venerdì 10 gennaio 2014

OH BOY (2013), Jan Ole Gerster


Germania, 2013
Regia: Jan Ole Gerster
Cast: Tom Schilling, Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schüttler, Justus von Dohnanyi
Sceneggiatura: Jan Ole Gerster


Trama (im)modesta – Niko è un ragazzo berlinese. L’ha fidanzata l’ha lasciato dopo un’ultima notte di passione, lui ha lasciato da due anni gli studi universitari, il padre non gli dà altro che bacchettate, lo stesso destino pare essergli ostile, nel suo rifiutarsi di concedergli nemmeno il conforto di una tazza di caffè. Una giornata intera e un’intera notte passa Niko vagando per la città, fra attori falliti, teatranti isteriche, rissosi bifolchi, esclusivi club di golf, vecchi carichi di amarezze e vicini invadenti. Ma che bottino trarrà dai suoi tristi traffici con la vita e la morte? Saprà finalmente cosa fare o rimarrà con in mano un pugno di mosche?


La mia (im)modesta opinione – Di solito non amo né oziosi esercizi di stile né i film che si pretendono intellettuali. Uno dei film che più micidialmente odio, Les Amants Reguliers di Philippe Garrell, l’ho sempre criticato, senza mai nemmeno concedergli l’ombra del dubbio. E cosa fa la differenza fra il filologico mattone-omaggio alla Nouvelle Vague di Truffaut e Chabrol e un minuscolo filmetto indipendente girato a Berlino otto anni dopo? Naturalmente i film non hanno correlazioni evidenti (come potrebbero?) eppure entrambi sono girati in un bianco e nero corposo, hanno per sfondo una fervente capitale europea, hanno per protagonista un eroe giovane e malinconico.


In senso più lato, dunque, cosa mi ha fatto apprezzare tanto Oh Boy, dato che è un film che in circostanze diverse avrei mal sopportato? Sebbene la smania citatazionista di Gerster sia evidentissima e il suo film sia di certo una sorta di ricalco del lavoro di più accreditate maestranze francesi, la pellicola tedesca riesce a trovare una sua identità nazionale precisa (il nazismo continua ad aleggiare nella Germania del ventunesimo secolo, più come riflesso lontano che come minatorio fantasma), il suo mood intorno a un eroe che non fa l’intellettuale raffinato à-la-Louis Garrell (sempre sia lodato) ma è un giovane indeciso e gentile.


L’energia dell’intero film, tutta la sua forza, si concentra nello sguardo mite e malinconico di Tom Schilling, un attore davvero perfetto, misuratissimo, capace di gestire una parte certo difficile senza disagi apparenti. Secondario fulcro assoluto di potenza narrativa e comunicativa è la fine colonna sonora jazzistica, che è il modo più evidente del regista sia per citare il maestro Allen sia per ricreare quel misto di ironia e amarezza per l’assurdità del mondo che aleggia per l’intero film. L’ironia, sì, è un tratto importante di tutta la storia: l’impossibilità del protagonista di bere una sola goccia di caffè nel corso dell’intera giornata fa ridere ma pare anche suggerire l’inafferrabilità del desiderio, lo stesso potrebbe dirsi per i grotteschi intellettuali che si azzannano su brutti lavori teatrali e della anonima passante che espone sempre le goffaggini del nostro protagonista, incontrandolo nei momenti più imbarazzanti.


Un film interessante, dunque, che sa evitare il sapore grezzo dell’artificio puro ma che rimane comunque una copia, per quanto appassionata e sentita. Film d’autore? Prima vorrei vedere l’autore, che pare promettente nascosto com’è da questa valanga di citazioni. Bello è lo script, l’andamento ma anche i grandi classici finiscono per sapere di già visto e sentito, senza per questo stancare. Senza dubbio, dichiaro Oh Boy uno dei film più interessanti dell’annata scorsa, una prova ulteriore di che perle il cinema indipendente sia capace anche in un’epoca di quasi totale deserto spirituale, com’è la nostra. Ma per promuovere Gerster attendiamo il prossimo lungometraggio.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ho citato l’odiato Les Amants Reguiliers (2005) di Philippe Garrell e vi consiglio comunque di vederlo, non fosse altro che per onestà intellettuale. Non posso evitare di consigliare I 400 Colpi (1959) di François Truffaut, Manhattan (1979) di Woody Allen e Bande à Part (1964) di Jean-Luc Godard. Altro imperdibile bianco e nero è il francese L'odio (1995) di Mathieu Kassovitz mentre è simile nel piacere per la divagazione ma più originale e raffinato il sublime A Single Man (2009) di Tom Ford. Né potrei evitare di citare Kids (1995) di Larry Clark, sommo classico della décadence fine anni ’90.


Scena cult – Gli intellettualoidi rissosi e il finale in ospedale.

Canzone cult – Non bene identificata. Rimando però alla colonna sonora nella sua interezza.

5 commenti:

  1. Già mi ispirava e ora la tua recensione mi ha incuriosita ulteriormente! :)

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    1. E' un film da vedere certamente. Il regista promette benissimo!

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  2. è come un film di woody allen, ma molto più figo e fresco

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    1. Del resto Allen ha l'età che ha... Speriamo di vederne ancora così!

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  3. ehi gran bel blog! ti seguo, se vuoi passa dalle mie parti! anch'io mi occupo di cinema ;)

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