venerdì 31 gennaio 2014

DALLAS BUYERS CLUB (2013), Jean-Marc Vallée


USA, 2013
Regia: Jean-Marc Vallée
Cast: Matthew McConaughey, Jared Leto, Jennifer Garner, Denis O’Hare, Steve Zahn
Sceneggiatura: Craig Borten, Melisa Wallack


Trama (im)modesta – 1985. Ron Woodroof fa l’elettricista in una stazione petrolifera, è un uomo rude, intossicato da cocaina e metamfetamina, appassionato di rodei e sesso causale. È proprio una sciagurata passata con una tossicomane che gli procura l’infezione mortale: l’HIV. I medici non gli danno più di trenta giorni: il morbo è incurabile e solo in quel momento si stanno facendo test sperimentali con l’AZT, un nuovo farmaco. Ron riesce a procurarsene ma, dopo un periodo di miglioramento, le cose peggiorano. Gli viene consigliato un dottore messicano che gli dimostra come l’AZT sia meno efficace che pericoloso per i malati di AIDS. Non si tratta di eradicare il virus ma di aiutare un organismo il cui sistema immunitario è in crollo. Le vitamine e i farmaci necessari, purtroppo, tutti non tossici, non sono approvati dal governo americano. Aiutato dal transessuale Rayon, Ron costituisce il Dallas Buyers Club, che serve a procurare ai malati le loro medicine. Ma il governo e i medici ufficiali non vogliono mollare la presa...


La mia (im)modesta opinione – L’AIDS è una malattia scomoda. Quando esplose, negli anni ’80, colse il mondo impreparato. Il fatto che fosse diffusa fra omosessuali e tossicomani e imperversasse nei paesi del Terzo Mondo la trasformò nel marchio di Caino per milioni di disperati. Senza aggiungere poi le difficoltà nel trattamento di un virus sconosciuto e insidioso. Ma Dallas Buyers Club ci mostra di più. Se la novità della malattia, la sua virulenza, facevano (e fanno) brancolare le autorità mediche nel buio, i pochi spiragli di luce per i malati venivano uccisi dai loschi maneggi delle case farmaceutiche, che preferivano sintetizzare farmaci dai costi emorragici piuttosto che accettare approcci diversi ai problemi. E il film di Jean-Marc Vallèe (già regista di C.R.A.Z.Y. e The Young Victoria) racconta la storia di chi denunciò questi meccanismi, un profeta inascoltato in patria: Ron Woodroof.


Sarebbe anche interessante leggere il film come allegoria. L’AIDS ha cambiato tutto. Affrontarla non ha significato affrontare soltanto una malattia, ma anche quelle porzioni invisibili della società scomode per molti. L’AIDS è stata la più grande sfida della storia per generazioni e generazioni di miopi e biechi benpensanti. La storia di Dallas Buyers Club è una storia personale e, di riflesso, collettiva. Il cammino di un uomo che inizia come un relitto umano, balordo drogato e vizioso, e diventa un eroe, un condottiero, un uomo non solo capace di rimanere in sella al toro imbizzarrito della società in movimento ma anche di guardare senza paura il destino, vestito da clown serio, che troneggia in mezzo all’arena. La stessa metodologia alternativa che Woodroof propone è significativa della sua assunzione a eroe moderno: se i medici ufficiali vogliono con l’AZT sradicare il morbo, le nuove tecniche preferiscono accettarne la presenza e limitarsi a trattarlo.


Un approccio basato sulla tolleranza, dunque, e sull’apertura. È questo il cambiamento più importante che affronta non solo Ron Woodroof, omofobo all’inizio e crociato per una causa riguardante principalmente omosessuali alla fine, ma la società intera. Affrontare serenamente la malattia significa anche accettare i cambiamenti che essa porta nel mondo. E i cambiamenti che questa malattia ha portato nel mondo non sono nemmeno immaginabili. Grazie a questo male, ironicamente, i pregiudizi cadono come foglie morte e due membri della società che paiono vivere agli antipodi (un rude texano amante dei rodei e un transessuale) si coalizzano, diventano amici e alleati contro il vero nemico: l’avidità della società consumista, i maneggi degli alti papaveri dell’industria farmaceutica che controlla le loro stesse vite. E si scopre, ancora una volta, che legge e giustizia non sono che raramente la stessa cosa.


