domenica 26 maggio 2013

HAPPY FAMILY (2010), Gabriele Salvatores


Italia, 2010
Regia: Gabriele Salvatores
Cast: Fabio de Luigi, Valeria Bilello, Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy, Carla Signoris, Corinna Agustoni, Gianmaria Biancuzzi, Alice Croci
Sceneggiatura: Alessandro Genovesi, Gabriele Salvatores


Trama (im)modesta – Ezio è uno sceneggiatore indeciso. Ha una bella storia: due ragazzi, entrambi sedicenni che non potrebbero essere più diversi, che decidono di sposarsi. Due famiglie diversissime: una appartiene all’altissima borghesia milanese, un’altra di classe media. Una bella storia, si diceva, ma senza sviluppo o finale. Dietro la protesta dei personaggi, Ezio deciderà di infilare se stesso nella storia, salvo per poi pentirsene un’ultima volta. Ma il finale ci sarà, e dei più lieti. Perché se la vita è sogno, sogno è anche il risveglio. E quelle figure che ci sorridono da sotto il guanciale, o dietro la cortina fuggevole d’un sogno a occhi aperti, non sono meno reali d’un gabbiano inconsulto che veleggia bianco sul cielo azzurro dell’estate milanese.


La mia (im)modesta opinione – Un’assolata corsia d’ospedale. Ecco che mi pare il cinema italiano d’oggi. E fra truci epidemie, infami diarree, disperati gesti di lamento e cancri implacabili, ci deve pur essere qualcuno che guarisce e si salva. Qualcuno trova la salute con l’aria più salubre d’altre longitudini (qualcuno ha detto Paolo Sorrentino?), qualcuno si bea del melodramma del proprio male, come un Tornatore d’altri tempi; qualcuno guarisce e basta. Sarà quella strana miscela di nuove farmacopee e inclita spinta alla vita, ma qualcuno è capace di guarire e, soprattutto, di ricordare. Salvatores c’è riuscito.


C’è tutto il cinema italiano, nel suo Happy Family. C’è la lirica circense di Fellini, la spezia esotica di un tardivo Wes Anderson, forse anche le poesie senza requie di Antonioni e De Sica. C’è Milano, non Roma. E questo è importante. Non la capitale vetusta, non la sua bellezza molle e lontana; ma la metropoli giovane, dalle vie scattanti, dai mali moderni. Eppure quella di Happy Family non è una storia milanese, è una storia italiana e, più che italiana, una storia universale. E Salvatores riesce a narrarla, con malizie e amarezze, insaporendola d’un aroma che nessuno sarebbe capace di confondere con un altro.


C’è la visione onirica d’alta significanza, il lirismo d’un bianco e nero che abbraccia la placida gloria sia de La dolce vita che la cupezza de Ladri di biciclette. Manifesto e memento, dunque, il film di Salvatores, ma senza nemmeno il reazionario veleno d’un passatismo eccessivo: l’occhio spazia dovunque, dunque anche al presente. E allora ci troviamo davanti alle tavolate di Ozpetek e agli imbastimenti sontuosi e le nevrosi altoborghesi de I Tenembaum. Ma nemmeno Salvatores dimentica se stesso: c’è tutto quello che a lui è sempre piaciuto. Gli sconfinati spazi del mare luminoso, i rimpianti e le nostalgie, le stupende impennate al di sopra delle righe...


Molti lo definirebbero un film manierato. Ebbene? La maniera è quella che ci salva la vita quando una mareggiata di banalità ci spinge la testa sotto la cresta dell’onda. Quando mi capita di vedere un bel film sono emozionato, tutt’al più; con Happy Family sono felice: siamo ancora capaci, noi italiani, di fare qualcosa di bello e di nostro, di produrre qualcosa che abbia anima e pensiero, che sappia guardare al passato senza scordare il presente o sperare in un futuro migliore. Perché questo siamo noi italiani, un popolo di sognatori che non vuole mai svegliarsi e lotta, lotta indefessamente pur d’abbracciarsi un minuto di più a quelle lenzuola ormai rancide che solo un tempo lontano furono capaci di accoglierci.


