venerdì 29 giugno 2012

EXIT HUMANITY (2011), John Geddes


Canada, 2011
Regia: John Geddes
Cast: Mark Gibson, Jordan Hayes, Adam Seybold, Dee Wallace, Bill Moseley
Sceneggiatura: John Geddes


Trama (im)modesta – 1871. Edward Young è un veterano della Guerra Civile Americana che assiste impotente alla morte della sua famiglia e del mondo a opera di un’invasione di morti viventi. Devastato dal lutto, Edward intraprende un viaggio per spargere le ceneri del figlio alle cascate di Ellis. Durante questo viaggio, uccide molti dei morti viventi, e incontra perfino dei superstiti: il guerriero Isaac, la strega/guaritrice Eve ed Emma, la sorella di Isaac, che è immune al morso dei morti viventi. Proprio per questa sua immunità Emma è oggetto della cupidigia di una banda di banditi che cercano disperatamente una cura per salvarsi dall’invasione dei morti sulla terra.


La mia (im)modesta opinione – Miracoli dell’arte e della tecnica. Dopo Exit Humanity sono disposto a credere che con le giuste locations, budget ridotto, un pugno di attori e telecamere ad alta definizione si può fare veramente di tutto. Certo la trama del film è un po' esile, certo alcune uscite della sceneggiatura e della regia sono alquanto opinabili ma a guardare certe inquadrature eleganti e preziose sembrerebbe di avere davanti uno di quei filmoni veristi però condito da un continuo desiderio di ascensione, da un fascino per le fredde foreste del Nord America e per il pulsare sanguigno di certe luci. Exit Humanity è un film essenzialmente semplice e visibilmente artigianale (anche se si è potuto permettere il vocione profondo di Brian Cox per fare da narratore) che riesce a simulare la grandezza espressionista di certi film di budget certamente più alto non senza incepparsi di tanto in tanto.


Basta far prendere alla telecamera la giusta inclinazione e si immaginano pianure sconfinate, boschi selvaggi e l’America del West in tutto il suo trionfante e nostalgico splendore. La regia elegantissima di Geddes fa miracoli: del resto un bravo autore non ha bisogno di tanti mezzi ma solo di quelli che ha a disposizione. Basta una fotografia lucente ora e ora livida e una telecamera straordinariamente nitida guidata da una mano esperta nei giochi di luce e visione e un filmetto dai mezzi esigui può diventare una perla luminosa nascosta nelle infinite pieghe del genere. A questo aiuta anche la sceneggiatura: non esente da un certo compiacimento del cliché (ci piace credere che la presenza dei cliché si giustifichi con compiacimento autoriale piuttosto che con aridità inventiva) ma profondamente originale e capace di orchestrare gran bei momenti, di certo non troppo profonda o filosofica ma aiutata da una colonna sonora tradizionale ma non stereotipata e fortemente incalzante.


Certo Exit Humanity non è un film perfetto. Si avverte dovunque nella pellicola (dalla tragica mancanza di comparse a quella dei set essenziali) il pericoloso ottundimento causato dallo sbattere della testa degli autori contro il tetto del budget, un tetto che sarebbe stato opportuno costruire più alto dato che le teste degli autori si meritavano uno spazio assai maggiore (certe scene sintetizzate in sequenze animate all’inizio avevano molto l’aria di una citazione a Kill Bill, poi si intende che erano le trovate più economiche che erano riusciti a ingegnarsi di trovare). Ma va anche detto che la nonchalance con cui la regia glissa sui problemi di risorse monetarie fa soltanto onore a questo piccolo film di genere. Anche la sceneggiatura pecca di non indifferenti intoppi e di una generalizzata esiguità strutturale ma, nel complesso, riesce a mandare avanti il film senza suscitare eccessive perplessità nello spettatore che sarà certo più intrigato dall’aspetto migliore di questo film: i morti viventi.


Ho adorato gli zombie di questo film. Creature carnivore ma lente e stupide come pecore che non costituiscono quasi nessun pericolo se sono da sole e che arrancano lente e molli, come i veri zombie Basta ansie claustrofobiche, basta orde di immortali sbavanti, questi sono i veri morti viventi. Ma se parlo di veri zombie è perché, come tutti avranno notato, da 28 Giorni Dopo in poi (in realtà dal film horror Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi, in cui gli zombie corrono per la prima volta) gli zombie hanno preso il gusto di correre come centrocampisti e si sono dotati di una forza erculea certo poco adatta a carni sconciate dai vermi e a muscoli in avanzato stato di putrefazione. No, gli zombie di Exit Humanity sono creature deboli, larve grasse e mollicce, lente e sciocche (ma non per questo meno letali).


