mercoledì 30 ottobre 2013

FATAL INSTINCT (1993), Carl Reiner


























USA, 1993
Regia: Carl Reiner
Cast: Armand Assante, Sherilyn Fenn, Sean Young, Kate Nelligan, Christopher McDonald
Sceneggiatura: David O’Malley


Trama (im)modesta – Ned Ravine non è solo un poliziotto che arresta criminali ma anche l’avvocato che li difende in tribunale. Chiuso fra le sbarre e la barra, invischiato dalla seduzione della misteriosa bionda Lola Cain, Ned ha sempre meno tempo per la moglie, Lana. Certo sua moglie non è stata con le mani in mano: s’è fatta un amante e progetta di ucciderlo per riscattare la sua polizza sulla vita. A complicare le cose, arrivano in città anche l’ex-marito dell’assistente di Ned, Laura, che era stato lasciato e aveva giurato vendetta e il feroce criminale Max Shady, desideroso di rivincita verso Ned Ravine, che l’aveva incarcerato anni prima...


La mia (im)modesta opinione Fatal Instinct è un film strano. Personalmente, lo vidi agli inizi della mia carriera di aspirante cinefilo e divenne subito un mio cult istantaneo. L’ho riguardato dopo tanti anni per sincerarmi che fosse davvero un film bello come m’era parso ai tempi dell’infanzia beata. Lo è e insieme non lo è. Mi spiego meglio: Fatal Instinct è uno spoof dei noir classici e dei neo-noir anni ’80 che mitraglia sullo spettatore una scarica di rimandi e/o citazioni più o meno colte che fanno sorridere, piuttosto che spanciare dal ridere.


L’umorismo del film, a distanza di anni, l’ho trovato più sottile, per quanto involontario. Tutti gli errori del film (una regia e una recitazione troppo “serie” per una parodia, la mancanza assoluta di originalità della storia che riunisce tutti i luoghi comuni del noir classico) finiscono stranamente per armonizzarsi alle stralunatezze comiche e il risultato è un noir che pare la somma del suo genere. Ma se per un film drammatico questo stile ormai cristallizzato e superficialmente convenzionale sarebbe stato una condanna, in Fatal Instinct la demenzialità del mondo in cui è ambientata la storia dà piuttosto un tocco di onirico alla pellicola di Reiner, vero pseudo-noir insieme retrò e burchielliano (ho amato il reparto artistico per il look sixties della pellicola).


La spiegazione del piano per uccidere Ned, il “sesso pazzo” con Lola Cain, la surreale scena del processo con annessa una “ricreazione” in cui avvocati, sospetti e guardie giocano come bambini. Non c’è una singola scena che insieme non sia coronata da una comicità sciroccata e infantile, in chiara contraddizione con la serietà con cui i personaggi si comportano. Un bizzarro caso di “così stupido che pare intelligente”, vero camp d’autore, con quei tocchi stranianti (non oso dire metacinematografici, seppure involontari) come la telecamera che urta contro un albero e si spacca, i personaggi che possono leggere i sottotitoli e l’accompagnamento sonoro del sassofonista Clarence Clemons, che appare nei panni di se stesso.


Forte anche di un cast di quasi-fuoriclasse, limitatamente al periodo di passaggio fra ’80 e ’90, Fatal Instinct si fa ricordare per le incredibilmente sexy Sean Young, bionda di ghiaccio, e la sirena lynchiana Sherilyn Fenn, già vista in Twin Peaks, innocente e radiosa. Armand Assante è perfetto per l’ambivalenza comica e drammatica del suo personaggio con i modi affascinanti e l’espressione stolida, totalmente lontano dalla fisicità scalmanata del Fran Drebin de La pallottola spuntata. Una piccola perla, questo Fatal Instinct, un giochetto intellettuale innocuo ma sapido.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Rimando ai film citati dal film stesso: La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, Chinatown (1974) di Roman Polanski, Cape Fear (1991) di Martin Scorsese, Dick Tracy (1990) di Warren Beatty. Non dimentichiamo poi il grande I diabolici (1955) di Henri-Georges Clouzot, A letto con il nemico (1991) di Joseph Ruben e Il postino bussa sempre due volte (1946) di Tay Garnett. Nel campo nella parodia del noir, poi, spettacolare è Una pallottola spuntata (1998) di David Zucker.


Scena cult – Quella de Le Hot Club. Sean Young è bella oltre ogni limite, la comicità sciroccata.