Di tutto il resto non parlerò: il cast, le simmetrie e le inquadrature. Sarebb, e scontato, sarebbe come dire che l’Italia è al passo con il resto del mondo. Non lo è. Happy Family è un film fortunato, uno che si è salvato, ma è uno dei pochi. Temo (e forse a ragione) uno degli ultimi. La speranza, allora, è l’unica compagna che ci resta. Una compagna che è l’ultima a morire ma la prima a nascondersi. Concludo con brevità: guardate Happy Family, non sarà il vostro preferito, ma l’ameremo come uno dei pochi superstiti al naufragio che ha ucciso tutti i nostri cari.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Nonostante i tempi che corrano siano indubbiamente bui, l’eccellenza italiana poco vuole saperne di sopirsi. Consiglio dunque il Gomorra (2008) di Matteo Garrone, La Grande Bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, le Mine Vaganti (2010) di Ferzan Ozpetek, il Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Strizziamo l’occhio anche al passato glorioso: La Dolce Vita (1960) e l’Amarcord (1979) di Federico Fellini, i Ladri di Biciclette (1949) di Vittorio de Sica, La Notte (1961) di Michelangelo Antonioni e Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini (si nota che sono un fan di Mastroianni?)


Scena cult – Lo stupendo intro alla Wes Anderson e la discussione sulla vita fra Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio.

Canzone cult – In mezzo a un tripudio di Paul Simon & Art Garfunkel, io segnalo il commovente (sebbene rigidamente eseguito) Notturno in Do Minore di Frédéric Chopin.

martedì 21 maggio 2013

UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARÀ UTILE (2011), Roberto Faenza


Italia, USA, 2011
Regia: Roberto Faenza
Cast: Toby Regbo, Marcia Gay Harden, Peter Gallagher, Ellen Burstyn, Lucy Liu, Deborah Ann Woll
Sceneggiatura: Roberto Faenza, Dahlia Heyman


Trama (im)modesta – James Sveck è un diciassettenne newyorchese con parecchi problemi. Di famiglia agiata, con genitori divorziati, sorella oca intellettuale, madre che salta da un matrimonio all’altro, padre che fa la vita da scapolo e un cattivo rapporto con il mondo, James vorrebbe soltanto rinchiudersi in una casa di campagna, leggere e intagliare legno. Ovviamente i suoi piani escludono tassativamente l’iscrizione all’università, temuta quasi quanto la compagnia umana. Solo punto di riferimento per James, è la nonna Nanette e il cagnolino, Mirò. E così passano le sue giornate d’estate: fra una seduta dalla life coach e un pomeriggio alla galleria d’arte moderna della madre, fino a quando James non capirà quale è la sua strada.


La mia (im)modesta opinione – M’aspettavo un qualcosa di più intellettualoide, non lo nego. Appena ho intuito di una famiglia strampalata, di un giovane fragile ed ebbro di poesia e della sempiterna New York il pensiero m’era corso a I Tenembaum, a Bresson, ai miserabili efebi di Van Sant... mi sbagliavo. Oddio, non che Faenza sia il migliore regista del mondo: ha all’attivo giusto una sequela di filmetti dimenticabili, coronati dal ruffianissimo Alla luce del sole e dal dramma sentimentale I giorni dell’abbandono. Altra nota negativa: avevo letto il libro su cui l’opera è basata. E in effetti il dolore di leggere una ciofeca tale mi è stato utile: non giudicherò più tutti i libri dalla sola copertina.


Eppure il film è migliore del libro. Merito dell’ottimo cast che Faenza mette insieme e di una regia il cui massimo peccato è la troppa scolasticità e l’evidente piattume. Di nuovo, non che il soggetto fosse dei migliori: e in fondo a che servirebbe raccontare una storia che già Salinger aveva raccontato, nel suo Il giovane Holden? Almeno nella pellicola, il personaggio di James non è il nevrotico, piagnucoloso e chiaramente omosessuale represso dei libri. È nevrotico, è piagnucoloso e sì, ha qualche segretuccio dentro l’armadio, ma non riesce tanto irritante quanto il piccolo scavezzacollo snob della pagina.