Ma perché se gli zombie sono i cattivi proprio gli zombie sono così inutili e deboli? Perché gli zombie di questo film sono solo un espediente, un fulcro attorno alla quale la vicenda dei protagonisti doveva ruotare. Trasformati i morti viventi in stolidi spaventapasseri animati, l’azione del film si può concentrare di più sui protagonisti e sulle loro vicende umane. Vicende alquanto esigue ma che alla fine riescono a far reggere dignitosamente il film. Altro discorso va fatto per gli attori: capaci tutti ma tutti quanti (specialmente il protagonista Mark Gibson) tendenti a calcare un po’ troppo i toni fino a fare sembrare i loro gesti un po’ manierati e vacui, ma questo è un problema trascurabile, in fin dei conti. L’originalità del film che sa mescolare Sergio Leone a George Romero (non sto pasticciando, parlo sul serio) con inaudita bravura fa perdonare tutti i possibili difetti.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Se vi è piaciuto Exit Humanity (e per un verso o per un altro vi piacerà) bisogna per forza aver conosciuto i suoi fratelli maggiori: Planet Terror (2007) di Robert Rodriguez, Resident Evil (2002) di Paul W.S. Anderson, La Horde (2009) di Yannick Dahan, Benjamin Rocher e L’alba dei morti viventi (2004) di Zack Snyder. Autorevoli antenati sono il grandissimo Zombi (1978) di George Romero e La Notte dei Morti Viventi (1968) dello stesso autore ma, per ricordare le ascendenze western, citiamo un paio di spaghetti western che contaminano la tematica zombie, ovvero C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone e la perla barocca del genere Matalo! (1970) di Cesare Canevari.


Scena cult – La struggente scena in cui Edward Young uccide il proprio figlio, dato per disperso e tornato a casa come zombie. Tremenda e terribile.

Canzone cult – Non pervenuta.

mercoledì 27 giugno 2012

ACOLYTES (2008), Jon Hewitt


Australia, 2008
Regia: Jon Hewitt
Cast: Sebastian Gregory, Hanna Mangan Lawrence, Joshua Payne, Joel Edgerton, Michael Dorman
Sceneggiatura: Shane Krause, Shayne Armstrong, Jon Hewitt, James M. Vernon          


Trama (im)modesta – Mark e James sono due ragazzi vittime di abusi sessuali da parte di un feroce maniaco, Gary, che adesso si trova in libertà vigilata e minaccia di tornare a tormentarli. Un giorno, i due insieme alla fidanzata di James, Chasely, vedono un uomo che seppellisce qualcosa in un bosco. Riaperta la fossa i tre si ritroveranno davanti al cadavere di una ragazza scomparsa. Invece di chiamare la polizia, i ragazzi riescono a scovare l’assassino e lo ricattano: se non ucciderà Gary in ventiquattro ore loro andranno dalla polizia. L’assassino accetta ma non si sa mai quali strane alleanze possano formarsi in situazioni estreme e dove ci si può ritrovare quando ci si trova invischiati nel nero dell’animo umano.


La mia (im)modesta opinione – Jon Hewitt mi aveva già folgorato con il noir post-moderno X, un’odissea hard-boiled tutta inscatolata dentro una Sidney che mai era stata tanto simile alla Basin City di milleriana memoria. Mi aspettavo grandi cose anche da questo Acolytes e, devo dire, che nonostante il film mi abbia deluso fortemente, la regia di Hewitt non ha perso un solo colpo, non ha mai fatto scivoloni e si è mantenuta sempre a livelli iperbolici. Il problema è la parte finale dello script. Invece di cercare di infilare a forza nella trama già perfetta un colpo di scena, sarebbe bastato portare a termine la partita a scacchi in cui erano impegnati tutti i personaggi. Il gioco di psicologie, vendette e amori scritto in maniera minimale (quanto odio la retorica da film adolescenziale!) e girato con lo stile freddo e visionario di Hewitt era praticamente perfetto, poi gli sceneggiatori stanchi (non li chiamo incapaci: se si riesce a iniziare una sceneggiatura così si deve avere anche la capacità di farla finire come è iniziata) hanno deciso di cambiare pedine a metà del gioco.


La questione e le sue origini risalgono all’antichità: è possibile giudicare brutta un’opera che è bella nel complesso ma poi crolla miseramente sul finale? Ahimè sì. Cito il mio serial del cuore, Game of Thrones, quando viene detto: «If half an onion is black with rot, it's a rotten onion». Lo stesso vale per il cinema. Se un film termina con una clamorosa caduta di stile (non di regia, ma di script) il film cade tutto intero. Mi dispiace non poter salvare questo Acolytes ma per me il mondo è bianco o è nero. Peccato. Me lo ero goduto davvero, questo film, mi era tanto piaciuto, mi aveva intrigato questo pentacolo di personaggi che tirava i fili uno dell’altro ma le recensioni negative che il film ha ricevuto sono una punizione alla disonestà degli sceneggiatori. In un film, specialmente in un film come questo, giocare sporco è qualcosa di proibito, di sbagliato. Non ci si può permettere di gabbare uno spettatore che è stato così attento e non si può cambiare il campo di gioco da thriller psicologico a horror slasher in maniera così subitanea.


