venerdì 25 gennaio 2013

ANNA KARENINA (2012), Joe Wright


Regno Unito, 2012
Regia: Joe Wright
Cast: Keira Knightley, Aaron Taylor-Johnson, Jude Law, Kelly McDonald, Domhnall Gleeson, Emily Watson
Sceneggiatura: Tom Stoppard


Trama (im)modesta – Russia, XIX Secolo. La giovane Anna è un’aristocratica sposata a un vecchio e grigio funzionario di governo, Karenin, da cui ha un figlio. Intrappolata in un matrimonio senza amore o passione, Anna s’innamora perdutamente del bellissimo conte Vronsky, figlio di un’importante nobile. Anna e Vronsky intrecciano dunque una relazione intensa e sensuale, fino al punto in cui Anna s’innamorerà del bel nobile e resterà incinta di suo figlio. Karenin, nel frattempo, verrà a conoscenza del tradimento (divenuto materiale di chiacchiere da salotto per l’alta società russa) e inviterà Anna a rinunciare alla sua storia d’amore sia per evitare lo scandalo, sia per evitare il divorzio che l’avrebbe lasciata umiliata e senza nome. Anna abbandona lo stesso suo marito ma la situazione comincia a peggiorare sempre di più quando il peso dello stigma sociale si fa insopportabile e Vronsky diventa sempre più distante.


La mia (im)modesta opinione – Un film geniale. Non si potrebbe dire diversamente alla vista di questa rivoluzionaria rilettura dell’Anna Karenina di Tolstoj, uno dei più grandi romanzi della letteratura occidentale, affrontata da un lato con precisa vicinanza allo spirito del testo originale, dall’altro con esaltante sperimentalismo che porta il regista Wright a tradurre lo stile piano e corposo dell’autore in una prospettiva di brillantezza estetica (ed estatica) che non solo ricrea stupendamente le atmosfere fastose del romanzo ma ammanta d’onirismo e leggerezza sgargiante tutta la storia – una storia in cui musica, gesti, parole e immagini si fondono gli uni negli altri nel non-luogo ideale: il teatro. Pochissime sono infatti le riprese in esterno, tutto si svolge al chiuso in stanze che si aprono e si chiudono su altre prospettive elaborate ed elegantissime.


Di incredibile acume è infatti la scelta registica di ambientare tutte le scene (o quasi) che vedono protagonista la vita cittadina russa in luoghi fissi e chiusi che vengono decorati sul momento dalle stesse comparse nel corso di elaborate coreografie che culminano nel lunghissimo e stupendo valzer durante il quale Anna e Vronsky s’innamorano. Alle riprese in esterni, stranianti non meno di quelle in interni, sono affidati invece purissimi orizzonti, oceani d’alte erbe, prospettive insieme pulitissime e monumentali. Interessante rendimento, questo, di quella dicotomia fra vita di città e vita di campagna che Tolstoj si premurava di evidenziare nelle pagine del suo Anna Karenina tramite le storie parallele di Anna e del suo amante e di Levin e della sua sposa Kitty che trovano la felicità immersi nella rurale semplicità della campagna, fatta di austerità, duro lavoro e saldi precetti morali (saldi, mai bigotti).


Anna Karenina dovrebbe essere il film stilizzato per antonomasia, ma proprio questo adattamento così sperimentale e rivoluzionario, che già a poche ore dalla visione io considero leggendario, finisca per far perdere al film effettivo mordente, facendolo sprofondare in una preziosissima superficie ma in qualche modo lenendo ruoli e personaggi. Effetti collaterali dello straniamento radicale, si dirà, ed è proprio questa la diagnosi che si esprime. Esaltati e stupefatti da tanto piacere per occhi, orecchie e cervello; ma vagamente delusi e frustrati dall’appiattimento che subisce un film che, sebbene diventi un vero e proprio quadro in movimento, riesce solo ad accennare vagamente agli importanti temi trattati da Tolstoj nel suo libro, che erano quelli della salvezza e del perdono, la critica all’ipocrisia, i significati delle passioni e l’importanza della volontà scevra da ebbrezze e scompensi.


