giovedì 27 settembre 2012

HAPPYTHANKYOUMOREPLEASE (2010), Josh Radnor


USA, 2010
Regia: Josh Radnor
Cast: Josh Radnor, Kate Mara, Malin Akerman, Michael Algieri, Zoe Kazan
Sceneggiatura: Josh Radnor


Trama (im)modesta – Le tre storie di un gruppo di amici quasi trentenni si intrecciano a New York. Sam, scrittore freelance, nello stesso giorno incontra quella che potrebbe essere la donna della sua vita, una cameriera di nome Mississippi, e si ritrova sulle spalle un bambino di colore, perso nella metropolitana, che non vuole tornare a casa dei genitori adottivi. Nel frattempo Annie, affetta da alopecia, capisce cosa vuol dire essere amati davvero e la coppia Mary Katherine e Charlie viene messa di fronte alla prospettiva di cambiare vita per sempre.


La mia (im)modesta opinione – Interpretato da Josh Radnor, famoso per la spassosissima sitcom How I Met Your Mother, che in questo caso debutta anche alla regia e alla sceneggiatura, e presentato al Sundance, Happythankyoumoreplease è un film molto particolare. La critica l’ha stroncato ma senza particolare afflato e il film ha finito per passare del tutto inosservato. E la taccia di un anonimato sofferto aleggia su tutta la comunque valida pellicola. La verità è che Happythankyoumoreplease è una commediola indie fondamentalmente mediocre e del tutto innocua che però si salva in calcio d’angolo con le spie d’una promessa di talento futuro (dal punto di vista dello script, sia chiaro).


Chiariamoci, non siamo dalle parti di Xavier Dolan o di Woody Allen (quello bravo delle remote origini): quello che abbiamo davanti è un film carino, forse un poco pretenzioso ma, pur tuttavia, più che amabile. Certe battute qui e lì sono veri scoppi d’arguzia e lo scavo psicologico, anche se tentato, è un po’ confuso, anche se efficace. La vera forza  del film sta tutta nelle interpretazioni di Malin Ackerman su tutti, seguita a ruota da Josh Radnor e poi dagli altri membri del cast. Considerandola come un’opera giovanile di un regista che particolare talento non ha ma che riesce a essere simpatico, nonostante tutto, il film parte così così ma poi diventa sempre migliore, fino a raggiungere un buonissimo grado ma sprecandosi all’ultimissimo, con una scena di canto di gusto opinabile.


Il film soffre anche di storyline deboli, che sono un po’ la versione cinematografica dell’AIDS. Purtroppo, infatti, se la storia di Sam e Rasheen è poetica e toccante e la relazione di Sam con Missisippi è divertente e originale, la storia di Annie è già più blanda anche se incredibilmente efficace nel penetrare dentro la psicologia femminile e recitata alla perfezione da Malin Ackerman, una che dovrebbe avere spazio fra le dive dei drammoni strappalacrime che piacciono tanto ai membri dell’Academy. La storia di Mary Katherine e Charlie è invece una palla infinita, totalmente ingiustificata e, chiaramente, un filler da poter infilare lì a piacere per fare volume dentro una pellicola altrimenti troppo corta.


Un film se non molto debole, almeno molto zoppicante, questo Happythankyoumoreplease che però riesce a farsi amare, in qualche modo. Molto meglio, questo è certo, delle centomila commedie pseudobrillanti che Hollywood sforna di tanto in tanto per tenere impegnati attori (vi dicono qualcosa i nomi Cameron Diaz e Jennifer Lopez?) e soprattutto pubblico pagante – commedie, queste, che hanno gli stessi problemi del film di Radnor ma si mascherano dietro una comicità per palati grossi e una confezione certamente più smagliante. Dunque, guardate Happythankyoumoreplease, almeno per debito intellettuale. Come si dice proprio nel film: «Let’s be people who deserve to be loved, who are worthy. Because we are worthy. We really are».


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente, le commedie indie “classiche”, che vanno viste per forza di cosa sono (500) giorni insieme (2009) di Marc Webb, La mia vita a Garden State (2004) di Zach Braff e Se mi lasci ti cancello (2004) di Michel Gondry. Film simile a questo è il commercialissimo ma comunque guardabile Capodanno a New York (2011) di Garry Marshall mentre qualcosa di più raffinato la si può avere con One Day (2011) di Lone Scherfig.


Scena cult – Irreperibile.

Canzone cult – Nonostante tutto il folk da poco nulla da salvare.

venerdì 21 settembre 2012

DEAR MR. GACY (2010), Svetozar Ristovski


USA, 2010
Regia: Svetozar Ristovski
Cast: Jesse Moss, William Forsythe, Emma Lahana, Andrew Airlie
Sceneggiatura: Kellie Madison


Trama (im)modesta – Jason ha diciott’anni e studia legge. Dovendo consegnare un saggio sui disturbi della psiche e affascinato dal feroce serial killer John Gacy, Jason inizia con lui una corrispondenza fatta di lettere vere e proprie e frequenti telefonate. Per far maggiormente aprire a sé l’assassino, Jason dipinge se stesso come una potenziale vittima: un ragazzo solitario, ingenuo e sognante. Così facendo Jason seduce Gacy da lontano ma la vicinanza dell’assassino comincia a far scricchiolare tutti i rapporti affettivi del ragazzo e, infine, lo conduce a fronteggiare l’inferno della perversione di uno dei peggiori serial killer del mondo. Ed entrare nella mente di un follo può essere più pericoloso di quanto non si creda.