Lo ripeto è un peccato. La regia di Hewitt è praticamente perfetta: algida, onirica a tratti, capace di modulare i suoni per trasformarli in psicologie intere, capace di farci entrare nella pelle dei personaggi e nei loro incubi, capace anche di gestire cinque personaggi in un intreccio che si fa sempre più confuso (ma fino a un certo punto fa piacere) fino al naufragio finale. Il mondo descritto è visionario e misterioso: inquietanti e simmetrici filari di alberi altissimi, alteri cigni neri che muoiono impalati dalle frecce, paludi fredde e farfalle brillanti, sobborghi grigi e inquietanti, parchi giochi che paiono discariche, case come grotte di stoffa scura e arabescata, sconfinate e piatte periferie. Tutto un mondo onirico, allucinato e glaciale. Anche uditivamente il discorso vale: il rumore bianco della città che si ricrea in paura, musiche minimali e poi uno spigoloso, duro e ostinato silenzio. Acolytes è un film muto, dove interi concetti passano attraverso sguardi e gesti, uno schermo di ombre cinesi dal quale affiora liberamente il passato come lampo doloroso e pugnalata ancora fresca.


Bravissimi sono anche gli attori. Vi segnalo qui la giovane e bellissima Hanna Mangan Lawrence protagonista anche del successivo lungometraggio di Hewitt, X, nel ruolo di baby prostituta. Qui è ancora giovane, eppure sensuale alla maniera maliziosa e pia di una liceale che ha appena scoperto come usare il proprio corpo. Lo stesso vale per Sebastian Gregory, abbastanza bravo e inquieto, ma non per Joshua Payne, decisamente antipatico. Insomma Acolytes è come un fiero destriero purosangue che si è azzoppato per uno sciocco incidente. Bell’esemplare ma assolutamente inutile. Peccato, la forma è troppo bella per finire sprecata in una sostanza manchevole solo nel finale. Tutto sommato un film perdibile, dunque, ma voi guardatelo lo stesso. Hewitt sa star simpatico.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I film come questo, che mescolano adolescenza moderna e profonda morbosità, sono rari, ancor più rari sono quelli di buona fattura, che non scadono in noiose trafile di luoghi comuni. Tra questi l’inquietante Suicide Club (2001) di Shion Sono, uno dei film più disturbanti che abbia mai visto, ha svariate affinità con Acolytes, ma anche il liscio Somos lo Que Hay (2010) di Jorge Michel Grau, il più forte The Woman (2011) di Lucky McKee, lo stupendo ma caotico Bully (2001) di Larry Clark e il glaciale Funny Games (2007) di Michael Haneke.


Scena cult – Di sicuro il momento in cui l’assassino e Gary si alleano mentre, a distanza, Chasely e James fanno sesso in maniera concitata e inquietante e la scena in cui i ragazzi distruggono un’automobile: just pure mindless vandalism.

Canzone cult – Musica “piccola” e minimale per una storia dal sapore arido e pietroso del cemento. Il pezzo elettronico indie Alone Again dei Teenager, bella anche la minimale Lonely Hand degli Hot Little Hand, la rockettara Candy Cut degli I Heart Hiroshima e, per ultima, non dimentichiamo l’allucinata Atlas dei Battles

martedì 26 giugno 2012

SHELTER (2007), Jonah Markowitz


USA, 2007
Regia: Jonah Markowitz
Cast: Trevor Wright, Brad Rowe, Tina Holmes, Jackson Wurth, Ross Thomas
Sceneggiatura: Jonah Markowitz


Trama (im)modesta – Zach è un ragazzo di San Pedro con un sogno infranto nel cassetto (la scuola d’arte che voleva frequentare non lo ha accettato), una famiglia problematica sulle spalle composta da sorella maggiore che gli delega continuamente il compito di occuparsi del figlio Cody e da padre invalido e una vita abbastanza deprimente fatta di lavori in supermercati e cucine di tavole calde e surf occasionale. Quando torna in città Shaun, fratello maggiore del miglior amico di Zach, che lo incoraggia a inseguire i suoi sogni, fra i due si sviluppa una forte amicizia che finisce per sfociare in un rapporto amoroso.