E nemmeno si potrebbe scusare Wright dicendo che la sua pellicola completa e spiega il libro come sua traduzione in ambito di pura visività e sensorialismo. Il film di Wright del libro è rappresentazione, significante e derivato e solo avendo letto il libro di Tolstoj questa versione cinematografica di Anna Karenina risulterà completa. Certo incredibile è la capacità di teatralizzazione e sintesi, capace di rinchiudere un potenziale kolossal in stile Il Gattopardo di Visconti in un solo spazio materiale, il teatro appunto che diventa via via ippodromo, sala da ballo, stazione di treno, opera, ristorante, salotto nobiliare... una serie di metamorfosi condotta con sconvolgente eleganza, tanto che s’arriva a credere che in questo film cinema, teatro e danza si siano fusi sfruttando le migliori caratteristiche di tutti i generi in una architettura di puro cristallo, un carnevale di diamante in cui la magia dell’arte può farsi autenticamente vera.


Gli interpreti sono tutti spettacolari. Keira Knightley è un’Anna Karenina semplicemente perfetta: un cigno principesco e delicato che trasforma anche il gesto più banale in finissimo movimento di danza. Simile discorso si può fare per il Conte Vronsky di Aaron Taylor-Johnson, un attore che normalmente mi sta antipatico, ma che è calato tanto a pennello nella parte di homme fatale al contempo virile e raffinato da far sbigottire. E la parte di Vronsky certo non poteva che essere affidata a lui, non solo perché è uno dei migliori attori della Hollywood giovane (anche se mi sta pesantemente antipatico, lo ammetto), ma anche perché ha l’ideale physique du rôle per recitare quel modello d’uomo ottocentesco profondamente virile ma esteriormente elegante quasi al limite dell’effeminatezza. Ma il vero sconvolgimento della pellicola è un Jude Law da Oscar, con inedita pelata e faccia da barbosissimo ragioniere.


E così, sommando superlativa fotografia a musica sublime, si potrebbe avere l’idea di un film che compie la radicale scelta dello stile sopra la sostanza – un parossismo di stile, varrebbe dire, che alla lunga può stancare e ipertendere il cervello dello spettatore ma non ne sazierà mai l’occhio o l’orecchio. Uno strano caso, dunque, di film la cui mancanza d’imperfezione è imperfezione essa stessa; ma rimango comunque sorpreso che le uniche nomination all’Oscar che abbia ricevuto siano quelle per gli aspetti tecnici e non per quelli più strettamente artistici come regia o interpretazioni (almeno per Keira Knightley, che riesce finalmente a far dimenticare gli obbrobri di A Dangerous Method, e per Jude Law), ma si vede che l’Academy ha preferito film certamente più commerciali. Un grande film, dunque, un istantaneo classico (spero non solo) personale. È il caso di dirlo: è nata una Leggenda.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Le stupende opere storiche di Luchino Visconti. Mi riferisco ovviamente a Il Gattopardo (1963), La Caduta degli Dei (1969) e Morte a Venezia (1971). Altro grande esempio è il Fellini Satyricon (1969) e Il Casanova (1976) del grande Federico Fellini. Per rispolverare le glorie passate di Wright c’è il delicato Espiazione (2007) mentre altre grandi prove di stile sono A Single Man (2009) di Tom Ford, il recentissimo Les Misérables (2012) di Tom Hooper, Elizabeth (1998) di Shekhar Kapur e l’epocale Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann.


Scena cult – La scena del valzer. Pura estasi visivo/uditiva.