Lo script della coppia Borten-Wallack si fa forte di una narrazione cruda ed essenziale, una storia nuda e senza fronzoli. A narrarla s’impegna una regia poco virtuosistica, che preferisce trasmettere messaggi ed emozioni tramite un accortissimo uso del montaggio. La fotografia livida e il meraviglioso lavoro dei make-up artists, poi, consentono allo stellare cast di incarnare alla perfezione questa storia. Matthew McConaughey è, insieme a Leonardo Di Caprio, il nuovo Dio della recitazione. Non solo, come il suo collega che ho appena citato, le sue capacità attoriali paiono sempre più illimitate, ma anche la sua carriera sta spiccando un volo in salita verso il più alto dei firmamenti. Non meno infinito di McConaughey è il grandissimo Jared Leto, inedito nella parte truccatissima e ipermagra del transessuale Rayon.


I visi dei due attori principali, i loro corpi dragati dalla malattia danno carne e sangue alla pura sofferenza che ci trasmettono. Unico rimprovero che muovo al film di Vallèe, nonostante il suo indiscusso impegno, è l’eccessiva convenzionalità della storia, basata, alla fin fine, sul tipicamente idealista self-made man crociato per la sua causa. Ovviamente il film non è neppure lontanamente ruffiano in senso tradizionale, ciò che propone è una sorta di moralismo mordernizzato, con il sopradetto movimento di Ron da una vita basata su vizio/male a virtù/bene. Il vizio è didascalicamente mostrato tramite droghe e prostitute, la virtù è la tolleranza e l’apertura. Non che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò, ma questa distinzione netta toglie complessità morale ai personaggi, senza però privarli per un attimo della loro dolorosissima intensità.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Naturalmente il classico Philadelphia (1993) di Jonathan Demme è una sorta di caposquadra del genere. Notevolmente più drammatico e angosciante è il documentario Body Without Soul (1995) di Wiktor Godrecki, che intervista un vero hustler minorenne nel suo letto di morte per colpa dell’immunodeficienza. Il male del secolo non poteva certo mancare nel grandioso affresco decadente di fine millennio Kids (1995) di Larry Clark né nel musical bohèmienne Rent (2005) di Chris Columbus. Ricordiamo anche il drammatico Buddies (1985) diretto dall’attivista Arthur J. Bressan Jr.


Scena cult – Il rodeo finale. Woodroof che attraversa la frontiera. La stanza piena di farfalle.

Canzone cult – Dei The Airborne Toxic Event abbiamo l’energica Hell and Back. Immancabile in un film con Jared Leto, poi, l’intevento dei 30 Seconds to Mars con la versione acustica di City of Angels.

giovedì 30 gennaio 2014

AMERICAN HORROR STORY: COVEN (2013), Ryan Murphy, Brad Falchuck


USA, 2013
Regia: Alfonso Gomez-Rejon, Michael Rymer, Michael Uppendahl, Jeremy Podeswa, Bradley Buecker, Howard Deutch
Cast: Jessica Lange, Sarah Paulson, Taissa Farmiga, Emma Roberts, Evan Peters, Angela Bassett, Gabourey Sidibe, Frances Conroy, Lily Rabe, Kathy Bates, Denis O’Hare, Jaime Brewer
Sceneggiatura: Ryan Murphy, Brad Falchuck, Tim Minear, James Wong, Jennifer Salt, Jessica Sharzer, Douglas Petrie