La mia (im)modesta – Jason Moss, personaggio realmente esistito e fedelmente riprodotto all’interno della pellicola, si suicidò il sei luglio del duemila sei: era un brillante studente di legge, uno scrittore affermato (il suo libro The Last Victim aveva portato agli onori della cronaca i suoi rapporti con numerosi serial killer che era riuscito tutti a sedurre proponendosi come potenziale vittima di ogni assassino con cui sia entrato in comunicazione. Inutile dire che il suo subdolo ma innovativo approccio ha guadagnato notevole visibilità all’interno del dibattito psichiatrico. Ci sono malelingue che dicono che il suicidio di Moss sia dovuto in parte a questa sua attitudine predatoria; che aveva finito per trascinarselo dietro. Aprire una finestra sul baratro della follia di personaggi come Richard Ramirez, Henry Lee Lucas, Jeffrey Dahamer  e, sopra tutti gli altri, John Wayne Gacy non può che causare notevoli vertigini.


Dear Mr. Gacy è un film che parte in sordina: il climax di tensione è incredibilmente crescente, invisibile per tutto il film. La pellicola prende avvio con una situazione affascinante ma girata con poca grazia registica, ma la storia prosegue e man mano che Jason prosegue nella sua discesa nelle contorte grotte della mente di Gacy la tensione diventa sempre più palpabile. Prima pare tensione da due soldi, da filmetto miserabile e spettacoloso; poi, lo sboccio con la scena della prigione: quindici minuti da affondare le unghie sul tavolo. Dialoghi serranti, interpretazioni arroventate, fotografia smorta e crudele. E questo non sarebbe stato possibile senza la bella sceneggiatura di Kellie Madison che con qualche semplificazione e piroetta di troppo riesce a delineare un crescendo rossiniano di disagio e timore, fino al risolutivo finale.


Interessantissima è la relazione che Gacy e Moss stringono. All’inizio si trattava di uno scaltro ragazzo che tentava di sedurre un vecchio satiro; alla fine vediamo una relazione di odiamore, una sorta di anti-storia d’amore in cui due menti pericolosamente instabili cominciano un selvaggio paso doble in cui non si è capaci di fermarsi. Gacy tratta Jason con il calore di un innamorato ma poi lo bersaglia di una ferocia diabolica; Jason sperimenta il traballare della propria personalità ma finisce per considerare Gacy una priorità, un idolo da servire, un amante da soddisfare. Questa relazione pseudo-amorosa è ben sottolineata dal regista, e con sottigliezza. Le litigate fra il ragazzo e il serial killer paiono bisticci fra fidanzati conditi con una passione ben più cruenta e dolori più occulti e brucianti. Alla fine pare addirittura che quella di Gacy sia una maniera come un’altra (in questo caso molto più violenta) di elaborare il proprio affetto: dominando, cercando l’ebbrezza che proviene dal terrore di chi ci sta di fronte.


Il John Gacy di William Forshythe è un villain da antologia. Diabolico quasi quanto il ben più famoso Dottor Lecter di Anthony Hopkins; capace di far emergere dal suo sguardo la cupidigia di uno squalo che gira intorno alla preda, la furia di un leone che addenta la preda. Vedendo il film dal punto di vista di Jason Moss, si ha come che John Gacy passi, attraverso la durata del film, da semplice eminenza della cronaca nera ad archetipo dell’arcidiavolo, compiuto trionfo del Male in terra. La recitazione di Forsythe è sublime, sebbene dia a John Gacy quell’accento di mafiosa sprezzatura che è chiaro non possedesse e il fascino d’una freddezza pericolosa quanto maliosa, e gustosamente romanzesca: l’archetipo, come dicevo, è quello dello psicopatico dai modi sublimi e feroci insieme.


Bella prova quella di Jess Moss; un po’ troppo sopra le righe, forse, un po’ enfatica, colorita e pregiudicata da evoluzioni del personaggio che sarebbero state migliori se maggiormente moderate.  Quello di Jason Moss è un personaggio interessantissimo, originale come pochi: un ragazzo dalla mente singolarmente penetrante che è stato capace di arrivare dove la psichiatria criminale del proprio tempo non era arrivata e che ha finito per svegliare un cane di troppo, che dormiva, forse sognava... Jess Moss forse non era all’altezza del suo personaggio ma fa un bel lavoro in ogni caso; capace almeno di trasmettere la tensione mentale che attraversa la mente del personaggio che interpreta. Cosa più inquietante di tutte, naturalmente, è la veridicità di questa storia, il suo essere davvero esistita e avvenuta. E aver portato ai risultati a cui ha portato. Jason Moss stesso definì se stesso l’ultima vittima di John Gacy, dopo essere stato sconvolto durante l’unico incontro in carne e ossa che si ebbe fra i due.