Canzone cult – Una qualsiasi delle bellissime musiche di Dario Marinelli.

giovedì 24 gennaio 2013

AMERICAN HORROR STORY: ASYLUM (2012-2013), Ryan Murphy, Brad Falchuk


USA, 2012-2013
Regia: Bradley Buecker, Michael Uppendahl, Alfonso Gomez-Rejon, David Semel, Michael Rymer, Michael Lehmann, Jeremy Podeswa, Craig Zisk
Cast: Jessica Lange, Sarah Paulson, Evan Peters, Zachary Quinto, Lily Rabe, James Cromwell, Lizzie Brocheré
Sceneggiatura: Ryan Murphy, Brad Falchuk, Tim Minear, James Wong, Jennifer Salt, Jessica Sharzer


Trama (im)modesta – 1964. L’ambiziosa giornalista lesbica Lana Winters conduce un reportage sul manicomio Briarcliff, gestito da religiosi e tenuto in una stretta di ferro dall’implacabile Sorella Jude. È chiaro che qualcosa non vada, al manicomio, dato che sempre più numerosi pazienti scompaiono senza lasciare traccia durante i turni di notte del misterioso dottore Arthur Arden, un uomo dal passato oscuro, forse legato agli esperimenti nazisti sui prigionieri di Auschwitz, forse al centro di indicibili complotti e maneggi di governo che l’hanno fatto rifugiare negli Stati Uniti alla fine della guerra. Proprio nel giorno in cui Lana si reca a Briarcliff, un efferato serial killer viene internato: Bloody Face, responsabile della morte e dell’orrenda tortura di tre donne innocenti. Accusato dei crimini è Kit Walker, giovane uomo la cui moglie è scomparsa a suo dire per mano di alieni, che l’avrebbero rapita. Ma Kit è innocente, Bloody Face è ancora a piede libero. Lana vorrebbe indagare ancora, ma Sorella Jude la fa internare nel manicomio a causa del suo lesbismo. E sarà lì che Lana si troverà al centro di una girandola di orrori senza fine.


La mia (im)modesta opinione – L’anno scorso la prima stagione di American Horror Story ci aveva folgorati, ma ci aveva lasciato tutti disattesi. Almeno personalmente, non m’era mai capitato di avere davanti un magma così travolgente di citazioni e rimandi culturali imbrigliato in una contortissima ma cristallina struttura narrativa. Flashback e anticipazioni, colpi di scena incredibili si mescolavano a incredibili stranezze, come Rubber Man, il sanguinario fantasma vestito interamente di una tuta di nero, e, dall’altra parte, il personaggio di Tate, insieme fragilissimo e psicopatico, che da solo valeva l’intera serie, un vero capolavoro di caratterizzazione. Certo, era un primo esperimento e, sebbene i risultati siano stati altissimi, la serie finiva per sforare nell’involontario ridicolo, con un’accumulazione di morti e spettri a destra e a manca che si concludeva in un finale oggettivamente frustrante. Gli autori, così, hanno avuto la brillante idea: una serie antologica. Ogni stagione è una storia a sé stante, ma i visi rimangono quelli a noi più familiari. Così, dopo la fosca casa infestata della prima stagione, siamo giunti ai gradini del cupo e folle Briarcliff Manor.


Gli autori adesso sapevano che la loro storia doveva essere limitata a un giro di valzer di soli tredici episodi. Per questo la seconda stagione di American Horror Story appare ben più calibrata e precisa della prima, anche se non gli mancano evidenti errori di default dovuti alla volontà degli autori di mettere troppa carne al fuoco. L’esagerazione c’è, ed è bella: è raro trovare nella stessa serie, frullati insieme, esorcismi, allucinazioni, torture, serial killer, nazisti, alieni, mostri cannibali e chi più ne ha più ne metta; ma certe storyline sono state chiuse in maniera fin troppo frettolosa, facendo dubitare circa la loro effettiva utilità. Non anticiperò nulla: la serie va guardata. Certo, ci sono i puristi che preferiscono strutture narrativa più coese e lineari, per i quali una serie tv antologica dove i ruoli dei protagonisti si rimescolano in maniera indefinita e le evoluzioni della trama sono sempre quelle che ci si aspetterebbe di meno è decisamente troppo disordinata. Ma personalmente a me piace: anche con i suoi riempitivi presi in prestito a tutti i generi dell’horror, l’evidente follia che sta dietro a determinate scelte di regia e script, questa seconda stagione s’è rivelata essere (specialmente nel suo finale) una vera e propria rivelazione.