Trama (im)modesta – New Orleans, giorni nostri. La Miss Robicheaux’s Academy for Exceptional Young Ladies è un’esclusiva scuola privata che nasconde, in verità, una congrega di streghe, le ultime discendenti di Salem. I tempi sono duri, le streghe, decimate dai protiettili d’argento di uomini che danno loro la caccia, sono pochissime, governate da una Suprema, Fiona Goode, che approfitta dei suoi grandi poteri per accrescere il suo potere e la sua bellezza. Ma i tempi stanno maturando, una nuova Suprema sta per sorgere. E più la nuova Suprema cresce in potere, più la vecchia si avvicina alla morte. Ma Fiona Goode non è disposta a lasciare il trono tanto facilmente e si mette alla ricerca dell’immortalità, intromettendosi in una vecchia resa dei conti fra una vecchia donna immortale e la donna che l’ha maledetta: Marie Laveau, la regina del Voodoo di New Orleans...


La mia (im)modesta opinione – No, ancora non ci siamo. Se la prima stagione iniziava alla grande e si sgonfiava sul finale e la seconda stagione risultava parecchio più equilibrata e si concludeva con tre episodi grandiosi che costituivano uno dei finali più toccanti che avessi mai visto sul piccolo schermo, questa terza stagione di American Horror Story abbassa il tono invece di alzarlo, volta alto e poi ricade in basso, realizza un prodotto che ha i suoi momenti di indiscussa forza ma che difetta inevitabilmente dell’energia delle prime due stagioni. La discontinuità fra pura bellezza e assoluta inutilità pare la sua legge.


Pare che il problema sia il solito, lo stesso che affligge tutti i prodotti caratterizzati da uno stile “estremo”: la cristallizzazione dello stile. American Horror Story è uno show fra i più trasgressivi e controcorrente degli ultimi anni, non ha paura di giocare con il sesso, il mind screw a cui solo Lynch ci aveva abituati, l’horror più cupo. Uno show del genere piace per la maniera unica in cui riesce a frullare insieme gli stilemi del proprio genere, rinfrescandoli, dando loro nuova vita. Purtroppo questo non è quello che accade in Coven.


Specialmente dopo Asylum, mi sarei aspettato uno scavo incisivo sui personaggi, un’inventiva fuori dal comune, un’orchestrazione narrativa contorta ma coerente. Le mie aspettative sono state disattese. Ryan Murphy, che pare sempre incapace di trattenersi dall’ingolfare le sue storie con una gay campiness ai limiti dell’umano, trasforma uno show di alta qualità in uno sciapo e vagamente trash dramma da liceo il cui unico scopo pare ammucchiare, battuta dopo battuta, fino alla nausea, tutti i giochi di parole che includono la parola “bitch”. È davvero questo il meglio che sa fare?


Murphy aveva annunciato che, dopo il nichilismo estremo di Asylum, questo Coven sarebbe stato più leggero e disimpegnato. Ma c’erano mille modi di condire una trama horror con humor nero senza rovinarla come è stato fatto. Il ricorso ossessivo al trucchetto della risurrezione dei personaggi, la morte e il ritorno di tutti dal regno dei trapassati, uccidono l’entusiasmo dello spettatore, tolgono coraggio e spina dorsale a una storia che, basicamente, può essere rappresentata come una gara fra cinque bionde superficiali a chi è più favolosa e cattiva. Insomma, una noia mortale.


Tracollo definitivo dell’entusiasmo è l’apparizione di una invecchiatissima, stonatissima e inutilissima Stevie Nicks, che spera, riesumando se stessa in televisione, di riesumare anche la sua carriera. In certi momenti mi è parso di guardare Glee, piuttosto che American Horror Story. Dove è finito lo spavento? Dove stanno le stranezze bizzarre, le cameriere fantasma, i fantasmi vestiti di lattice, le suore possedute dal demonio, gli angeli della morte in tailleur nero e ali di ordinanza? Tutto scomparso, tutto andato. Rimane solo la noia, insieme anche a una certa irritazione.