Dear Mr. Gacy, dunque, è un ottimo thriller indipendente; assai efficace, forte nelle sue rappresentazioni; sebbene difettoso nella sua parte puramente più visiva, in cui si denunciano due o tre balbuzie di stile che avrebbero fatto meglio a non esserci. La sottigliezza nascosta della pellicola, la profondità che riescono a dargli interpretazioni appassionate, script banrillante e regia tutto sommato solida e sicura riabilitano questa pellicola e arrivano a renderla una visione che riterrei addirittura imprescindibile per chi ama il genere: una chicca così, infatti, potrebbe benissimo essere Il Silenzio degli Innocenti della storia minore del cinema, il Manhunter del cinema indipendente, il Seven del cinema impopolare (impopolare nell’accezione più lata: im-popolare, cioè non popolare, non famoso, non plebeo).


Se ti è piaciuto guarda anche... – Naturalmente non può mancare la tripletta Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, Manhunter (1986) di Michael Mann e il meraviglioso Seven (1995) di David Fincher. Altri importanti titoli sono Monster (2003) di Patty Jenkins, Summer of Sam (1999) di Spike Lee, lo spettacolare The Cell (2000) di Tarsem Singh, Insomnia (2002) di Christopher Nolan. Fra i consigli personali abbiamo l’imperfetto ma denso denso Mr. Brooks (2007) di Bruce A. Evans, l’ormai classico Schegge di Paura (1996) di Gregory Hoblit, The Ugly (1997) di Scott Reynolds e Cold Light of Day (1989) di Fhiona-Louise, film sul serial killer Dennis Nilsen.


Scena cult – L’incontro fra Gacy e Jason. Il terrore è palpabile.

Canzone cult – Non pervenuta. 

lunedì 17 settembre 2012

BRICK (2005), Rian Johnson


USA, 2005
Regia: Rian Johnson
Cast: Joseph Gordon-Levitt, Nora Zehetner, Lukas Haas, Noah Fleiss, Matt O'Leary, Noah Segan
Sceneggiatura: Rian Johnson


Trama (im)modesta – Brendan è un liceale outsider che ha avuto qualche non meglio precisato problema con la giustizia. Un giorno Emily, la sua ex-ragazza, gli telefona terrorrizzata, parlando di un panetto scomparso, di un certo Frisco e paventando la minaccia di un oscuro figuro chiamato The Pin. Quando la ragazza viene ritrovata cadavere, Brendan inizia un’indagine personale all’interno della malavita cittadina alla ricerca dei colpevoli. Le sue ricerche lo porteranno a incontrarsi (o, piuttosto, a cozzare) con una misteriosa dark lady, uno spacciatore in guerra e con il suo braccio destro, non sprovvisto di scheletri nell’armadio.


La mia (im)modesta opinione – Lo dico così, in due parole: Brick è un film fighissimo. Ma proprio fighissimo. Girato in venti giorni, la sua trama pare quella di un hard-boiled che si è incontrato con Gregg Araki e Gus Van Sant. Il regista, infatti, (un vero virtuoso, questo Rian Johnson) folgorato dal Miller’s Crossing, o Crocevia della Morte che dir si voglia, dei fratelli Coen, ha riesumato gli antichi romanzi di Dashiell Hammett e, ripensando ai film noir della sua infanzia, ha scritto la sceneggiatura di questo sanguinoso intrigo metropolitano scoprendo che tutti gli archetipi del genere andavano stranamente al loro posto all’interno della biosfera del liceo californiano.


L’esordio di Johnson a scrittura e regia non poteva, insomma, essere migliore. La storia è goduriosa come solo un romanzo criminale sa essere; il cast è da cult con Joseph Gordon-Levitt ai tempi appena ventitreenne, i maliardi occhioni di Nora Zehetner, quella stessa Nora Zehetner che amai in Heroes, il santone di nicchia Lukas Haas in un ruolo a dir poco vampiresco; le musiche da classico anni ’30, che oscillano fra l'altolocato lounge bar e la scatenata jam session, ma reinventate ad arte per l’occasione; il gigantesco understatement che il film stesso costituisce – e dico understatement riferendomi all’altissima qualità della pellicola (che trionfò al Sundance di quell’anno) comparata al budget ristretto, per quanto dignitoso, con cui è stata prodotta e girata e allo scarsissimo tempo di produzione.


Joseph Gordon-Levitt è la stella assoluta della pellicola. Magrolino, nascosto dietro quegli occhialetti da nerd e con fronte e occhi coperti dai capelli malandati, conduce indagini spietate, è astuto come la fame, mena botte da orbi, si fa bastonare come un cane e incastra spacciatori armati fino ai denti in una delle parti più badass che abbia mai visto. Ma c’è anche di più: non solo Brick è un singolare prodotto di incroci culturali diversi (a detta del regista: le commedie di Billy Wilder, i romanzi di Hammett e Sergio Leone) ma è capace anche di scavare dentro l’animo del protagonista per insaporire con (poca) introspezione le motivazioni e le ragioni di un detective così tosto e inaudito.