Toby Regbo fa un lavoro eccellente. È così dentro al personaggio ed è un volto tanto inatteso nel panorama dei bellocci palestrati moderni che non si può non affezionarsi subito a lui. Di certo uno dei visi più interessanti della nuova generazione d'attori. Idem per la sex bomb Deborah Ann Woll, la rossa fatale di True Blood, e Marcia Gay Harden, una che mi dà sempre le migliori soddisfazioni. Il resto del cast è una nota negativa: Lucy Liu ed Ellen Burstyn sono altamente sprecate (specialmente la Burstyn: lei è la vecchietta schizzata di Requiem for a Dream, uno dei ruoli più sconvolgenti di sempre!) mentre Peter Gallagher s’è arenato sulla parte di ultracinquantenne gaudente e lì è rimasto. Ma mi sta simpatico, in qualche maniera.


Sul versante tecnico/artistico niente da segnalare. Tutto spaventosamente in regola. Tutto pare fatto magicamente apposta per far dimenticare il film non appena lo si è visto. Nessuna battuta, nessuna scena. Maluccio per un film che vorrebbe fare tanta e tale filosofia sul male di vivere dei giovani. Un diverso approccio sarebbe stato migliore, anche perché, coi tempi che corrono, la crisi della giovinezza è un tema quanto mai attuale e vivo. Film perdibilissimo, in definitiva. Non perdete tempo a guardarlo: è questa l’epoca in cui dobbiamo guardarci maggiormente dagli esercizi sterili.


Se ti è piaciuto guarda anche... Tout est Parfait (2008) di Yves Christian Fournier è il film ideale, perfetto, bellissimo, toccante. Il grande classico del genere, poi, è Il diavolo, probabilmente (1977) di Robert Bresson, come anche il recentissimo Noi siamo infinito (2012) di Stephen Chbosky. C’è poi il sommo capolavoro Requiem for a Dream (2000) di Darren Aronofsky, insieme al Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant e il Detachment (2011) di Tony Kaye.


Scena cult – Non pervenuta.

Canzone cult – Non pervenuta.

lunedì 20 maggio 2013

IL GRANDE GATSBY (2013), Baz Luhrmann


USA, Australia, 2013
Regia: Baz Luhrmann
Cast: Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire, Joel Edgerton, Isla Fisher, Elizabeth Debicki
Sceneggiatura: BazLuhrmann, Craig Pierce


Trama (im)modesta – New York, 1922. Il giovane Nick Carraway, impiegato in Borsa e aspirante scrittore, affitta una piccola casa nella Long Island dei super ricchi. Proprio il suo vicino, è il più ricco di tutti: un uomo misterioso, che dà grandiose feste senza mai farsi vedere o fare sapere qualcosa di sé. Quest’uomo è Jay Gatsby. Un giorno Nick riceve un invito di Gatsby a partecipare a una delle sue feste: il miliardario vuole fare amicizia con lo squattrinato, ma perché? Il mistero sarà presto risolto, quando cioè Gatsby chiederà a Nick di organizzargli un incontro con sua cugina, Daisy, una donna sposata, amata da Gatsby cinque anni prima…


La mia (im)modesta opinione – C’era una volta Baz Luhrmann, un regista australiano dalla firma incendiaria, che era salito agli onori della cronaca con un’epocale adattamento del mito di Romeo e Giulietta e con un musical, Moulin Rouge!, dalla distruttiva potenza ma con una pericolosa tendenza alla smanceria. Arrivò poi, anni dopo, uno pseudo kolossal, Australia, deludente come pochi altri baracconi nella storia del cinema dell’ultimo quindicennio. E poi c’è Il Grande Gatsby, un film praticamente già scritto, anabolizzato fino al parossismo dall’abnormità di una campagna pubblicitaria quasi ridicola nella sua grandezza: poster e tabelloni hanno invaso tutto, dalla televisione ai muri dei palazzi; una colonna sonora all’anfetamina con tutti i cantanti più alternativi del momento: Lana del Rey, Jay-Z, Beyoncé che covera la Winehouse, Emeli Sandé che covera Beyoncé, Florence + the Machine. Non parliamo poi di Gatsby stesso, con il volto biondo di Leonardo Di Caprio che campeggia su ogni copertina.