Bravissimi tutti gli interpreti, ma incredibilmente sprecati. Tranne Emma Roberts, Angela Bassett e Patti LuPone, non c’è attore che abbia una parte che gli competa e che si meriti. Jessica Lange fa essenzialmente la bastarda, Sarah Paulson si piange essenzialmente addosso, Taissa Farmiga ed Evan Peters sono spaesati, mal sfruttati. E sappiamo tutti quanto sia bravo Evan Peters, uno degli interpreti più dotati di tutto il piccolo schermo. Non citiamo Kathy Bates, bravissima, che solo grazie alla sua bravura riesce a rendere un minimo  credibile uno dei personaggi peggio scritti dell’intera storia televisiva.


Ma, come ho detto, alla serie non mancano i suoi momenti forti. Momenti che, purtroppo, non sanno cancellare l’amaro dalla bocca. È un po’ come se di American Horror Story si fosse conservata solo la vuota facciata, depauperata di contenuti e profondità, privata persino dell’horror in favore di una scadente commedia nera che, al massimo, può vantarsi di una validissima messinscena e di ottimi interpreti, rovinati semplicemente da un team di autori profondamente incompetente. Murphy ci rassicura, dice che la prossima stagione tornerà sui toni foschi di Asylum


Con le mie critiche però (è necessario che chiarifichi) non voglio comunque sminuire il valore che lo show di Murphy ha implicitamente. Per quanto incoerente e confuso, per quanto inferiore alle precedenti stagioni, Coven rimane comunque avanti a quasi tutti gli altri show, un'asticella di salto in alto posizionata oltre i limiti pensabili della televisione comune. E se suono irritato, è solo perché credo che, con materiale tanto esplosivo fra le mani, il minimo che si potrebbe fare sarebbe di valorizzarlo, renderlo entusiasmante. Coven è pieno di momenti in puro stile American Horror Story, quello che io lamento è la mediocrità e la confusione che impediscono a uno show bello come questo di assurgere a livelli di perfezione che, per altri, non sarebbero nemmeno possibili. E il finale di Asylum ha dimostrato quanto in alto possa arrivare una serie così.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente le prime due stagioni, la prima, Murder House (2011), e la spettacolare seconda, Asylum (2012). La serie di culto rimarrà comunque sempre Streghe (1998 – 2006) di Constance M. Burge e Aaron Spelling. Per le vere streghe, quelle che Coven avrebbe potuto citare, citiamo il classico horror Suspiria (1977) di Dario Argento, La seduzione del male (1996) di Nicholas Hytner, il tamarro ma gustosissimo Tamara (2005) di Jeremy Haft e il più autoriale Il mistero del bosco (2006) di Lucky McKee.


Scena cult – L'intero primo episodio (una vera bomba), gli incipit della quarta e dodicesima puntata, il rogo della quarta puntata.

Canzone cult – La mitica Sugarland di Papa Mali, il funky indiavolato di Dr. John in Right Place, Wrong Time e le inquietanti musichette del cameriere fantasma Spaulding.

domenica 26 gennaio 2014

THE HUNGER GAMES: CATCHING FIRE (2013), Francis Lawrence


USA, 2012
Regia: Francis Lawrence
Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Woody Harrelson, Donald Southerland, Philip Seymour Hoffman, Liam Hemsworth, Elizabeth Banks, Lenny Kravitz, Stanley Tucci
Sceneggiatura: Simon Beaufoy, Michael deBruyn


Trama (im)modesta – Dopo aver vinto negli ultimi Hunger Games, le cose non si sono fatte migliori per Katniss Everdeen. Il presidente Snow la odia per i moti rivoluzionari che ha istigato, il suo amore per Gale non può realizzarsi dato che la sua vita dipende unicamente dalla relazione mediatica che ha con il compagno Peeta. Su suggerimento del nuovo stratega Heavensbee, i nuovi Hunger Games includeranno tutti i vincitori delle edizioni precedenti. Katniss e Peeta dovranno tornare a combattere ma questa volta qualcosa è diverso...