Il prodotto confezionato da Johnson è, in pratica, una piccola gemma del cinema thriller indipendente, un animale da festival. Preziosamente inquadrato (la scena finale, il discorso fra Brendan e Laura, richiama chiaramente i noir “classici”), interpretato a muso duro, fotografato con perfezione estrema, Brick è un western metropolitano da fare invidia a tutte le produzioni spettacolareggianti e spaccone del cinema delle major, una granata che dimostra che con un gran cast, una regia appassionata e uno script d’acciaio (seppur alquanto complicato) si possono regalare impennate ben notevoli. Assolutamente da non perdere.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Innanzitutto l’imperativo è di riscoprire questo relativamente giovane regista e autore. Sua è la bella commedia The Brothers Bloom (2008) e sempre suo è il promettente sci-fi Loopers (2012), in uscita alla fine di Settembre in America, sempre con Joseph Gordon-Levitt nei panni di un cronocriminale. Per film simili a questo citiamo la luminosa gemma Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant, l’allucinato Mysterious Skin (2004) di Gregg Araki, gli stracult Le Iene (1992) e Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, lo stupendo Drive (2011) di Nicolas Winding Refn e Non è un paese per vecchi (2007) di Ethan Coen e Joel Coen.


Scena cult – La patinatissima festa in casa di Laura/Nora Zehetner con recita di versi dall’operetta comica The Mikado.

Canzone cult – Due su tutte: il brano cantarecitato, di nome TheSun Whose Rays Are All Ablaze, da Nora Zehetner, provienente dall’operetta The Mikado di Gilbert e Sullivan e la Sister Ray dei Velvet Underground.

domenica 16 settembre 2012

THE STRANGERS (2008), Bryan Bertino


USA, 2008
Regia: Bryan Bertino
Cast: Liv Tyler, Scott Speedman, Kip Weeks, Gemma Ward, Laura Margolis
Sceneggiatura: Bryan Bertino


Trama (im)modesta – James e Kristen sono una coppia in crisi (lui le ha chiesto di sposarlo ma lei ha detto di no) che, dopo un matrimonio, vanno a dormire nella casa in campagna dei di lui genitori. La tensione fra i due è palpabile, ma non fa che aumentare quando alla porta bussa una ragazza alla ricerca di una certa Tamara, che ovviamente non abita lì. Mentre James è fuori a comprare un pacco di sigarette la ragazza ricomincia a bussare e Kristen è sempre più spaventata: ora alla sua porta ci sono ben tre individui, mascherati, che tentano in ogni maniera di entrare in casa. Al ritorno di James i tre paiono scomparsi, ma ben presto ricominceranno a insistere. Inizierà un crudele gioco del gatto col topo che si scioglierà in tragedia.


La mia (im)modesta opinione – Innocuo horroruccio, questo The Strangers, senza particolare infamia e con la buona lode di regalare qualche momento di tensione palpabile. Scritto ripensando a un episodio dell’infanzia (una ragazza era venuta a bussare nel cuore della notte a casa dell’autore/regista chiedendo di una persona che non c’era: era una ladra. Il giorno dopo si scoprì di un’irruzione nella casa dei vicini) mescolato con le suggestioni omicide della famiglia Manson e dell’infame massacro di Keddie, avvenuto nel 1981 e ancora irrisolto, che ha visto la morte di una madre, del di lei figlio maggiore e della sua fidanzatina, The Strangers è un thriller da manuale; uno di quei film che s’infila a pennello nello standard del genere senza andarne al di sotto ma nemmeno senza volarci sopra, spinto da chissà che originalità.


La storiella è notoria: la notte fonda, la casa isolata, lo sparuto gruppo di persone (in questo caso una coppia, ma sappiamo bene dalle nostre esperienze in slasher movies che i membri possono essere intercambiati a capriccio), gli assassini, in numero variabile. Interessanti sono certi dettagli che Bertino inserisce qui e lì: il brusco passaggio dalla notte, fonte di paure antiche e grandi spaventi, al giorno, scena della violenza più razionale, sadica, “ordinata” se così si può dire; le inquietanti maschere dei tre assassini; i momenti di puro spavento in cui gli aguzzini di James e Kristen si aggirano per la casa in perfetto silenzio. Insomma, il risultato è un film thriller/horror che riscuote il suo pegno di brividi ma che, alla fin fine, è piuttosto dimenticabile, non essendo diverso da un marasma di suoi simili di cui, al massimo, potrebbe rappresentare il paradigma, la stilizzazione estrema, svuotata dalle contingenze e tratteggiata a grandi linee, ispirandosi ai "classici" del passato.


Quanto all’apparato tecnico il film non fallisce. Buona è la fotografia, giuste le musiche, i dialoghi (sebbene la trama sia un po' esilina) e la tensione. Un po’ così sono gli attori che, fra tre figuri mascherati e muti, una Liv Tyler comunque sopra la media e uno Scott Speedman insapore, condiscono poco la già poco esaltante pellicola. Tutto in questo film, insomma, odora e sa di decenza, di compitino lindo e agghindato, fatto con più mestiere che arte. Certo, considerando che è l’esordio insieme dello sceneggiatore e del regista, e che questi due sono la stessa persona, diremo che The Strangers è la bella promessa che starà a Bryan Bertino mantenere. Vedremo come andrà a finire l’anno prossimo, in cui uscirà il secondo film da lui diretto: Mockingbird, attualmente in post-produzione.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Di slasher domestici interessanti il cinema è pieno. Iniziamo dall’assai mirabile Mother’s Day (2010) di Darren Lynn Bousman, che trova la sua forza nella trama densissima e nell’escalation cruenta a cui i protagonisti sono sottoposti. Più avanti troviamo il mattatoio francese À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury, horror sopraffino dove invece la violenza si risolve in una sorta di maratona di sgozzamenti, amputazioni e sevizie varie ai danni di una povera fotografa incinta e del suo parentado. Andando alla ricerca di qualcosa di più intellettuale abbiamo Funny Games U.S. (2007) di Michael Haneke, dove la violenza sfonda letteralmente lo schermo e si fa motrice di metateatralizzazione estrema. Altri buoni esempi di horror di questo tipo sono Le colline hanno gli occhi (2006) di Alexandre Aja, il remake del grandissimo Non aprite quella porta (2003) di Marcus Nispel e il valido Wolf Creek (2005) di Greg Mclean, senza dimenticare, of course, il grande classico di nicchia The Slumber Party Massacre (1982) di Amy Holden Jones.


