autore non si preoccupa di rispondere a nessuna delle domande che pone: perché Simon si è suicidato? Perché gli animali si gettano nel lago? Perché le ferite misteriose? Passano otto episodi eppure nessun mistero viene svelato. Strano, dato che lungi dall’essere nato come prodotto commerciale, Les Revenants vedrà una seconda stagione solo nel 2014. Ma scusiamo Gobert: moltissimi autori hanno iniziato e finito senza sapere dove stessero andando a parare e hanno realizzato serie belle la metà di questa. Les Revenants rimane un prodotto incomparabile per scavo psicologico e suggestività e speriamo di vederlo tornare al più presto sopra i nostri teleschermi.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Lo stracult Twin Peaks (1990-1991) di David Lynch e Mark Frost, il più recente The Walking Dead (2010-…) di Frank Darabont e Ai Confini della Realtà (1959) di Rod Serling. La serie è tratta da un film francese omonimo, abbastanza mediocre, ma che val la pena segnalare: Les Revenants (2004) di Robin Campillo. Per raffinati drammi supernaturali, suggerisco invece il classico Il Sesto Senso (1999) di M. Night Shyamalan, La Zona Morta (1983) di David Cronenberg e Amabili Resti (2009) di Peter Jackson.


Scena cult – Il finale del sesto episodio, la scena della farfalla che spacca la teca di vetro, gli incontri fra Adele e Simon.

Canzone cult – Tutte quante. La musica è affidata al gruppo scozzese Mogwai che fa un lavoro semplicemente incredibile. Più bella di tutti è la stupenda sigla.

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