La mia (im)modesta opinione – La noia. La noia. La noia. Se il primo episodio riusciva a mettere in scena una storia teen ma anche a riprendere di scorcio un tipo di società, feroce parodia della nostra in salsa teen-fantasy, il secondo film della saga, Catching Fire, ha due ore e mezzo a disposizione e, miracolosamente, riesce a non centrare nemmeno un punto. L’azione latita e quando c’è è delle più scarse e meno eccitanti. «Sarà allora un film più riflessivo?», ci si chiederà. Errore: il film nemmeno è riflessivo. Le feste grandiose di Capitol City sono salutate così, di passaggio, nessuno si spreca.


E i giochi? Questa volta non ci sono solo dilettanti: i killer più mortali di tutti i distretti si sono riuniti per... Ancora un errore. Insieme alla mancanza totale d’azione o ritmo, abbiamo pure i personaggi peggio scritti e sbrigativamente caratterizzati di sempre. I problemi morali di Katniss sono solo accennati (il salvabile lo salva la sempre immensa Jennifer Lawrence), le insicurezze di Peeta sono appiattite fino alla massa critica e il personaggio diventa il bersaglio della politica autoriale più castrante di sempre: non si parla d’altro che di proteggere Peeta, Peeta è solo come un cane, Peeta viene rapito e orrendamente torturato (sempre lontano dalle scene, sia chiaro).


Almeno si vedrà un poco di questa rivolta? Insomma. Giusto un paio di frame qui e lì, ma nulla di che. Game of Thrones è riuscito a far meglio con mezzi evidentemente inferiori e senza un budget da capogiro (140 milioni di dollari non sono certo pochi). Di chi è la colpa? In parte di Francis Lawrence che, eccettuato il mio cult personale Constantine, non è mai stato esattamente un esperto né di film d’azione né di pellicole dall’andamento contemplativo. In parte della sceneggiatura prolissa e allungata alla peggio, della scrittura dozzinale e grossolana. Insomma, boccio questo Catching Fire su tutta la linea. Peccato, il primo m’era piaciuto così tanto...


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente il primo e migliore The Hunger Games (2012) di Gary Ross e il suo illustre precedente Battle Royale (2000) di Kinji Fukasaky. Per bruttezza e inconsistenza paragono in questa sede Catching Fire all’orripilante After Earth (2013) di M. Night Shyamalan mentre ci sono affinità tematiche con il non ottimo ma certamente più valido Elysium (2013) di  Neill Blomkamp.


Scena cult – Una soltanto, per spettacolarità: Katniss che fa saltare in aria l’arena, alla fine del film.

Canzone cult – Non mi sono nemmeno curato di cercarne una


sabato 25 gennaio 2014

PRISONERS (2013), Denis Villeneuve


USA, 2013
Regia: Denis Villeneuve
Cast: Hugh Jackman, Jack Gylenhaal, Paul Dano, Melissa Leo, Viola Davis, Terrence Howard, Maria Bello
Sceneggiatura: Aaron Guzikowski


Trama (im)modesta - È il Giorno del Ringraziamento. Due famiglie sono riunite insieme per la cena. Tutto pare andare per il meglio fino a quando le due figlie minori, Joy e Anna, scompaiono nel nulla. Un camper sospetto viene visto nella zona, quando la polizia lo va a cercare vi trova dentro Alex Jones, un minorato mentale che viene fermato e interrogato, senza risultato. Ma Keller, il padre di Anna, non è convinto della versione di Alex, lo rapisce e prende a torturarlo per strappargli la verità sulle sue figlie. Nel frattempo, sulle tracce delle bambine si mette il detective di Loki, che scoprirà una verità più terribile dietro quei crimini.