Scena cult – L’uomo incappucciato che gira per casa, senza accorgersi di Kristen nascosta nell’armadio. Ottimo momento di tensione.

Canzone cult – L’inquietante Sprout And the Bean di Joanna Newsom.

venerdì 14 settembre 2012

DONNE-MOI LA MAIN (2008), Pascal-Alex Vincent


Francia, 2008
Regia: Pascal-Alex Vincent
Cast: Alexandre Carril, Victor Carril, Anaïs Demoustier, Samir Harrag
Sceneggiatura: Pascal-Alex Vincent, Olivier Nicklaus, Martin Drouot


Trama (im)modesta – Antoine e Quentin, due gemelli, si stanno recando in Spagna per assistere al funerale della madre che non hanno mai conosciuto, all’insaputa del padre. Completamente squattrinati, i due scroccano passaggi a camion, saltano sui treni merci, fanno l’autostop oppure camminano a piedi. Nel corso del loro tragitto incontrano svariate persone: ragazze (e un ragazzo) con cui vanno a letto, famiglie, stranieri sognatori. Il viaggio, però, e l’indole litigiosa dei due li separano fino a quando Antoine, dopo quella che pare una definitiva rottura, non capisce di aver bisogno del fratello, se non come figura fraterna almeno come polo conflittuale.


La mia (im)modesta opinione – Film scivoloso, questo Donne-Moi la Main. Film per soli esperti. Vederlo significa camminare su ghiaccio sottile, rischiare di affondare nella trappola di un radical-chic subdolo e pressoché invisibile. Un radical-chic fatto di silenzi e sguardi, musica minimale, sceneggiatura ridotta all’osso e situazioni strappate a forza da film d’autore americani, quelli di Gus Van Sant in primis, fino allo Zabriskie Point di Antonioni. E radical-chic è l’approccio nouvellevaguista alla storia, l’insistenza sul realismo e la mescolanza di suoni naturali e musica minimale. Si può dire, in definitiva, che Donne-Moi la Main è un film di forte maniera; ben fatto, senza dubbio, ma troppo modaiolo, troppo lanciato incontro ai gusti dei cinefili duri e puri. Un po’ come quel meretricio cinematografico che sono le tre ore di Les Amants Reguliers di Philippe Garrel.


Ho detto che, dopo tutto, il film è valido sotto certi aspetti. Il primo è certamente la straordinaria accoppiata dei gemelli Carril. Due attori capacissimi, molto superiori alle aspettative di chi li vede sul poster del film (sì, lo ammetto, giudico i libri dalla copertina e i film dalla locandina) dove paiono più due belle facce per narrare questa storiella da niente, condita alla buona con suppostamente profondi simbolismi e condita qui e lì con exploit sessuali che si vorrebbero artistici ma che al massimo paiono inappropriati e perfettamente evitabili. Altro punto a favore del film è la bella cinematografia: tanta luce e aria fresca, colori genuini e la natura a far da terzo protagonista. Ma nemmeno questa e nemmeno i simboli riescono a tutorare il magro scheletro di uno script inefficace e quasi fastidioso con quei mille silenzi pseudo-artistici. Lo ammetto qualche brivido lo fanno correre lungo la schiena gli sguardi verdi di Alexandre Carril, il più capace dei due fratelli (senza nulla togliere al secondo gemello), che perforano letteralmente lo schermo.


Impegnato com’è a orchestrare chissà quale poetica dell’insulso e a farcire di sottesi filosofico/simbolici tutta la sua narrazione, il regista/autore si dimentica di rendere la propria storia coesa, interessante, di fornire appigli al fruitore, di tracciare anche una remota larva di psicologia nei suoi personaggi che vengono fatti agire senza particolare (o intuibile) criterio, sebbene le due figure dei gemelli in conflitto siano ben interessanti e incarnate con forza dai due Carril. Con un accostolata tanto esile, è ovvio che curatissima cinematografia, belle musiche e valide performances attoriali finiscano per precipitare nell’unanime fondo di noia che pervade la pellicola; che, invece di commuovere con la sua bellezza, finisce per innervosire con la sua supponenza e arroganza, mascherata da semplicità bucolica e minimale raffinatezza. Insomma, io vi ho avvertito. Se cercate la bellezza in francese, la nuova patria sono le Fiandre e il Canada. La Francia è stanca. Passo e chiudo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Paragone scontato: My OwnPrivate Idaho (1991) di Gus Van Sant. Altri interessanti road movies sono Into the Wild (2007) di Sean Penn, il cult personale Il treno per il Darjeeling (2007) di Wes Anderson, che, per altro, tocca anche in maniera molto pungente il tema dell’amore fraterno; il must-have-seen del cinema indie, ovvero Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, il tarantiniano sconfessato Assassini nati (1994) di Oliver Stone e il grottesco Rat Race (2001) di Jerry Zucker.