Un film che va a colpo sicuro, dunque: sbancati i botteghini, stracolme le sale, frotte di fan adoranti che, appena usciti dal cinema, sciamano sulle librerie per comprare il libro di Fitzgerald (ammesso che ne sappiano pronunciare il nome) e dire di averlo letto e adorato. Il film, in definitiva, com’e? All’altezza della sua prematura leggenda: un tripudio di sfarzo volgarotto e lussi popolareschi congegnati per strabiliare il pubblico ignaro e farlo distrarre dalla chiara grossolanità di inquadrature e scenografie che paiono strappate al più mieloso fra gli spot di profumi francesi. Si consuma così il dramma umano di Jay Gatsby, dietro una fotografia plasticosa, sepolto vivo da una sciagurata slavina di brillocchi firmati Tiffany la cui ostentazione farebbe arrossire il più sciacallo dei pubblicitari.


Fenomeno di costume? No, product placement. Almeno in parte. Già perché, anche con tutti i suoi vezzi elefantini, Il Grande Gatsby riesce a essere un film di una certa consistenza. I tempi non erano propizi per mostrare il vero Gatsby di Fitzgerald (il definitivo crollo del sogno americano, l’insensatezza del nostro destino e via dicendo), così Luhrmann ci delizia con una collaterale analisi sul sogno e ci fa la grazia di un approfondimento psicologico (rudimentale) che almeno evita di trasformare un pilastro della letteratura americana in un banale melò da operetta. Sia chiaro, io Il Grande Gatsby non l’ho mai amato: né come libro, né come film. Ho sempre trovato i suoi personaggi infantili e arroganti, nessuno escluso, e specialmente Jay Gatsby, illustre esempio di fallimento umano e accecamento.


Gatsby è un eroe tragico, sì, ma senza nulla d’eroico. Un Conte di Montecristo monco di vendetta o filosofia, che ha fatto di tutto per l’amore di una donna che l’abbandona al momento più scomodo. Gatsby, è vero, è l’unico individuo della storia fatto puro proprio per la purezza del sogno che lo muove, ma commette il fatale errore di credere di poter incantare colei che ama semplicemente comprandola coi lussi della propria ricchezza e le proprie smancerie senza minimamente preoccuparsi di dimostrarle di essere più degno, ma solo di essere più danaroso. E lo stesso si potrebbe dire di tutti gli altri personaggi: umani, troppo umani. E forse è questo il maggior valore de Il Grande Gatsby, fare vedere gli uomini in tutta la loro sconcertante meschinità, privarli d’ogni eroismo possibile e degradarli con irresistibile amarezza.


Ma, per tornare al film, quella che mi sento di dargli è una mezza promozione e una mezza bocciatura. Promuovo Gatsby per lo spettacolo che imbastisce, per la sfavillante colonna sonora, per le grandi interpretazioni del cast, per la grossezza dell’impianto faraonico. Boccio Gatsby per l’obesità della sua struttura, per la crassa ostentazione d’oro e ricchezza, per la sceneggiatura tagliata col machete, per la stessa messinscena di opulenza da parvenu. Non vi consiglio di guardarlo: non vederlo sarà impossibile, anche perché un film così sta tutto strizzato dentro il trailer. Rimandiamo Luhrmann a Settembre (o almeno il prossimo film): che la successiva pellicola non sia tanto facile  e prevedibile. Un buon suggerimento sarebbe quello di finirla con queste tritissime storie d’amore tragico.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Oltre a Il Grande Gatsby (1974) di Jack Clayton, i veri anni ’20 sono quelli del Chicago (2002) di Rob Marshall e del sognante Midnight in Paris (2011) di Woody Allen. C’è poi il meraviglioso La Vie En Rose (2007) di Oliver Dahan, Cinderella Man (2005) di Ron Howard. Per altre interpretazioni epocali del grande Di Caprio, consigliamo il recentissimo Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino e il bellissimo Romeo e Giulietta (1996) del nostro Baz Luhrmann. Carey Mulligan il suo meglio l’ha dato altrove, invece: Drive (2011) di Nicolas Winding Refn, Shame (2011) di Steve McQueen e il bell’esordio An Education (2009) di Lone Scherfig.