La mia (im)modesta opinione – Una storia americana fatta da un canadese. Il thriller dell’anno? Con ogni probabilità. Denis Villeneuve ancora una volta (l’aveva già fatto nello splendido Polytechnique e in La donna che canta) prende ad ispirazione gli stilemi del mystery, del dramma ispirato alla cronaca nera per raccontare di un malessere, di una disillusione. Se in Polytechnique si studiavano le dinamiche di un massacro e in La donna che canta era l’orrore della guerra ad essere esaminato, Prisoners fa un passo avanti: non solo racconta la fenomenologia della crudeltà, della tortura e dell’imprigionamento, ma dipinge anche una metafora. Come non potrebbero tornare alla mente, vedendo le torture di Keller Dover al sospettato Alex Jones, gli orrori di Guantanamo Bay e le sevizie inferte ai detenuti politici?


Come Keller, l’America, forte della sua fede e dei suoi valori, non esita a commettere i peggiori reati, a scendere nella sevizie credendo di proteggere i propri figli. È facile notare come l’indagine del detective Loki (bravissimo Jake Gylenhaal) arrivi alle stesse conclusioni di quella personale di Keller Dover. Ma dove uno, rappresentante della legge, riesce a riaggiustare i cocci della famiglia distrutta, l’altro, privato cittadino, giunge alle stesse conclusioni con il più immorale dei mezzi (la sevizia di un innocente). La condanna al comportamento di Keller è evidente: aggredisce il suo stesso figlio maggiore, lascia che la propria moglie venga schiacciata dalla depressione, permette che la sua casa venga violata. Gli autori del film non sanno nemmeno se salvarlo oppure no, il dubbio della sua sopravvivenza permane fino all’ultimo secondo della pellicola.


Prisoners sarà pure il miglior thriller della scorsa annata, ma non è certo il miglior film di Villeneuve. Molti danno la colpa all’eccessiva durata, alla storia complessa. Non credo sia vero. Più ragionevoli mi paiono le critiche ai pesanti sottesi religiosi che possiede la storia. La croce è elemento onnipresente (nelle case, sulle dita tatuate di Loki, al collo di Keller Dover), il film si apre con la recita di un Padre Nostro che viene ripetuto, più tardi, senza possibilità di essere completato, si allude agli oscuri maneggi dei sacerdoti, un cadavere connesso proprio a un sacerdote è l’indizio-chiave dell’intera vicenda. Non parliamo poi dei serpenti, presenti in una memorabile e suggestiva scena di tensione. Un didascalismo ben dipinto ma male organizzato, troppo poco sottile e aderente alle vicende.


Per il resto Prisoners si classifica come un dramma teso e cupo, inquietante in certi punti che trionfa come novella morale e come prova di recitazione per l’intero cast di stelle capitanato da un monumentale Hugh Jackman, che si è davvero lasciato i passati errori alle spalle (cito l’ultimo Wolverine e l’orrendo Real Steel) per dare l’anima a un personaggio forse sopra le righe ma umanissimo e assai profondo. La fotografia opaca e intirizzita, la bella colonna sonora contribuiscono a fare di Prisoners un film elegante e forte, denso di spunti, un mystery coerente che forse un autore meno talentuoso avrebbe rovinato. Da non perdere.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Il pensiero va subito allo stupendo Gone Baby Gone (2007) di Ben Affleck e Un gelido inverno (2010) di Debra Granik. Affine raffinatezza nel trasformare un dramma poliziesco in un dramma umano possiedono Niente da nascondere (2005) del grande Michael Haneke e Mystic River (2003) di Clint Eastwood. Abbiamo poi l’ottimo Alpha Dog (2006) di Nick Cassavetes e i classici Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen e Anatomia di un rapimento (1963) di Akira Kurosawa.


Scena cult – La tortura della doccia, i serpenti nascosti nelle valigie, lo svelamento finale.

Canzone cult – Non pervenuta.

COMPLIANCE (2012), Craig Zobel


USA, 2012
Regia: Craig Zobel
Cast: Ann Dowd, Dreama Walker, Pat Healy, Bill Camp
Sceneggiatura: Craig Zobel


Trama (im)modesta – Tutto inizia un venerdì qualsiasi in un qualsiasi fast food americano. I clienti vanno e vengono, la giornata sembra non finire mai, tutti non vedono l’ora d’iniziare il loro weekend. Arriva una telefonata. È l’agente Daniels, della polizia. Dice alla manager che Becky, una ragazza che sta alle casse, ha rubato dei soldi dalla borsa di una cliente. Le chiede di perquisirla prima, poi di farla spogliare. Ma il lavoro deve continuare, la tensione di tutti aumenta. Becky si ritrova in un vortice d’angoscia crescente, sempre più vittima della voce che viene dal telefono...