La mia (im)modesta opinione – Cosa mi ha spinto a vedere Shelter? Quando ho iniziato a guardarlo già avevo in mente il classico filmetto a tematica LGTB su un introverso e gracilino sedicenne che scopre le passioni di Sodoma, litiga con i genitori, viene perseguitato dai bulli e trova conforto nell’immancabile (e di solito bellissimo) coetaneo che lo inizia al sesso. Insomma il classico tritume da bildungsroman in salsa omosessuale. Con Shelter ho sbagliato alla grande. Con una sceneggiatura essenziale e semplice, il regista Markowitz imbastisce una storia di rivalsa personale che ha come componente la scoperta dell’omosessualità ma che non fa di questa scoperta una scusa per mettere in scena scenette erotiche fra attori pseudoadolescenti o per parlare di noiosi (e superati sensi di colpa).


Insomma l’approccio maschile alla faccenda dell’omosessualità e il ridimensionamento di tale faccenda da motore tragico (nel senso più deteriore del termine) a catalizzatore della riscoperta di sé fanno solo del bene al film. Altra bella scelta del regista è stata quella di assumere attori né bellissimi ma nemmeno brutti (ho recentemente sviluppato avversione per la fisiognomica lombrosiana in stile Bruno Dumont) e soprattutto eterosessuali che riescono a togliere dai loro personaggi ogni effeminatezza e mollezza di troppo. Insomma Shelter riesce a trattare la questione omosessuale in maniera adulta, consapevole e soprattutto non sensazionalistica cercando la scena pruriginosa, l’addominale scolpito, la scabrosità gratuita.


Oltre dunque a trattare la liaison dangereuse di Zach non come un’esplosione di (dannosa) sessualità repressa ma come un rapporto omosessuale “alla greca” (ovvero un rapporto che trascendeva la semplice lussuria per cementare l’unione civile e sociale fra uomini pari) che diventa il veicolo di una presa di consapevolezza importante perché permette a Zach di stabilire i propri obiettivi nella vita e di uscire dalla trappola di responsabilità e scaricabarile vari impostagli dalla sorella, madre inadempiente e personaggio scocciante ma profondamente umano. È l’umanità, dunque, che ho apprezzato in questo film insieme anche alla sua atipicità: scoperto l’orientamento sessuale di Zach nessuno lo abbandona né è perseguitato da non si sa quale stigma sociale.


Un film fortemente positivo, fortemente reale, umano e sincero. No, non è un grande film, non annuncia né grandi verità, non è impregnato da chissà quale filosofia profonda ma a volte questo è un bene: negli ambienti cinefili, spesso così soffocati dalla presenza di bizzarrie filmiche e gustosi barocchismi, Shelter è un respiro di aria fresca, lontano da ogni intellettualismo ipocrita (dateci il diritto di essere sciocchi: l’autorialità di un film si vede anche dalle piccole cose) costruisce un’operetta che è appunto, come annuncia la stessa parola inglese shelter, un rifugio, un nascondiglio. Perdetevelo se volete: non ne morirete. Ma se volete guardare un film intelligente a cuor (e cervello) leggero, tenetevelo bene a mente.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Iniziamo da un film che è brutto, ma che, vedendo, vi farà rendere conto di come un film sull’omosessualità non vada realizzato, dunque il tremendo Sommersturm (2004) di Marco Kreuzpaintner. Passando a qualcosa di più guardabile vi consiglio l’intelligente e piccante Boy Culture (2006) di Q. Allan Brocka, lo stupendo L.I.E. (2001) di Michael Cuesta, il francesissimo Grande École (2004) di Robert Salis, l'esplosivo Ka-Boom (2010) di Gregg Araki e The Mudge Boy (2003) di Michael Burke.


Scena cult – Ahimè nessuna. Lo avevo detto che non era un grande film.

Canzone cult – Profusione di canzonette pseudo-indie, pseudo-californiane, pseudo-surfiste. Nulla di rilevante.

domenica 24 giugno 2012

DETACHMENT (2011), Tony Kaye


USA, 2011
Regia: Tony Kaye
Cast: Adrien Brody, Sami Gayle, Betty Kaye, Marcia Gay Harden, James Caan, Christina Hendricks, Lucy Liu
Sceneggiatura: Carl Lund


Trama (im)modesta – Henry è un supplente del liceo con un passato doloroso alle spalle che si sofferma spesso a pensare al mondo e alle persone che lo circondano e nasconde la desolazione che prova sotto un garbato distacco. È così che si protegge dal dolore che la visione delle vite altrui gli trasmette e magari è così che cerca di aiutare, seppur con il più grande distacco possibile. Le persone che popolano la sua vita sono delle più problematiche: psicologhe scolastiche frustrate dai futili problemi di studentesche sempre più vacue e superficiali, professori ‘invisibili’, nostalgici, solitari, che prendono il Valium, genitori assenti e aggressivi, ragazze incomprese e tristi, prostitute-bambine abbandonate a loro stesse. Come Henry scoprirà, però, quella del distacco è un’arma a doppio taglio.