Scena cult – La festa di Gatsby, unica emozione di tutta la pellicola.

Canzone cult – Oltre la gattamortissima (ma non per questo meno stupenda) ballata Young and Beautiful di Lana del Rey, si segnala la validissima Crazy in Love, versione charleston, cantata da Emeli Sandé e l'urlo straziante dell'epica Love is Blindness di Jack White.

domenica 5 maggio 2013

HEMLOCK GROVE, Stagione 1 (2013), Brian McGreevy, Lee Shipman


USA, 2013
Regia: Eli Roth, Deran Sarafian, David Semel, David Straiton, TJ Scott
Cast: Bill Skarsgård, Landon Liboiron, Famke Janssen, Dougray Scott, Nicole Boivin, Kandyse McClure, Freya Tingley, Penelope Mitchell
Sceneggiatura: Brian McGreevy, Lee Shipman, Sheila Callaghan, Mark Verheiden, Daniel Paige, Rafe Judkins, Lauren LeFranc


Trama (im)modesta – Splendeva la luna piena su Hemlock Grove, Pennsylvania, quando una ragazza del liceo locale veniva brutalmente trucidata e squartata da una misteriosa creatura. Ora in città tutti si domandano chi possa essere stato. Ma i sospetti ricadono su due particolari emarginati: uno, Peter Rumanceck, è uno zingaro trasferitosi in città proprio agli inizi degli omicidi; l’altro, Roman Godfrey, è il ricchissimo erede dell’impero biotecnologico Godfrey, e sicuramente non gli mancano strani scheletri da nascondere nell’armadio. Nel frattempo strani fenomeni avvengono in città: Christina, la figlia dello sceriffo, comincia a essere perseguitata da paurosi incubi, la cugina di Roman è incinta di quello che si dice essere un angelo e comincia a indagare sugli omicidi la misteriosa dottoressa Chasseur. Al nuovo plenilunio, un’altra ragazza viene trovata morta: Roman e Peter devono adesso correre per districare tutti i misteri che circondano la famiglia Godfrey, gli omicidi e tutta la città di Hemlock Grove.


La mia (im)modesta opinione – Signori e signore, vi presento la serie dell’anno. Non so esattamente cosa sia, ma il portentoso intruglio di stregoneria, maledizioni di famiglia, body-horror e citazionismo sfrenato è una vera bomba. Dopo un pilot figo ai limiti del possibile, la storia di Hemlock Grove parte a raffica: sì, le atmosfere sono fortemente teen ma le svolte inattese della sceneggiatura e il gusto per l’horror più disturbante fanno della serie tv prodotta nientemeno che da Eli Roth la versione adulta di tutti quei prodotti adolescienzal-horror figliati dall’infame saga di Twilight. Le forze in scena infatti sono le stesse (licantropi in primis) ma l’intrigo raggiunge intricatezza tale e il lato mystery è talmente ben gestito che Hemlock Grove riesce a superare tutti i modelli a cui si ispira e assumere una propria originalità. Punto di forza principale: il crearsi una propria mitologia, dei propri riferimenti interni.


Non illudiamoci, la sceneggiatura non arriva ai livelli di intensità e potenza di altre serie di levatura assai più alta. Non abbiamo davanti le indagini sulla natura umana di Breaking Bad e The Walking Dead; ma piuttosto pare di essere fra le atmosfere raffinate e, per così dire, fini a se stesse di Les Revenants, serie che con Hemlock Grove condivide non poche somiglianze ma con un sovrappiù di sbalorditiva e brutale crudeltà (necrofilia, infanticidio e via dicendo). La prima cosa a cui ci si affezioniamo sono i personaggi, sebbene gli attori non siano certamente a sommi livelli. Bill Skarsgård, il classico”troppo figo per essere vero”, riesce a dare al suo Roman più d’una toccante sfumatura sebbene, come attore, sia alquanto cane; non si può dire lo stesso dell’ottimo Landon Liboiron, vero concentrato di fascino gitano e sensualità lupesca, ma stranamente divertente e sboccato.


