Svezia, 2003
Regia: Mikael Håfström
Cast: Andreas Wilson, Henrik Lundström, Gustaf Skarsgård,
Linda Zilliacus
Sceneggiatura: Hans Gunnarsson, Mikael Håfström
Trama (im)modesta – Svezia, fine anni ’50. Erik è un ragazzo
di sedici anni che cova dentro una profonda rabbia: l’odiosissimo patrigno gli
infligge continue punizioni corporali, la madre è delusa per i suoi scarsi
risultati scolastici e nessuna scuola vuole ammetterlo per via del suo
comportamento violento. Dopo l’ennesima rissa, Erik viene interdetto da tutte
le scuola pubbliche svedesi e si ritrova costretto a frequentare un esclusivo
collegio maschile. Il posto sembra accogliente e piacevole, lì Erik incontra
l’amico intellettuale Pierre e stringe una relazione (clandestina) con la bella
inserviente finlandese Marja. Ma presto scopre che anche in un collegio così
d’élite dovrà subire insopportabili atti di nonnismo e persecuzione che
sfociano nella tortura e nel mobbing.
La mia (im)modesta opinione – Partiamo da Nietzsche. «Il pubblico scambia facilmente colui che
pesca nel torbido con colui che attinge dal profondo». Mi spiego meglio.
Per tutta la durata del film, Håfström ci fa assistere ai più degradanti e
odiosi atti di bullismo. Vere e proprie sevizie, degne di Guantànamo (con
beneplacito del governo USA, naturalmente) o di un lager nazista. La perfidia
degli studenti più grandi arriva a livelli ineguagliabili, loro stessi sono
restii a spingersi tanto oltre nella crudeltà eppure lo fanno per dimostrare di
avere il potere. Insomma, per tutta la durata del film assistiamo a punizioni
fisiche da parte di un patrigno violento e benpensante, alle angherie di un
gruppo di bulli snob (che includono pestaggi violenti, invasione della privacy,
torture con acqua bollente e/o gelata, sigari spenti addosso), lezioni di
razzismo di professori filonazisti e un protagonista che reprime la sua rabbia
fino al punto di non ritorno.
Ora si spiega la frase di Nietzsche. Tutti noi ci saremmo
aspettati una contorta conclusione alla Haneke, un gran finale in stile
grand-guignol con vendetta superba e crudelissima e invece no. Erik non si
vendica fisicamente sui propri aguzzini perché farlo vorrebbe dire essere come
loro. Il dubbio fra gli adesso allarmati cinefili sorge spontaneo: Evil è un film buonista? Un film moralista? No. Evil è un film edificante. Edificante ma non certo consolatorio.
Ogni spettatore vorrà prendere la faccia antipatica e crudele di Otto
Silverheim, capo della congrega (che ha il volto di Gustaf Skarsgård,
fratellino minore del più famoso Alexander Skarsgård e straordinariamente
somigliante all’Amon Goth di Schindler’s
List) e gonfiarlo di pugni fino alla nausea. Ma Erik dimostra che l’impeto
della violenza può essere canalizzato e sfogato e utilizzato a fini di vendetta
senza restituire pan per focaccia. Insomma Evil
è un film che insegna qualcosa, un film con una morale.
Certo, un Haneke avrebbe tirato fuori un film parecchio più
interessante. Ma l’algida morbosità di Haneke (che è pure profonda, a suo modo)
tende a pescare nel torbido, a rimestare nello scabroso e nell’ossessivo senza
dare una vera e propria fine alla parabola che ha iniziato. Evil quella parabola la conclude, riesce ad andare nel profondo (ma della morale pratica umana) senza guadare la palude del morboso. Tutti
i conti vengono fatti quadrare da Erik ma né con vendette raffinate né con
macchinazioni machiavelliche. Perché dopo aver terminato di vedere il film si
capisce che Erik si è comportato da uomo. Ha subìto di tutto e di più, è stato
colpito nei pochi affetti che aveva (i suoi torturatori fanno scappare dal
collegio il suo amico Pierre e fanno licenziare la cameriera Marja) eppure non
reagisce come un animale, reagisce secondo una morale.
Comprendo, a questo punto, la perplessità del cinefilo
medio. I film-paternale non sono mai piaciuti a nessuno, è vero, ma la
paternale di Evil è l’espressione di una moralità complessa, costruita con il
tempo e l’esperienza, una moralità autentica, sfaccettata, un modello difficile
e duro da seguire che non prende a prestito da alcuna religione o filosofia ma
solo da una ferrea concezione della giustizia. Un altro ragazzo avrebbe
picchiato a sangue il patrigno, gonfiato di botte il bullo e aggredito il
direttore omertoso. Erik è migliore. Forse migliore di tutti noi. Insomma, il
male non si cancella con il male. L’errore va approcciato criticamente e
risolto con pazienza (ma non con garbo, vi riserverà delle gustose soddisfazioni) e solo così verrà cancellato in
profondo.
Le interpretazioni dei giovani attori sono il coronamento
del film. Andreas Wilson, con quella bellezza teutonica e muscolare e quello
sguardo glaciale tutto stipato di rabbia inveterata e repressa, stratificata e ustionante come lava fusa è perfetto per il ruolo complesso e difficile di Erik, Henrik
Lundström fa un meraviglioso lavoro nel caratterizzare Pierre, l’amico dolce e
intellettual-chic di Erik. Gli altri attori sono trascurabili, insomma, nella
media. Bella la regia di Håfström anche se troppo schematica e dunque
imperfetta ma che si concede qui e lì un paio di tocchi personalistici che non
possono che far bene. Così così è la musica e la colonna sonora usate per
caratterizzare il pathos e la tristezza di questa o quella scena. Evil è dunque
più che un bel film un bell’apologo, una lezione interessante. Artisticamente
parlando c’è poco oltre la tecnica perfetta ma da un punto di vista di
contenuti l’originalità è alle stelle.
Se ti è piaciuto guarda anche... – Scuole che sembrano
prigioni e studenti ribelli. I titoli non si contano. Iniziamo con il comico St. Trinian’s (2007) di Oliver Parker e
Barnaby Thompson, proseguiamo con il diretto ispiratore del film, ovvero il
classico supervintage e, a mia opinione, invecchiato non perfettamente Gioventù Bruciata (1955) di Nicholas Ray
e andiamo al più surreale e bizzarro Rushmore
(1998) di Wes Anderson. Il più introverso Bang
Bang You’re Dead (2002) di Guy Ferland e il tutto sommato carino Charlie Bartlett (2007) di Jon Poll.
Divertenti analogie con Evil le ho
trovate in Mean Girls (2004) di Mark
Waters e non si poteva evitare certo la citazione al meraviglioso Napoleon Dynamite (2004) di Jared Hess.
Scena cult – La gelida e brutale minaccia di Erik al suo patrigno.
Una sentenza capitale pronunciata con uno sguardo così glaciale da far venire
la pelle d’oca.
Canzone cult – L’allegrissima e festosa Stupid Cupid di Connie Francis, in pratica un’estate degli anni ’50
concentrata in una sola canzone.
ho sempre rimandato di vederlo, fino a che è passato il momento...
RispondiEliminaboh, anche dalla tua recensione mi sembra un film potenzialmente interessante ma non fondamentale..
No, non è fondamentale, solo atipico. Diciamo che se ti senti troppo appesantito dal classico film autoriale/intimistico/intellettuale Evil è una bella alternativa. Nulla di speciale, of course.
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