La mia (im)modesta opinioneCompliance è un grande film. Sfruttando un interessante caso di cronaca che, da solo, avrebbe al massimo denunciato l’ingenuità e l’incompetenza di manager e dipendenti, Craig Zobel imbastisce un kammerspiel raffinato e tesissimo. Dentro quel fast food, sta l’America intera. Un pubblico che non sa e che, sapendo, si rifiuta d’intromettersi mentre un’innocente è mandato al macello per la beffa crudele di uno sconosciuto la cui unica autorità è quella che dichiara d’avere. Non c’è troppa distanza, dopo tutto, fra la cieca obbedienza di persone che accettano, solo per sentito dire, di abusare di un'innocente e le guardie naziste che "eseguivano solo gli ordini"...


Al di là dei sottesi politici e civili, al di là del dramma morale, al di là anche dell’indagine psicologica su una vittima sempre più quiescente, un carnefice che si limita a parlare al telefono e tutti gli inconsapevoli complici, Compliance è una storia dalla costruzione fenomenale. Avrebbe come minimo meritato di più delle controversie scoppiate al Sundance durante la sua proiezione. Certo è che il film di Zobel costituisce un’esplorazione affatto superficiale della psiche umana, delle dinamiche del potere e della distruzione che si può causare usando soltanto delle parole ben scelte.


La musica della pellicola, un finissimo e appropriato tappeto d’archi, svolge la doppia funzione di regalare eleganza a un film la cui ambientazione non potrebbe essere delle più squallide e di sollevare la tensione e perfino l’orrore (solo morale, sia chiaro) ai livelli che solo gli ottimi thriller raggiungono. E del resto questo Compliance del thriller ha l’anima, ma non l’aspetto. Grandi gli attori, sia l’ottima Dreama Walker, spaesata vittima dell’orrenda beffa, sia Ann Dowd, che interpreta la manager in crisi, spinta sull’orlo del baratro dal cattivissimo Pat Healy, uno dei più grandi antagonisti di tutto il cinema indipendente.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Disturbante riflessione sulla violenza e sulla crudeltà del mondo moderno è il Funny Games (1997) di Michael Haneke (anche nella sua versione statunitense, dello stesso regista). Diverso da Compliance ma non meno inquietante e profondo è il Kids (1995) di Larry Clark, mentre sempre tesissimo e vicino ai problemi della modernità è Hard Candy (2005) di David Slade insieme allo sconvolgente Alpha Dog (2006) di Nick Cassavetes.


Scena cult – I discorsi del perfido prankster. Puro genio dialettico.

Canzone cult – Non pervenuta.

venerdì 10 gennaio 2014

OH BOY (2013), Jan Ole Gerster


Germania, 2013
Regia: Jan Ole Gerster
Cast: Tom Schilling, Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schüttler, Justus von Dohnanyi
Sceneggiatura: Jan Ole Gerster


Trama (im)modesta – Niko è un ragazzo berlinese. L’ha fidanzata l’ha lasciato dopo un’ultima notte di passione, lui ha lasciato da due anni gli studi universitari, il padre non gli dà altro che bacchettate, lo stesso destino pare essergli ostile, nel suo rifiutarsi di concedergli nemmeno il conforto di una tazza di caffè. Una giornata intera e un’intera notte passa Niko vagando per la città, fra attori falliti, teatranti isteriche, rissosi bifolchi, esclusivi club di golf, vecchi carichi di amarezze e vicini invadenti. Ma che bottino trarrà dai suoi tristi traffici con la vita e la morte? Saprà finalmente cosa fare o rimarrà con in mano un pugno di mosche?