Scena cult – Non pervenuta.

Canzone cult – La stupenda Melocoton di Colette Magny.

giovedì 13 settembre 2012

AN AMERICAN CRIME (2007), Tommy O'Haver


USA, 2007
Regia: Tommy O'Haver
Cast: Catherine Keener, Ellen Page, Ari Graynor, Evan Peters, James Franco, Romy Rosemont
Sceneggiatura: Tommy O'Haver, Irene Turner


Trama (im)modesta – La nostra scena sta in Indianapolis, Indiana. È l’estate del 1965 quando Betty e Lester Likens affidano le loro due figlie, Sylvia e Jennie, a Gertrude Baniszewski, madre di sei figli, single e con gravi problemi di portafoglio prima e di mente poi. Arrivata da poche settimane in casa Baniszewski, Sylvia viene a conoscenza della gravidanza di Paula, figlia maggiore di Gertrude. Quando il pettegolezzo sulla gravidanza della ragazza di sparge in città, Paula denuncia Sylvia come delatrice e afferma che le sue sono solo calunnie. Nel frattempo Gertude sprofonda nella depressione e pericola sull’orlo della povertà; così, delusa da un giovane amante che le strappa solo denaro, furiosa per il denaro dei genitori di Sylvia che tarda ad arrivare, con la testa nascosta da una nuvola di antidepressivi e psicofarmaci, sfoga la sua rabbia su Sylvia: colpevole supposta delle voci che girano sulla sua primogenita e del suo stato di semi-miseria. Le punizioni corporali si fanno sempre più brutali fino a culminare con la segregazione di Sylvia nella cantina di casa e nella sua morte, causata dalle perpetue percosse, dalla disidratazione e da numerosi traumi.


La mia (im)modesta opinione – Definito “il più turpe crimine mai perpetrato nello stato dell’Indiana”, il massacro di Sylvia Likens fu un vero capolavoro di sevizie e crudeltà umana. La sedicenne venne ripetutamente umiliata, segregata, picchiata a sangue, torturata con acqua bollente, denutrita, fu costretta a mangiare le sue stesse feci, venne stuprata con una bottiglia di Coca-Cola che le danneggiò per sempre l’apparato genitale e le furono marchiate a fuoco sull’addome svariate frasi ingiuriose. Sylvia morì in seguito di emorragia cerebrale, shock e denutrizione. Ciò che morde maggiormente lo stomaco, però, è sapere che Gertude Baniszewski non fu l’unica aguzzina della ragazza sedicenne: a unirsi alle torture furono anche le sorelle “adottive”, vicini di casa, amici di scuola, fidanzatini delle figlie della Baniszewski, che, dopo quell’episodio, ricevette il tetro soprannome di “Madre Tortura”. Cosa scatenò tanta abiezione? Cosa trasformò un tranquillo sobborgo di Indianapolis in una remota colonia di Auschwitz?


La sventurata figura di Sylvia Likens ha fatto accapponare la pelle a una buona metà del mondo ed è andata a ingrossare le fila delle Kitty Genovese, dei Matthew Sheperd e delle Dalie Nere, vittime di insensata e animalesca ferocia per non si sa che motivo. Due film sono stati prodotti su questa storia: The Girl Next Door e An American Crime. Due film che osservano la complicata questione del massacro di una ragazzina innocente da due diversi buchi della serratura. Se The Girl Next Door si sprecava tutto in un fosco grand-guignol, abbellendo romanzescamente le vicende di casa Baniszewski con dettagli chiarificatori (il sadismo e la crudeltà sono semplicemente esposti ma non spiegati, la storia non segue un filo logico preciso); An American Crime sceglie un approccio affatto sensazionalistico, versato allo scavo psicologico, alle dinamiche fra i personaggi dove violenze e crudeltà sono solo dette ma raramente viste.


Entrambi i film falliscono. Non clamorosamente ma falliscono. The Girl Next Door era solo un teatrino da due soldi, recitato senza troppo afflato e scritto più per disturbare che per denunciare, ma che restituiva bene l’atmosfera di morbosità e perversione che si odorava in casa di Madre Tortura. An American Crime, invece, cade nell’eccesso opposto: recitato divinamente (ma le psicologie non sono delineate a dovere), scritto con una giusta miscela di accuratezza di cronaca e arte narrativa, sobrio e dotato di un cast di personali stelle (la Page, la Keener, James Franco e Evan Peters) ma totalmente incapace di coinvolgere o di far assaggiare anche solo una punta del disgusto che i crimini ispirano. Insomma la violenza non deve essere gratuita, ma una storia truce come quella di Sylvia Likens richiedeva quantomeno una vaga traccia di violenza, se non grafica almeno psicologica.