Sebbene la trama sia tanto complicata da non poter escludere necessariamente incredibili falle, tutti i capi della storia riescono non solo a riunirsi nel sublime finale ma anche a passare dal registro orrifico a quello drammatico con immensa facilità e disinvoltura. Dalle suggestioni horror dei primi episodi, si passa via via a stili sempre più raffinati così l’horror soprannaturale diventa psicologico, dunque thriller e noir e infine termina in puro dramma umano. Specialmente le ultime puntate (terzultima e ultima) dirette dalla rivelazione personale Alfonso Gomez-Rejon sono autentici capolavori di stile registico, con fotografia e musiche che rivaleggiano con i più alti esempi del genere. Ma cifra identificativa di questa stagione, a prescindere dai vari registi che si sono succeduti dietro la macchina da presa, è la prospettiva demente, l’angolo allucinatorio, le panoramiche bizzarre con inquadrature da capogiro che reiterano sempre la rottura dell’ordine conosciuto, lo scivolamento del senso comune ma sempre rispettando un rigidissimo formalismo.


La regia si preoccupa poi di fornire momenti di assoluto cult: dalla inquietante canzoncina Dominique, suonata a ripetizione nelle sale del manicomio, all’esorcismo della seconda puntata, ma non dimentichiamo lo scioccante finale del quinto episodio, le apparizioni della Morte, il delirio musical di Jessica Lange, le scene in cui la luciferina suora Mary Eunice si presta a balletti blasfemi, stupri di sacerdoti (!), sgozzamenti e via dicendo... La stagione è un turbinare di elementi bizzarri mai visti che ora sfociano nel grottesco (il serial killer che si veste da Babbo Natale, ad esempio) ora terminano nel sublime drammatico (i baci elargiti dall’Angelo della Morte) rivelando un’attitudine a un amarissimo pessimismo che si esplica sempre nella serie. Certo, magari gli autori avevano intenti di denuncia (Ryan Murphy è praticamente l’apologeta della fierezza omosessuale, una sua serie senza la denuncia all’omofobia è semplicemente impensabile) ma sono approdati, magari involontariamente, ad altre spiagge. Non si parla dunque né di denuncia né di dissidio morale, eppure la serie coinvolge, commuove in certi punti, terrorizza in altri.


Questo ovviamente è merito del meraviglioso cast capeggiato da una Jessica Lange in stato di grazia (per davvero!) che fornisce una delle interpretazioni più intime e toccanti dell’ultimo anno, creando un personaggio integralmente “buono” di cui vediamo il discontinuo svolgersi e trasformarsi, rimanendo sempre lo stesso. Ruolo inferiore è toccato al grande Evan Peters che, dopo lo strabiliante Tate Langdon della prima stagione, s’è ritrovato con un personaggio piuttosto deboluccio e banale, di cui a nessuno importa veramente qualcosa. Discorso diverso si fa per l’immensa Sarah Paulson, che avrebbe meritato almeno una nomination al Golden Globe per il suo ruolo sfaccettatissimo e multiforme. Ottimo lavoro svolge anche Zachary Quinto, che fra un Sylar, uno Spock e un Oliver Thredson s’è specializzato nell’interpretazione “fredda” alla Jeremy Irons ne Il Mistero Von Bulow. Spettacolare, poi, il duetto Lily Rabe/James Cromwell, suora assatanata e scienziato pazzo, che sono protagonisti di scene assolutamente memorabili fra cui un paio di dissacrazioni di oggetti sacri, svariati omicidi e occultamenti di cadavere. Fanalini di coda per la sciapissima Lizzie Brocheré e il sempre più imbalsamato Joseph Fiennes che, nonostante riesca a funzionare plausibilmente nel suo ruolo, rimane sempre ricoperto da quel certo velo d’antipatia che non gli si stacca mai di dosso.