Fantastico è poi il contorno: da una Famke Janssen satanicamente sexy (ormai entrata nel novero delle MILF del secolo), all’oscura delicatezza di Freya Tingley, vera visione di gotiche fantasie. Ma la prova migliore di tutte la dà la giovane Nicole Boivin nella parte della quattordicenne affetta da gigantismo, Shelley, che ci fa quasi sentire tutta l’intima pena di una ragazzina intrappolata di un corpo mostruoso e deforme. Poi tutta una pletora di personaggi di contorno che contribuiscono a creare un vero e proprio mito gotico 2.0, rielaborando e rimasticando tutti i possibili rimandi all’horror classico. Fra le scene di Hemlock Grove il cinefilo potrà ritrovare citazioni e rimandi a Il silenzio degli innocenti, La notte dei morti viventi, Inception, i film di Roger Corman e Vincent Price, Frankenstein, Dracula, Alcie nel paese delle meraviglie e moltissimi altri.


La frescura di un impianto nuovo si sente eccome. Hemlock Grove parte alla grande e, sebbene paia instradarsi verso la direzione più trash, riesce persino a ingranare una nuova marcia e arrivare a un finale in cui tutti i nodi vengono al pettine con una maestria che raramente si vede in televisione, specie se mescolata a una così perfetta regia e fotografia. E anche il finale è pressoché perfetto soddisfacendo tutte (o quasi) le domande disseminate  lungo i tredici episodi precedenti ma lasciando aperte le porte per una storia futura, aggiungendo anche delle note di toccante commozione e nostalgia. Abbiamo trovato il Twin Peaks dell’era di Twilight? Forse no, ma con Hemlock Grove ci siamo andati maledettamente vicino. Un cult assoluto.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Assolutamente Voglia di vincere (1985) di Rod Daniel, insieme alle atmosfere metabarocche del Bram Stokers’s Dracula (1992) di Francis Ford Coppola ma le ovattature di dramma teen in stile Final Destination (2000) di James Wong o, appunto, Twin Peaks (1990) di David Lynch e Mark Frost. E se dovessimo pensare al piccolo schermo, vi spiegherei Hemlock Grove come una fusione di American Horror Story (2011-...) di Ryan Murphy e Brad Falchuk e quella bella prima stagione di True Blood (2008) di Alan Ball. P.S. Ma se tante atmosfere ci fanno venire in mente, queste belle puntate di Hemlock Grove, dobbiamo ammettere di avere davanti uno stile assolutamente nuovo di fare dell'horror.


Scena cult – Ovviamente la brutale trasformazione in lupo mannaro di Peter, lo spettacolare sogno di Roman nell’ottava puntata e, ovviamente, il finale in stile Rosemary’s Baby.

Canzone cult – Molte canzoni e molto belle (quasi) tutte. Ma, oltre la sensuosa sigla di Nathan Barr, la vera gemma assoluta e la rarissima e semisconosciuta Mississippi Mud dei Black Blood & the Chocolate Pickles.

mercoledì 1 maggio 2013

LE STREGHE DI SALEM (2012), Rob Zombie


USA, 2012
Regia: Rob Zombie
Cast: Sheri Moon-Zombie, Judy Geeson, Meg Foster, Patricia Quinn
Sceneggiatura: Rob Zombie



Trama (im)modesta – Heidi è la DJ di una stazione radio locale, a Salem, nel Massachusetts, che riceve un giorno un misterioso vinile contenente una musica strana ed ipnotica. Ciò che Heidi non sa è che quella musica che tanto la perseguita e le procura incubi e visioni, è il tramite attraverso il quale gli spiriti delle streghe di Salem vogliono tornare nel mondo, portando con loro l’Anticristo e, cosa più inquietante, è proprio il grembo di Heidi il vettore prescelto per far nascere sulla terra il figlio del Diavolo.