La pellicola risulta solidamente scritta ma inguaribilmente fredda, non si percepisce ferocia, crudeltà – ferocia e crudeltà che già dalla foto identificativa di Gertude Baniszewski esondano come fiumi in piena. E queste sensazioni, suppongo di capisca bene, possono essere evocate tramite la giusta scenografia, il giusto trucco e un paio di inquadrature orchestrate ad arte. Insomma, non è particolarmente difficile per un qualsiasi mestierante. Ricordiamo tutti benissimo il primo, valido Saw dove metà del disgusto era fornito dalle lerce piastrelle del bagno e dalla sporcizia dei macchinari dell’assassino o la scena della segregazione nel brividoso Dread, dove bastava un poco di sporco in volto e capelli incrostati di lordura per suggerire brutalità senza fine. In An American Crime non proviamo ripugnanza, forse non si capisce nemmeno cosa stia succedendo e, se non si fosse al corrente della storia vera, non si arguirebbe neppure il motivo della morte della Likens.


Tutt’al più la cosa che fa più ribrezzo sullo schermo è il look di Evan Peters, allora appena ventenne, spaventosamente grasso e brutto, totalmente distante dall’ibrido fra Kurt Cobain e Dylan Klebold che ci ha tanto sedotto in American Horror Story. Giusto Ellen Page e James Franco (che è scandalosamente poco presente) ci rinfrancano un poco; e Catherine Keener, solitamente ridotta a comprimaria, si gode la sua luce di riflettori, ma forse non è molto capace di gestire una parte del genere. Un film, in definitiva, assai evitabile mascherato da film d’autore. Molto più raffinato e superbo è il dramma legale All Good Things che con finezza e orrore ci mette davanti un caso di cronaca di risonanza ben inferiore ma certamente meglio sfruttato, artisticamente parlando. Un film sulla crudeltà come manca di crudeltà. Peccato, quella di Sylvia Likens è materiale davvero incandescente e avrebbe potuto essere trattato con il triplo della perizia e della bravura.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Sulla cronaca nera americana i film abbondando: andiamo dal gustoso ma, in ultimo, abbastanza fiacco The Black Dahlia (2006) di Brian De Palma, al validissimo Alpha Dog (2006) di Nick Cassavetes. Risalendo poi la corrente perveniamo al capolavoro Elephant (2003) di Gus Van Sant, allo stupendo Monster (2003) di Patty Jenkins, a Zodiac (2007) di David Fincher, Lonely Hearts (2006) di Todd Robinson, Snowtown (2011) di Justin Kurzel e Dear Mr. Gacy (2010) di Svetozar Ristovski.


Scena cult – Ahimè, nessuna

Canzone cult – Qualche pezzo anni ’60. Nulla di rimarchevole.

mercoledì 12 settembre 2012

BODY WITHOUT SOUL (1995), Wictor Grodecki


Repubblica Ceca, 1995
Regia: Wictor Grodecki
Cast: Pavel Rousek, Vaclav Cernogursky, Pavel Petroci, Martin Maca, David, Marek, David, Matthew, Sawannah, Ota, Jarda, Pavel, Thomas
Sceneggiatura: Wictor Grodecki


Trama (im)modesta – Il film è un documentario che contiene interviste a svariati hustlers (il termine gigolò è decisamente troppo frou-frou) di Praga e a Pavel Rousek, pornografo che usa gli stessi per i suoi film. Articolato in tre sezioni (sommariamente divise), il film parla all’inizio del background di questi ragazzi, nel suo mezzo del sottobosco pornografico illegale (nessuno fra gli intervistati supera i diciott’anni) con un grande approfondimento della figura del pornografo Rousek e della sua doppia vita: regista di porno la notte e anatomopatologo alla luce del giorno (e si vede pure un’autopsia, terrificante) e, alla fine, nella parte forse più melensa del film ma anche la più coinvolgente, si tratta del tema dei ragazzi con la morte, esposti come sono a malattie e rischi di ogni tipo.


La mia (im)modesta opinione – Come recensire un documentario? È uno strano problema, invero, specialmente se la recensione parla di un film come questo. Innanzitutto va detto che Body Without Soul è il secondo quadro del trittico sulla prostituzione minorile a Praga di Godrecki: prima di lui c’era No Angels But Angels, dopo di lui il film neorealista Mandragora. Un secondo, più inquietante problema è rappresentato dal mix di realtà è finzione. Il film ci viene descritto come documentario: ma siamo proprio certi che nulla sia artefatto? L’underworld della prostituzione di Praga, così come ce lo descrive Godrecki, è qualcosa di semplicemente pauroso, un vero inferno in terra – un inferno popolato da angeli. Angeli sì, forse anche santi, martiri e, al contempo, demoni tremendi. Ammesso e non concesso che tutti i ragazzi intervistati siano veri hustlers (ma lo sono, mi piace credere che il regista sia stato sincero), a sedici anni conoscono la vita più di qualunque altro uomo. Sono creature confuse, fragili sì, ma hanno ancora il coraggio di abbozzare un sorriso, provare amore, patire dolore.