La mia (im)modesta opinione – Di solito non amo né oziosi esercizi di stile né i film che si pretendono intellettuali. Uno dei film che più micidialmente odio, Les Amants Reguliers di Philippe Garrell, l’ho sempre criticato, senza mai nemmeno concedergli l’ombra del dubbio. E cosa fa la differenza fra il filologico mattone-omaggio alla Nouvelle Vague di Truffaut e Chabrol e un minuscolo filmetto indipendente girato a Berlino otto anni dopo? Naturalmente i film non hanno correlazioni evidenti (come potrebbero?) eppure entrambi sono girati in un bianco e nero corposo, hanno per sfondo una fervente capitale europea, hanno per protagonista un eroe giovane e malinconico.


In senso più lato, dunque, cosa mi ha fatto apprezzare tanto Oh Boy, dato che è un film che in circostanze diverse avrei mal sopportato? Sebbene la smania citatazionista di Gerster sia evidentissima e il suo film sia di certo una sorta di ricalco del lavoro di più accreditate maestranze francesi, la pellicola tedesca riesce a trovare una sua identità nazionale precisa (il nazismo continua ad aleggiare nella Germania del ventunesimo secolo, più come riflesso lontano che come minatorio fantasma), il suo mood intorno a un eroe che non fa l’intellettuale raffinato à-la-Louis Garrell (sempre sia lodato) ma è un giovane indeciso e gentile.


L’energia dell’intero film, tutta la sua forza, si concentra nello sguardo mite e malinconico di Tom Schilling, un attore davvero perfetto, misuratissimo, capace di gestire una parte certo difficile senza disagi apparenti. Secondario fulcro assoluto di potenza narrativa e comunicativa è la fine colonna sonora jazzistica, che è il modo più evidente del regista sia per citare il maestro Allen sia per ricreare quel misto di ironia e amarezza per l’assurdità del mondo che aleggia per l’intero film. L’ironia, sì, è un tratto importante di tutta la storia: l’impossibilità del protagonista di bere una sola goccia di caffè nel corso dell’intera giornata fa ridere ma pare anche suggerire l’inafferrabilità del desiderio, lo stesso potrebbe dirsi per i grotteschi intellettuali che si azzannano su brutti lavori teatrali e della anonima passante che espone sempre le goffaggini del nostro protagonista, incontrandolo nei momenti più imbarazzanti.


Un film interessante, dunque, che sa evitare il sapore grezzo dell’artificio puro ma che rimane comunque una copia, per quanto appassionata e sentita. Film d’autore? Prima vorrei vedere l’autore, che pare promettente nascosto com’è da questa valanga di citazioni. Bello è lo script, l’andamento ma anche i grandi classici finiscono per sapere di già visto e sentito, senza per questo stancare. Senza dubbio, dichiaro Oh Boy uno dei film più interessanti dell’annata scorsa, una prova ulteriore di che perle il cinema indipendente sia capace anche in un’epoca di quasi totale deserto spirituale, com’è la nostra. Ma per promuovere Gerster attendiamo il prossimo lungometraggio.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ho citato l’odiato Les Amants Reguiliers (2005) di Philippe Garrell e vi consiglio comunque di vederlo, non fosse altro che per onestà intellettuale. Non posso evitare di consigliare I 400 Colpi (1959) di François Truffaut, Manhattan (1979) di Woody Allen e Bande à Part (1964) di Jean-Luc Godard. Altro imperdibile bianco e nero è il francese L'odio (1995) di Mathieu Kassovitz mentre è simile nel piacere per la divagazione ma più originale e raffinato il sublime A Single Man (2009) di Tom Ford. Né potrei evitare di citare Kids (1995) di Larry Clark, sommo classico della décadence fine anni ’90.


Scena cult – Gli intellettualoidi rissosi e il finale in ospedale.

Canzone cult – Non bene identificata. Rimando però alla colonna sonora nella sua interezza.

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