La mia (im)modesta opinione – Taglientemente intellettuale, freddamente chirurgico eppure appassionatamente poetico, profondamente commosso e assolutamente totale. Posso dire senza ombra di dubbio che Detachment è uno dei film più belli che mi sia capitato di vedere ma anche uno dei più tristi, commossi e disperati in cui mi sia mai imbattuto: un pessimismo contrito e austero fatto nobile e scintillante da una morale crudele e adamantina, un senso di paralisi profonda, di stagnamento, di inevitabile morte e freddo, tanto freddo irradiano da questo film. Come anche dalle sue anime perdute quasi esiliate in un mondo desolato e tutto pervaso come da un impalpabile algore (e il regista si preoccupa di straniarci quando e come può: ogni inquadratura del film sembra irreale, idealizzata quasi teatrale), un mondo dove in pochi capiscono la loro lingua, un mondo dove la santità si è fatta spogliata dall'esaltazione del misticismo e si è ritirata a vivere in case dalle pareti imbiancate e vuote.


In questo mondo (che, non fatevi ingannare, è il nostro mondo, trasposto in simboli idealizzanti) l’attività dell’insegnante, che comporta la quotidiana attestazione dello stato di desertificazione spirituale e ghiacciamento culturale delle vuote masse della odierna generazione, diventa una missione salvifica, un mandato divino, quasi un martirio appassionato il cui senso ribolle sotterraneo nelle vene del mondo e poi esplode in apoteosi del dolore e rari raggi di fredda luce biancastra. Detachment è un film metallico, freddo e acre, ma, come il metallo, conduce bene il calore dei cuori infranti e l’elettricità dei pensieri che corrono veloci come iscrizioni lapidarie a suggellare la pellicola. Molti lo chiamerebbero un film poetico, ma Detachment è diverso. Non di certo un film filosofico perché appare troppo estasiato dalle inaspettate bellezze della vita quotidiana, dai suoi giochi di luce, dalle sue sfumature rosate e lontane. Detachment è un misto di tutto: è un vero e proprio poema filosofico.


Il film procede come viaggio nella mente e nel ricordo di Henry Barthes, docente e (suo malgrado) filosofo che va predicando la propria dottrina sulla vita e sul mondo. Gli eventi di questo film non vengono messi in atto: vengono rimembrati. E della rimembranza hanno la struttura: l’arrivo dell’emozione trascritta con disegni di gesso sulla lavagna, la memoria per telecamera per mettere a fuoco dettagli fatali, quadri generali o anche solo per immaginare eventi, reazioni. Quando vediamo gli altri personaggi nel loro privato si tratta sempre di un’immaginazione, un sogno a occhi aperti scaturito dall’intimo e doloroso bisogno di empatizzare con un altro essere umano che soffre e smettere di patire il distacco, il distacco che è indossato come una tuta da palombaro per sfuggire all’affogamento del dolore. Adesso quello dell’insegnante diventa un simbolo: il professore si fa profeta, angelo e crocifisso dal mondo in cui vive e che cerca di salvare vagando in mezzo alle masse degli enfants perdus, naufraghi del mostruoso ventunesimo secolo. L’impostazione filosofica di Detachment, infatti, non va assolutamente trascurata.


Certo il film non è esente da certi difetti: lo stile del regista è costantemente teso al tragico e al sublime e di tanto in tanto preme tanto sul tasto dell’idealizzazione da debordare (ma solo in un paio di occasioni) in un'involontaria maniera. Ma sorvolando su questi bassi difetti (e il film vola alto), devo dire che poche altre pellicole erano riuscite ad analizzare così profondamente  non dico una generazione ma una società intera, una società fatta di assenza, di gelo pungente, di tundra degli affetti, di distruttivo dramma umano. Gli autori scelgono, come testimone di tanto deserto, un uomo qualunque, un uomo distaccato, un uomo che pensa, un viso umano che attorno a sé vede solo maschere di cartapesta, un individuo che assiste al crollo di qualunque speranza o ideale e che prova con sofferenza a distaccarsene. Chiariamoci, l’Henry Barthes di Adrien Brody (bravissimo, superlativo) non ha rinunciato a provare emozione ma prova a tenere lontana ogni cosa quando vorrebbe entrare in questa o in quella tragedia ma sa che non deve. Non deve per non essere distrutto. 