Perché dubitare del fatto che il film sia un documentario? Non che se ne dica il contrario. C’è una bellezza nella caratterizzazione dei personaggi, una finezza che pare miracolosa per un film sul reale. Mi piace ricordare la recentissima intervista a Steven Soderbergh, che ha appena diretto il film Magic Mike, con Channing Tatum e basato sulla vera esperienza dello stesso, che ha affermato che, scrivendolo, c’era stato il bisogno di modificare le vere esperienze perché, mettendole sullo schermo, il pubblico le avrebbe giudicate improbabili. È quasi entusiasmante riflettere su questo trascolorare dell’arte con la vita e viceversa. L’arte è sempre verosimile, in un modo o nell’altro; è la vita a essere inverosimile. I ragazzi che vediamo nel film sono esseri umani preziosi, che si finisce per compatire; li si vorrebbe abbracciare, confortare, aiutare addirittura. Perfino la figura del pornografo Rousek è complessissima: un orco che reprime la sua stessa umanità per poter campare, un fallito, un attorucolo scalcinato che balbetta la sua parte nel teatrino della vita sperando in un vago sogno d'artista. Un essere di figura tremenda: occhi pesti cerchiati di un inverosimile nero, una chiostra di denti marci, pupille lacrimose...


I ragazzi, poi. Tutti i ragazzi. Degli angeli maledetti, forse; innocenti più di tutti, perché hanno dato fondo al peccato. Poveri caini, orfani, diseredati. Non esenti anche loro dalla depravazione che contamina la stessa aria che respirano, certo (raggelante è il prostituto Matthew che dice di gustarsi alquanto il sesso con ragazzini prepubescenti). Portavoce di chissà quanti battaglioni di loro coetanei e consimili che vagano per le strade, si disperano per un poco di denaro. Corpi senz’anima, appunto. E l’argomento è toccato proprio nel film dove i ragazzi stessi parlano di sé: uno teme la morte, uno l’ama; uno, bellissimo, dice di odiare il suo corpo (il disprezzo dell’omicida per il pugnale?), uno dice di essere solo un sacco di carne e ossa; uno racconta le proprie speranze di una vita normale e semplice, l’altro proclama il crollo di ogni futura speranza. Angeli sì, e ancora. Sono passati più di sedici anni dalle interviste di questo film: chi di loro è vivo? Qualcuno ce l’ha fatta, forse?


Di queste ambiguità il regista è ben consapevole. È consapevole del fatto che la sventura che perseguita questi poveri ragazzi rasenta l’artificioso; è consapevole del fatto che il mondo che descrive è tanto abietto da parere grottesco, forse quasi ridicolo; ma si giustifica, genialmente, con l’epigrafe di Susan Sonlag che inaugura il film: «Tutte le forme di arte seria e di conoscenza – in altre parole, tutte le forme della verità – sono sospette e pericolose». La verità è sospetta. Il vero non è verosimile. Questo film è stato tacciato di essere un film d’autore mascherato da documentario. Ci condiamo anche qui il beneficio del dubbio: le musiche sacre, l’eleganza delle inquadratura, perfino la concisa profondità, quasi aforistica, con cui i ragazzi rispondono a delle domande; tutto pare finto, simulato. La verità sembra sospetta e pericolosa. Ma poi si guarda in volto i ragazzi e si capisce che non sono loro a recitare ma siamo noi a fingere, fingere di non credere a questo mondo sotterraneo così infernale e disgustoso.


Girato con la massima eleganza stilistica, sorretto da un’arte sottile, Body Without Soul è uno dei documentari più scioccanti, commoventi e perturbanti che vi potrebbe mai capitare di vedere. Con questo suo affresco di un mondo tanto dannato, dove anche le supposte vittime sono carnefici e dove, dietro il male, possono nascondersi i sorrisi più sinceri, gli sguardi più luminosi e le fitte più dolorose. Questo film, come già da me argomentato, è un enigma, è vero – un enigma che andrebbe risolto, ma a nostre spese. Potreste trovarlo sensazionalistico, è vero, ma chi dice questo semplicemente non è capace di cogliere l’esatta natura dell’operazione che Godrecki mette in atto: il suo ritratto è impietoso? La vita di questi ragazzi lo è. Il suo mondo è tremendo? Quel mondo lo è davvero. La verità, rammentiamolo, può essere sospetta e pericolosa. Ustionante, sì, orrenda, efferata, commovente; ma, sopra ogni altra cosa, sospetta e pericolosa.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente i fratelli di Body Without Soul, ovvero Not Angels But Angels (1994) e Mandragora (1997) sempre di Wictor Godrecki. Film di culto sulla figura dell’hustler di strada è ovviamente Flesh (1968) di Paul Morrissey, prodotto dal grandissimo Andy Warhol. Altro importante (e rarissimo) documentario è lo Street Kids (1985) di Peg Campbell, mentre eccellenti lavori di fiction sul tema sono Mysterious Skin (2004) di Gregg Araki, l’abbastanza sconvolgente L.I.E. (2001) di Michael Cuesta e le gemme My Own Private Idaho (1991) e Mala Noche (1986), entrambi di Gus Van Sant. Film più scanzonati ma, spesso, anche più intelligenti e acuti sono anche Strapped (2010) di Joseph Graham e Boy Culture (2006) di Q. Allan Brocka.


Scena cult – La scena più geniale: intervista doppia al pornografo Pavel Rousek: una, di giorno, mentre disseziona un cadavere (ed è una delle cose più splatter che abbia mai visto); una, di notte, mentre gira un film a luci rosse. Pornografia, macelleria, dissezione di gente morta (fisica o morale che sia), quello che capiamo è che la differenza non è poi tanta.

Canzone cult – Musica classica a palla. Due su tutte: l’atro Kyrie Eleison di Mozart e l’angelico Miserere di Gregorio Allegri.

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