Applausi anche alle guest star: l’Angelo della Morte di Frances Conroy (che nella precedente stagione interpretava la vecchia cameriera fantasma) è qualcosa di assolutamente sublime e raffinatissimo; mentre, all’opposto, abbiamo un Dylan McDermott bifolchissimo e inquietantissimo e l’apparizione di un gigionissimo Ian McShane e di Franka Potente, nell’inaspettato ruolo di Anna Frank (sic!). Anche qui le citazioni colte non si contano: Arancia Meccanica, Psycho, Allucinazione Perversa, Candyman e chi più ne ha più ne metta, con canzonette meravigliose prese da un juke-box senza tempo. Dunque, in attesa della terza stagione, il cui argomento è ancora mistero ma che potrebbe parlare di magia nera (tremate tremate le streghe son tornate!) e per cui sono stati riconfermate le partecipazioni di Jessica Lange, Sarah Paulson, Evan Peters e, a quanto ne dicono i rumors, Taissa Farmiga (non presente in questa stagione ma protagonista assoluta della prima), non ci resta che riguardare all’infinito il meraviglioso Asylum, se non nella sua completezza, almeno nei momenti più eccelsi.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Parlando di manicomi non si può non citare il recentissimo Shutter Island (2010) di Martin Scorsese insieme all’Allucinazione Perversa (1990) di Adrian Lyne. Abbiamo poi il sorprendente The Jacket (2005) di John Maybury, Il Cigno Nero (2010) di Darren Aronfsky, lo stupendo Identità (2003) di James Mangold e il mediocre ma sempre piacevole The Ward (2010) del grande John Carpenter. Suggeriamo inoltre il bel K-Pax (2001) di Iain Softley, mentre, per film sulla possessione demoniaca, abbiamo il sempre caro L’Esorcista (1973) di William Fredkin, il poetico The Exorcism of Emily Rose (2005) di Scott Derrickson, lo spettacolare Session 9 (2001) di Brad Anderson e il meraviglioso I Diavoli (1971) di Ken Russell.


Scena cult – Infinite. Su tutte il balletto di Mary Eunice, il finale della quinta puntata, l’intera undicesima puntata, il momento musical del decimo episodio e l’esorcismo.

Canzone cult – Iniziamo con il leitmotiv della serie, l’inquietante Dominique di Sœur Sourire, proseguiamo con I Put a Spell On You del mitico Screamin’ Jay Hawkins, It Could Be a Wonderful World dei The Weavers, ma momento sommo della serie è la The Name Game cantata da Jessica Lange.


mercoledì 23 gennaio 2013

LE CROCIATE – Director’s Cut (2005), Ridley Scott


USA, Regno Unito, 2005
Regia: Ridley Scott
Cast: Orlando Bloom, Eva Green, Jeremy Irons, David Thewlis, Liam Neeson, Edward Norton, Ghassan Massoud
Sceneggiatura: William Monahan


Trama (im)modesta – 1184. Il maniscalco Baliano, completamente distrutto dal suicidio della moglie e infuriato contro Dio e gli uomini che permettono, in nome della religione, le peggiori empietà, viene raggiunto da Goffredo di Ibelin, cavaliere crociato del regno di Gerusalemme, che gli comunica di essere suo padre e di volerlo al suo fianco in Terra Santa, per proteggere il Regno di Gerusalemme che da oltre un secolo garantisce pace e libertà ma che sta per cedere sotto le incalzanti pressioni di Saladino da una parte e dei Templari dall’altra. Partito dalla Francia maniscalco e arrivato in Terra Santa nobile, Baliano dovrà iniziare ad abituarsi ai maneggi di corte che minano alle fondamenta il regno del re lebbroso Baldovino. Ma quando la situazione sarà cruciale e lo scontro con Saladino prossimo, toccherà proprio a Baliano difendere la Città Santa e guadagnarsi il regno dei cieli.