Lo ripeto, Detachment è la bellezza sotto forma di film, cinema elevato a letteratura, appena un gradino sotto Magnolia (che è imbattibile e imbattuto) e addirittura superiore (questa ha sorpreso anche me) alle due superpietre miliari della mia cinematografia personale: Kids ed Elephant. E tutto questo grazie ad una regia perennemente tesa al sublime, uno script degno di un  premio Nobel e un cast di attori superbo, strabiliante. Su tutti Adrien Brody insieme a Betty Kaye (che sembra Cathy Bates giovane e altrettanto brava) e Sami Gayle (che invece è una piccola Liza Minnelli), poi il redivivo James Caan (poco credibile nel ruolo di insegnante ma superlativo nel suo gigioneggiare sardonico), la figurante Blythe Danner che affianca la meravigliosa Marcia Gay Harden e la sorpresa Lucy Liu e un intenso cameo per il grande Bryan Cranston. In conclusione, è un film ad alto tassi di depressione maggiore e pessimismo cosmico ma perderlo sarebbe perdersi un classico.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Insegnanti e malinconia. Il genere è ricco: la figura dell’insegnante che cerca di aiutare i propri studenti a rinascere spiritualmente è sfruttata in ogni tipo di produzione, seria o comica che sia. La gemma del genere è ovviamente il lirico A Single Man (2009) di Tom Ford in cui la solitudine diventa un senso di poesia trascendente, poi abbiamo la solitudine che sfocia nella perversione con La Pianista (2001) di Michael Haneke e Diario di uno Scandalo (2006) di Richard Eyre, seguono l’insegnamento che trascina alla pazzia con L’Onda (2008) di Dennis Gansel. Poi c’è il film allegro sull’insegnamento ovvero il mitico School of Rock (2003) di Richard Linklater e, infine, il capolavoro verista La Classe (2008) di Laurent Cantet.


Scena cult – Due: la scena dell’assassinio del gatto a opera di un ragazzo annoiato e l’onirico finale con il sottofondo delle malinconiche parole di Edgar Allan Poe. Perché la casa degli Usher non è solo un edificio ma un modo di essere.

Canzone cult – Non pervenuta.

venerdì 22 giugno 2012

WRISTCUTTERS – A LOVE STORY (2006), Goran Dukić


USA, Regno Unito, 2006
Regia: Goran Dukić
Cast: Patrick Fugit, Shannyn Sossamon, Shea Whigham, Tom Waits
Sceneggiatura: Goran Dukić


Trama (im)modesta – Zia è un ragazzo che, abbandonato dall’amore della sua vita, decide di togliersi la vita. Dopo il suicidio, però, si ritrova catapultato in un mondo grigio e scabro, una sorta di sezione dell’aldilà riservata ai suicidi popolata da moltissime anime che vivono una vita parallela sperimentando ogni giorno piccoli miracoli come il cambiamento dei colori di un certo oggetto o la levitazione di questa o quella persona. Scoperto che la sua fidanzata Desiree è morta suicida e si trova nel suo stesso mondo e lo sta cercando, Zia si mette in viaggio per andarla a trovare con al seguito Eugene, un chitarrista russo che porta un buco nero sotto il sedile dell’auto, e Mikal, una ragazza morta suicida “per errore” (è morta di overdose iniettandosi dell’eroina) che cerca i proprietari di quel mondo per poter chiarire l’equivoco e tornare a casa. Durante il viaggio si imbatteranno in Kneller, ambiguo capo di una congregazione di anime suicide che va alla ricerca del proprio cane perduto…


La mia (im)modesta opinione – La trama di Wristcutters ha dell’assurdo eppure, come si suol dire, riesce a far quadrare il cerchio. Indubbiamente originale è un road movie ambientato nell’oltretomba e, per di più, un particolare tipo di oltretomba dedicato ai suicidi dove tutti quanti vivono tranquillamente conversando  distrattamente della loro morte e di altre simili amenità. Geniale è anche il dipinto di questo bislacco aldilà tutto desertico e stopposo, pieno di città grigie di cemento grezzo e strade sporche, popolate da affogati, impiccati, soldati che si sono sparati in testa nessuno dei quali riesce più a sorridere (perché nel paese dei suicidi è bandita l'allegria). Un luogo surreale e malinconico eppure stranamente vitale dove il miracolo e l’incredibile convivono anonimamente con le sciocchezze più infime della vita quotidiana, miracoli bizzarri che accadono solo quando non sono attesi.


Quello che più colpisce del film è la persistenza della voglia di vivere che hanno tutti i protagonisti, l’insistere nel ritornare ai vecchi schemi sfidando anche la morte. È un esempio la famiglia del burbero chitarrista Eugene che, suicidatasi al gran completo, ha ripreso il tranquillo ménage di ogni giorno anche dopo la morte. E poi ci sono mille e mille storie sintetizzate con grazia e mestizia da Dukić che raccontano di questo o quel suicidio rinchiudendo in poche inquadrature vicende di abbandono e perdizione che lasciano ogni cosa alla nostra immaginazione. C’è una ragazza che ha infilato la testa nel forno, c’è la giovane Nanuk (e la sua è una delle morti più tremende) assiderata dopo essere svenuta sotto la neve per colpa dell’alcool, c’è Kostya, fratello di Eugene, fanatico del suicidio, sempre in attesa di una buona scusa per farla finita. Insomma una divertente e malinconica marmaglia di esseri umani nevrotici e insicuri che sembrano uscite dalle scenette di ordinaria follia di cui siamo protagonisti involontari ogni giorno.