Canzone cult – L’intera colonna sonora di Clarence Clemons.

venerdì 18 ottobre 2013

BANSHEE, Stagione 1 (2013), Jonathan Tropper, David Schickler


USA, 2013
Regia: Greg Yaitanes, SJ Clarkson, OC Madsen, Dean White, Miguel Sapochnik
Cast: Antony Starr, Ivana Miličević, Ulrich Thomsen, Frankie Faison, Hoon Lee, Lili Simmons, Ben Cross, Ryann Shane
Sceneggiatura: Jonathan Tropper, David Schickler


Trama (im)modesta – A volte inizia tutto con l’incontro, in un bar di provincia, di opportunità e fortuna. Se un galeotto appena uscito di prigione dopo quindici anni di gattabuia, alla ricerca di dieci milioni di dollari in diamanti, finisce in mezzo alla rissa che porta alla morte del nuovo sceriffo di Banshee, Pennsylvania – sceriffo che è appena arrivato in città, che nessuno ha ancora mai visto, eccetto forse per un connivente barista... che potrebbe succedere? Che potrebbe succedere se il galeotto decidesse di prendere in prestito l’identità del nuovo sceriffo, di portare in città i suoi eterodossi metodi da strada, facendo arrabbiare non poche persone: il capo della malavita locale, un mafioso ucraino, una ex-complice e amante che, nascosta sotto nuova identità, non vuole saperne di tornare alla vecchia vita...


La mia (im)modesta opinioneBanshee è una figata. La sceneggiatura fa acqua? Ahinoi, sì, ma non è nemmeno il colabrodo che molti amano credere che sia. Le prime stagioni, si sa, tolte qualche eccezioni eccellenti (vedi Breaking Bad o Mad Men) sono sempre un giro di prova, la serie deve carburare, capire come avanzare da sola, farsi comprendere dai suoi autori. Banshee è proprio così: eccessiva, funambolica, rutilante. Zoppica di tanto in tanto, sì, a volte di certo non sfoggia particolare buon gusto, ma diverte. Diverte eccome.


Se con Breaking Bad avevamo una mistura di pulp e drama con preponderanza del lato drammatico, con Banshee vediamo un ribaltamento di equilibri: più pulp che dramma, ma la serie comincia presto a scavare dentro ai personaggi, prima ingenuamente poi sempre con maggiore precisione. Non dimentica nemmeno il suo lato più sapido ed entusiasmante, anzi è uno show onnivoro: ci sono la mafia ucraina, la mafia Amish, gli indiani, i furti milionari, un hacker transgender (!!!), un ex-pugile galeotto, una mamma di provincia che è un’assassina/ladra sotto copertura...


L’esagerazione è la cifra stilistica, ma proprio sul versante dello stile abbiamo davanti un realismo di disarmante minimalità. La serie si gioca tutta sul concitatissimo montaggio e sul maggiore uso di effetti speciali analogici a dispetto dei digitali. I risultati? Scazzottate epiche, violentissime. Scene di tortura assolutamente non sopra le righe (ma in un contesto che lo è), battute epiche come se fossero noccioline (su tutte la meravigliosa «Meet the new boss») e personaggi greater than life.


Andiamo dallo sceriffo Hood, l’uomo che non deve chiedere mai, il macho perfetto, alla sfaccettatissima Carrie/Anastasia: singolare fusione di madre coraggio e spietata killer esteuropea. Le macchiette sono rigorosamente indimenticabili: svettano il transgender d’azione Job con la sua lingua velenosa, il capo mafia Kai Proctor insieme al suo inquietante assistente Burton, la amish zoccola Rebecca e il terrificante Albino, presente solo per una parte minuscola ma che nessuno potrà mai dimenticare.


Fra gang di motociclisti violenti, pugili stupratori, ex-compagni di galera con l’hobby del ricatto e torbidi intrighi politici, lo sceriffo Hood colpisce tutti con la sua capacità di prendere a legnate gli uomini, portarsi a letto le donne e risolvere ogni faccenda alla maniera dei veri uomini. Banshee è una delle serie più interessanti dell’anno passato, intrattenimento televisivo puro e disimpegnato che non prescinde dall’approfondimento psicologico dei personaggi. Se siete amanti del testosterone, questa è la serie che fa per voi.


Se ti è piaciuto guarda anche... – L’appena conclusasi Breaking Bad (2008-2013) di Vince Gilligan, vertice e pietra miliare dell’intrattenimento televisivo di tutti i tempi, è il fratello maggiore e più figo di Banshee. Per i moderni western abbiamo poi il capolavoro Deadwood (2004-2006) di David Milch, Hell on Wheels (2011-…) di Joe e Tony Gayton, insieme alla solidissima Sons of Anarchy (2008-...) di Kurt Sutter. Se vi sentite desiderosi di andare sul classico, non potreste mai perdervi il sommo trash Walker, Texas Ranger (1993-2001) di Leslie Greif  e Paul Haggis.


Scena cult – Le scazzottate: Hood/Sanchez, Hood/Albino, Carrie/Olek. La sparatoria finale. Le battute del transgender Job.