La mia (im)modesta opinione – Amante come sono di Rob Zombie, aspettavo con grande trepidazione questo Le Streghe di Salem, stuzzicato oltre ogni immaginazione da un trailer che prometteva sontuosità senza fine e sommi orrori. Di qui il mio allarmato disappunto nel sentire che il film che tanto mi dava a sperare veniva variamente stroncato nel mondo dei blog e non solo. Decido così di vederlo immediatamente, la situazione lo richiedeva. E, dopo averlo guardato, posso dire che mi trovo in parte concorde con i miei buoni colleghi, in parte discorde. Mi spiego meglio: Le Streghe di Salem è (anche strutturalmente) un film d’exploitation anni ’70 trascinato alla nostra epoca e girato con uno stile più barocco e smaltato. Tutto qui, davvero, dato che la storia della pellicola ha la stessa inconcludenza che avevano i film di Argento e Fulci, condita da una simile visionarietà iperbolica ma, nel nostro caso, con un sovrappiù di raffinatezza e mestiere.


Sorvolando sulle comunque discutibili mancanze di bravura recitativa da parte dei protagonisti, il problema di base del film è la sceneggiatura che prende slancio, pare doversi muovere con maestà ma poi crolla sul finale, s’accascia e langue. Si capisce bene che tutta la vicenda, né spiegata né ben condotta, è una scusa per permettere a Zombie di tirare fuori un videoclip di ars diabolica lungo un’ora e mezza mentre trama e personaggi sono declassati a sgraditi ma nondimeno necessari accessori e giacciono dunque negletti in fondo al film senza che a nessuno importi veramente di loro. Eppure l’incuria in cui giacciono trama e protagonisti è voluta, quasi ricercata; e lo si vede dalla stessa sostanza del film stesso che ricopia fino all’ultimo dettaglio quelle pellicole di serie B che ora trovano in Le streghe di Salem un gemello moderno. Ma se in quelle pellicole la povertà di mezzi e la latenza ai margini del mercato suggerivano brillanti spunti estetici, qui Zombie scoperchia l’intera pletora dell’iconografia horror degli anni passati creando un pastiche di lusso, una vera sistina d’orrori.


E, si sa, cosa non perdonerei io per uno stile tanto iperteso e metamorfico? Le streghe di Salem è una gioia per gli occhi, un’esplorazione (quasi) a tutto tondo nell’iconografia satanista dalle origini medievali fino ai giorni più moderni. Che importa la secondarietà della trama a un film così visivamente spettacolare? Il sabba di Zombie sembra uscito dagli incubi di Goya e Hans Baldung con le sue esagitazioni isteriche e la violenta e dilangante psicosi; la visione finale del diavolo, poi, ambientata fra i pandemonici loggiati del Los Angeles Theatre è una vera apoteosi di bellezza e stortura. Lo stile è puramente superficiale? Poco ci importa, basti pensare alla sconvolgente marea di film la cui profondità è rovinata da un’imperdonabile sciatteria o quelli che vorrebbero essere profondi ma non riescono a cavare un ragno dal buco (qualcuno ha detto Antichrist di Lars von Trier?). Grande film? No, Zombie è molto lontano dal girare il suo opus magnum ma un caposaldo d’estetica horror da guardare, pur con tutti i suoi difetti e magagne.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Non ho troppo apprezzato le escursioni di Rob Zombie nel mondo dei remake, per cui consiglierò in questa sede solo i suoi primi due film: La Casa dei 1000 Corpi (2003) e La Casa del Diavolo (2005). Per un horror in purissimo stile vintage, c’è poi la chicca The House of Devil (2009) di Ti West mentre se si vuole visionare un horror satanico forte almeno quanto Le streghe di Salem, il cult imprescindibile è lo “sporchissimo” Alucarda, la hija de las tinieblas (1977) di Juan L. Moctezuma. Abbiamo poi la perla nipponica Jigoku (1960) di Nobuo Nakagawa e il film amato da Rodriguez e Tarantino: Satanico Pandemonium a.k.a. La novizia indemoniata (1975) di Gilberto Martínez Solares.


Scena cult – Il sabba e il consesso dei demoni nel palazzo rosso.

Canzone cult – Oltre alle All Tomorrow’s Parties e Venus in Furs dei Velvet Underground e al sempre sublime Lacrimosa di Mozart, la disturbante musica delsabba delle streghe.

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