Passiamo al personaggio più misterioso di tutti: l’ambiguo Kneller. Con addosso il volto legnoso e la voce ruvida del mitico Tom Waits, Kneller dirige una sorta di campeggio per suicidi dove tutti vivono se non in allegria (l'allegria è impossibile come è impossibile sorridere) almeno in perfetta armonia e lo stesso Kneller insegna a «crescere forti e crescere strani» raccontando strane favole morali e proiettando diapositive. Devo dire che, alla fine del film, non si è sicuri dell’identità di questo Kneller, è uno delle people in charge dell’oltretomba ma lavora illegalmente, corre fra un mondo e l’altro e modifica eventi portando avanti e indietro il tempo. Un angelo? Un diavolo? Non si sa, fatto sta che Tom Waits è, come sempre, meraviglioso con il suo umorismo sardonico e i suoi apologhi misteriosi sui miracoli che «accadono quando non te ne accorgi».


Con i suoi abitanti stramboidi, il suo terreno riarso e sabbioso e i suoi bislacchi miracoli, l’aldilà di Wristcutters diventa, da trionfo della morte, una forte e insolito inno alla vita, una vita che non è mai troppo tardi per cambiare, anche dopo il passo fatale perché è sempre possibile trovare scappatoie, soluzioni, scorciatoie. La regia di Dukić è assai buona ma la vera forza del film sta nella scoppiettante sceneggiatura e nello stupendo cast che va da Patrick Fugit (ovvero il William Miller di Quasi Famosi), la radiosa semisconosciuta Shannyn Sossamon e il vulcanico Shea Whigham (che ricorderete per il suo ruolo di Eli Thompson in Boardwalk Empire) che interpreta l’indimenticabile e baffuto chitarrista Eugene. Non un film fondamentale, questo Wristcutters, ma di sicuro uno di quelli che non vorreste perdere.


Se ti è piaciuto guarda anche… - Malinconia infinita, gusto dell’assurdo, iperboli kitsch, bizzarri onirismi. Il cinema abbonda di film così. Abbiamo il capostipite ovvero l’infinito The Rocky Horror Picture Show (1975) di Jim Sharman, il classico moderno Donnie Darko (2001) di Richard Kelly, poi c’è il figlio di un dio minore, ovvero il capolavorone visionario The Cell (2000) di Tarsem Singh. Non dimentichiamo il valido Amabili Resti (2009) di Peter Jackson e il sempre ipnotico Dead Man (1995) di Jim Jarmusch.


Scena cult – L’addio di Nanuk, per cui è stato decretato il ritorno a casa, stranamente commovente e triste. A quanto pare a commuovere non è solo il dipartirsi dalla vita ma anche il ritornarci.

Canzone cult – La colonna sonora del film è assai ricca, ma l’unico pezzo che mi ha conquistato è la Dead and Lovely del grandissimo Tom Waits.

giovedì 21 giugno 2012

LA GUERRE EST DÉCLARÉE (2011), Valérie Donzelli


Francia, 2011
Regia: Valérie Donzelli
Cast: Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm, Frédéric Pierrot, Béatrice De Staël
Sceneggiatura: Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm



Trama (im)modesta – Juliette e Romeo sono due giovani attori che si incontrano ad una festa, si innamorano a prima vista e in men che non si dica vanno a vivere insieme e hanno un bambino. Ma il piccolo Adam, loro figlio, si comporta stranamente. Lo fanno controllare: la notizia è una sassata alla nuca. Loro figlio soffre di una grave forma di cancro al cervello e rischia addirittura la vita. Ma i due coraggiosi genitori non si scoraggiano e fanno di tutto per combattere la morte, la disperazione, la malattia e tutto il male che minaccia la loro tranquillità.


La mia (im)modesta opinione – Dopo aver letto questa mia recensione molti cinefili dichiareranno la guerra a me. La Guerre est Déclarée non mi è piaciuto. Ma non nel senso che mi ha deluso, non nel senso che si è fatto odiare ma nel senso che mi ha lasciato come un senso di promesse non mantenute in bocca. Una pellicola che non brilla non tanto per mancanze di tipo stilistico, registico o tecnico ma per colpa della sua mancanza di eventi. La storia della Guerre è bella, è forte ma manca di vigore, manca di punti nevralgici, punti nevralgici simulati ad arte dalla regista che sa gestire bene lo stile (e il film di stile ne ha tanto) ma il cui talento è bloccato da una sceneggiatura poco densa, troppo uniforme, troppo vera e troppo poco verosimile. Tranne un paio di sequenze, dunque, il film (da un punto di vista squisitamente narrativo) mi ha dato solo un gran senso di non importanza. Di monotonia.