La mia (im)modesta opinione – L’avrete notata, non ho dubbi, quella dicitura Director’s Cut appena dopo il titolo del film. Non ho nemmeno dubbi che tutti voi sappiate che il ciofecone che uscì anni fa al cinema, con il nome de Le Crociate, era la versione mutilata di un film certo ingenuo ma di sicuro più meritevole. In origine, infatti, il regista Scott aveva girato un film assai diverso, più pregno di un certo stile autoriale ma incredibilmente lungo (tre e ore e un quarto è tanto, tanto lungo) che fu costretto a tagliuzzare e ridurre facendo della stessa pellicola un film precario e malsicuro. Io, coraggioso, disprezzando la versione originale, sono andato a scovarmi il Director’s Cut originale, cioè il vero film, quello che Ridley Scott avrebbe voluto. Risultato? Se la versione ridotta era un ciofecone, la versione estesa è sempre un ciofecone, ma tanto tanto stiloso.


Ridley Scott non lo conosciamo tutti. Un regista di cult assoluti, senza dubbio, ma a cui la verità storica è sempre andata troppo stretta. Leggendari sono gli strafalcioni storici de Il Gladiatore – strafalcioni che vanno ben oltre la consapevole licenza poetica e finiscono per pretendere dallo spettatore più fiducia di quanto non sia lecito chiedere. Così è pure questo Le Crociate, così infarcito di scivoloni storici da esser più vicino al fantasy storico che non al genere storico vero e proprio. Se poi una garanzia c’è, è quella della spettacolarità: immani deserti, mari in tempesta, schieramenti d’esercito, epiche battaglie. Peccato che, nonostante la sua grandezza formale, il film si riveli poi insufficiente e precario per tutta una serie di crepe che ne pregiudicano la stabilità.


Primo difetto di tutti: Orlando Bloom. Diciamocelo pure, come attore è grandemente cane. Cane oltre ogni definizione. Sembra il fratello di Kirsten Stewart. Sarà che all’epoca andava molto forte fra le teenagers e annoverava ruoli da protagonista in tanti blockbusters come la trilogia de Il Signore degli Anelli e la saga de I Pirati dei Caraibi. Ma il film di Scott è più complesso di così (almeno nelle intenzioni), e far poggiare un intero kolossal sulle (magre) spalle di un attore che al più sembra stitico quando cerca di abborracciare un’espressione facciale è uno sbaglio più che madornale. E di certo si può dire che con un altro protagonista il film sarebbe stato un bel kolossal epico, considerati anche gli eccellenti comprimari che superano tutti in bravura il protagonista: il sempre fighissimo Liam Neeson (dite quello che volete, è fighissimo), Jeremy Irons, la bellissima Eva Green e un Edward Norton da puro cult, che anche con una maschera addosso per tutto il tempo riesce a regalare una performance migliore di quella di Bloom.


Secondo difetto: la regia di Scott. Non si può voler fare un film profondo e poi perdersi in certe ingenuità da romanzo tanto scandalose, scodellando insieme zoomate ignobili (lo ammetto, odio le zoomate), cattivoni cospiratori che paiono usciti da un film Disney, buoni principi assortiti e malamente riscaldati e specialmente critiche alle religioni tanto superficiali e scontate, sebbene in un paio di scene Scott ci azzecchi eccome (i cespugli in fiamme, con rimando all’episodio biblico di Mosè). Ma oltre alle disarmanti banalità che fanno cadere le braccia, Ridley Scott rimane sempre se stesso, ovvero un regista di gran classe e ci mostra inquadrature e sequenze senza dubbio memorabili, specialmente quando sono affidate ad attori capaci ed esperienti come, ad esempio, l’immane Eva Green oppure lo stupendo Ghassan Massoud che crea un memorabile Saladino.