Canzone cult – Svariate. La maliosa Madonna di Jude Christodal, le aggressivissime So So Fresh di Nico Vega e We Got To Meet Death One Day di Luella and the Sun. Cito più di sfuggita Fifth of Whiskey di Verse & Bishop e l’opening theme firmato dai Methodic Doubt.

giovedì 10 ottobre 2013

LA CASA (2013), Fede Alvarez


USA, 2013
Regia: Fede Alvarez
Cast: Shiloh Fernandez, Jane Levy, Jessica Lucas, Lou Taylor Pucci
Sceneggiatura: Fede Alvarez, Rodo Sayagues, Diablo Cody


Trama (im)modesta – Il giovane David e la sua fidanzata Natalie si uniscono all’infermiera Olivia e all’amico David per aiutare Mia, sorella di David, a iniziare la sua disintossicazione dall’eroina. Essendo già falliti numerosi altri tentativi, il gruppo decide di passare qualche giorno nella capanna di famiglia, dispersa fra i boschi. Sentendo uno strano odore di putrefazione, i ragazzi scoprono l’esistenza di una botola che conduce in una cantina dove ritrovano un antico manoscritto insieme a numerosi cadaveri di animali e tracce di quello che pare essere stato un rogo. Leggendo per sbaglio il libro ad alta voce, un’oscura presenza verrà risvegliata che possiederà ognuno dei ragazzi conducendoli al massacro totale. Chi riuscirà a sfuggire alla maledizione?


La mia (im)modesta opinione – Il palio della scommessa era alto: rifare uno dei sommi classici del cinema horror, diretto da uno dei sommi registi del genere e iniziatore di una saga delle più celebri e blasonate. La scommessa è formalmente vinta, sebbene i risultati non siano dei più indimenticabili. Fede Alvarez è pratico e deciso, colpisce duro e non chiede scusa a nessuno. Nega ironia e citazionismo, snobba la decostruzione dello stereotipo horror operata dal geniale Quella casa nel bosco e firma un horror demoniaco duro e puro, viscerale e terribile.


Il film fa paura? No. Non che l’originale ne facesse. La Casa di Raimi, infatti, preferiva declinare l’orrore in grottesco divertissement, punzonare lo spettatore con la ferocia dell’umorismo e dare agli stilemi dell’orrifico un sapore di gag comica, al limitare dell’assurdo. Una verve giocosa che ancora il regista cinquantatreenne pare non aver perso. Alvarez però non si sente in vena di giocare, no. Il suo La Casa è un film dannatamente serio, solenne in certi punti come l’attacco che cita Shining, ma che non si nega per nulla una sorta di acido divertimento, specialmente nel finale con l’epica battuta «Feast on this, motherf***er!»


Ciò che stupisce davvero, nella pellicola dell’uruguaiano trentacinquenne, è l’assoluta brutalità della narrazione, l’intensa fisicità degli orrori messi in scena. L’elemento splatter/orrifico non è violenza estetizzata ma una spietatezza paradossalmente realistica, o comunque in cui è totalmente assente ogni spinta idealizzante. Quella messa in scena da La Casa è un’agonia totalmente carnale, che si attacca al nostro midollo grazie anche alla preferenza del regista per effetti speciali analogici e non digitali.


Nonostante la quasi pedissequa aderenza al modello originario, Alvarez confeziona un film che potrebbe essere considerato l’apice del genere splatter – intendendo come apice il perfetto equilibrio fra violenza fine a se stessa e risorse formali che riesce a impressionare scioccando ma non costringe lo spettatore a contorcersi sulla poltrona, come succede invece in film di più incerto gusto (ma indubbio fascino) come la saga di The Human Centipede, quella degli ultimi insostenibili episodi di  Saw o di certi film asiatici come Visitor Q o Suicide Club, colpevoli di vere e proprie soperchierie visive nei confronti del malcapitato spettatore, costretto a vedere denti frantumati a colpi di martello, scuoiamenti, girandole di suicidi.


L’approfondimento dei personaggi è cosa secondaria, specialmente per il regista, e, per una volta, nemmeno a noi interessa che ci siano figure praticamente mute (contando sul fatto che i protagonisti del film sono in tutto cinque) o che la divisione per tipologie umane sia meccanica e impersonale. I personaggi sono carne da macello, a far da protagonista ne La Casa è l’anima stessa della sofferenza e dell’atroce supplizio, in un climax grafico che avvolge totalmente fino al catartico finale, giocato senza pietà o tenerezza sotto il raggelante battere di una pioggia di sangue.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente la saga originale: La Casa (1981), La Casa 2 (1987) e L’armata delle tenebre (1993) di Sam Raimi. Rimanendo sul classico abbiamo La notte dei diavoli (1972) di Giorgio Ferroni e I tre volti della paura (1963) del grande Mario Bava. Per esperienze splatter di perfetto equilibrio, cito il sommo The Loved Ones (2009) di Sean Byrne, il cult francese À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury insieme ai moderni classici Hostel (2005) di Eli Roth e il primo Saw (2004) di James Wan. Mentre è immancabile il richamo alla folie à deux di Antichrist (2009) di Lars von Trier. Concludo con la lunga saga di Hellraiser, iniziata da Hellraiser (1987) di Clive Barker.


Scena cult – Per fantasia e inquietantezza, la scena della doccia batte tutte le altre, a parte, forse, per il finale sotto la pioggia di sangue.

Canzone cult – Non pervenuta.

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