Non fraintendetemi. La Donzelli è una regista sopraffina nel convogliare il pathos drammatico, nel creare momenti di poesia delicata (anche se non accetto gli sporchi trucchetti: i due protagonisti che cantano insieme una canzone a fior di labbra? Abbiamo visto tutti quanto Magnolia, qui) e certe scene sono riuscite anche ad emozionarmi, ma al cinema l’emozione non è tutto. Il film perfetto unisce «a uno stile incisivo un’analisi penetrante e felina» e la Guerre non lo fa. Descrive, descrive, descrive. Gli unici elementi che hanno permesso di trasformare in un film simil-nouvelle vague una sceneggiatura che sarebbe potuta andar bene per un reality o un documentario è il talento sottile ma stellare della Donzelli il cui stile però avverto come ancora poco robusto, poco muscolare seppur abbastanza incisivo e brillante.


 È inevitabile paragonare la Guerre al più recente capolavoro (secondo me) del cinema di lingua francese: gli spettacolari Les Amours Imaginaries dello strabiliante giovane fuoriclasse Xavier Dolan. Anche nel film di Dolan manca la storia, la storia continuativa e organica. La sceneggiatura procede per tableaux, per quadri staccati, scene brevi e minimali in cui tutto si concentra in un dialogo, un’azione, un gesto. La continuità non ha importanza, hanno importanza i gesti, le parole, le musiche e i colori che veicolano il senso della storia. Come in fisica maggiore è la pressione  e minore è il volume, così in arte la più grande concentrazione di stile impone le dimensioni più ristrette possibili. Se dunque gli Amours di Dolan riescono a investire di densissima pregnanza i momenti che inquadrano come frammenti di un mosaico, la Guerre della Donzelli conquista questa o quella scena ma si fa sfuggire il film, che risulta non tanto prolisso quanto superfluo.


La Guerre est Déclarée, dunque, è un film d’autore con tutti i possibili crismi, teoricamente perfetto e toccante, delicatissimo e originale ma che, praticamente, si risolve in un fuoco d’artificio con esplosione di colori ma senza alcun botto. Il talento della regista sconfina in tutte le aree della pellicola, dallo splendido uso della luce, dalle impassibili voci narranti, dalla sontuosa colonna sonora, dalle simmetrie e inquadrature che hanno il pregio di creare quel senso di straniamento e irrealtà ironica che sposta la storia da una dimensione di lacrimoso (e abietto) realismo in una chiara e luminosa regione di pura finzione teatrale. Ma tutto questo stupendo talento non riesce a resuscitare (almeno non del tutto) una sceneggiatura indubbiamente ben organizzata ma nel complesso troppo semplice, troppo liscia. Diciamo che, con questo suo film, la Donzelli ci ha fatto una promessa, la promessa di una tenue primavera per un’estate abbondante e feconda.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Iniziamo con una mazzata nello stomaco: L’olio di Lorenzo (1992) di George Miller, storiona strappalacrime su una famiglia che affronta il cancro del giovane primogenito. Per le atmosfere indie e sognanti della Guerre, il consiglio immediato è (500) Giorni Insieme (2009) di Marc Webb, altro filmetto indie/autoriale/ironico che soffre dello stesso problema del film della Donzelli: mancanza di vigore narrativo a fronte di uno stile eccellente, peccato. Lo stupendo 50/50 (2011) di Jonathan Levine, matura e sincera analisi della vita di un giovane colpito da tumore alla spina dorsale. Due altri bei film sul cancro sono l’indie statunitense Ascolta il tuo cuore (2010) di Matt Thompson e il grande classico Vivere (1952) di Akira Kurosawa.


Scena cult – Indubbiamente l’annuncio a Romeo del tumore di Adam. Una scena potente, commentata dai potenti e barocchi violini di Vivaldi.

Canzone cult – Iniziamo con la strana O Superman di Laurie Anderson, proseguiamo con il prezioso La cosa buffa di Ennio Morricone e buttiamoci sulle digressioni classiche: L’inverno di Vivaldi (nel film sono stati usati diversi movimenti del concerto insieme ad altri brani dello stesso autore) e la Suite per orchestra in Si minore di Bach. Facciamo un grosso salto avanti nel rock francese con Si tu reviens chez moi del gruppo 5 Gentlemans e nell’elettronica The Bell Tolls Five di Peter von Poehl. La lista sarebbe ancora lunga ma concluderemo con la disonesta musichetta a fior di labbra che cantano i due protagonisti: Ton Grain de Beauté.

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