Altri punti a favore sono l’assolutamente cult personaggio di Edward Norton che con una maschera addosso riesce a essere solo più incredibilmente figo e la bellezza di certe inquadrature e certe luci che catturano il sublime di sterminati paesaggi: montagne titaniche, mari in tempesta, deserti ora sinuosi ora aridi, immense armate, città monumentali. E sono infatti fotografia e colonna sonora gli assoluti punti forti dell’intera pellicola: musiche di cori solenni, inquadrature di sconvolgente bellezza, tramonti. Non c’è dubbio Le Crociate sarebbe potuto essere un grande, grandissimo film ma ha fatto la brutta scelta della commercialità e del romanzesco quando avrebbe potuto optare per evoluzioni della trama meno banali e scontate. Strano, dato anche che l’autore della sceneggiatura, William Monahan, è la mano che ha scritto quel film d’altissimo livello che è The Departed e il simpatico London Boulevard. Ma, si sa, alla prima sceneggiatura si può essere perdonati per i propri errori.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Film ruffiano ma senza dubbio di grande impatto è il Breaveheart (1995) di Mel Gibson, mentre per lo spirito del Medioevo in tutte le sue molteplici contorsioni abbiamo il barocco e visionario Excalibur (1981) di John Boorman. Sempre di ottima qualità è l’Enrico V (1989) di Kenneth Branagh, mentre Dragonheart (1996) di Rob Cohen è più un classico per l’infanzia che un gran film vero e proprio. Massacrato e vituperato, per me resta un grandissimo film, il Giovanna d’Arco (1999) di Luc Besson, ma il vero Medioevo trasposto al cinema è e sarà sempre il mito Il Settimo Sigillo (1957) di Ingmar Bergman. Un esempio recente, ma non del tutto convincente è stato il Valhalla Rising (2009) di Nicolas Winding Refn.


Scena cult – L’incendio dei cespugli nel deserto e la regina Sibilla che visita la tomba del fratello.

Canzone cult – Non pervenuta.

martedì 15 gennaio 2013

IRON SKY (2012), Timo Vuorensola


Finlandia, Germania, Australia, 2012
Regia: Timo Vuorensuola
Cast: Christopher Kirby, Julia Dietze, Götz Otto, Udo Kier, Peta Sergeant, Stephanie Paul
Sceneggiatura: Timo Vuorensola, Michael Kalesniko


Trama (im)modesta – Anno 2018. Il presidente degli Stati Uniti, bisognoso di pubblicità e riconoscimento, manda un gruppo di astronauti di colore sulla Luna. Arrivati sul satellite, il gruppo viene aggredito da altri astronauti che rapiscono uno degli astronauti e uccidono tutti gli altri. L’astronauta viene portato alla base di coloro che si rivelano essere dei nazisti. I nazisti, infatti, dopo la Seconda Guerra Mondiale, si sono rifugiati sulla Luna, costruendo la loro razza ariana perfetta e programmando di invadere la Terra...


La mia (im)modesta opinione – Checché se ne dica, Iron Sky è un film divertente – e questo non lo si può negare. Un frullato di citazioni colte (fantastiche quelle a Il Grande Dittatore di Chaplin e alla famosa scena dello sclero di Hitler ne La Caduta di Oliver Hirschbiegel), rimandi alla cultura nazista, satira politica (la Presidente degli USA che tiene un comizio mimando i gesti scenici del Führer) e con un buon mix di puro exploitaition movie condito dalla presenza dell’inquietante e mitico Udo Kier. Tutto il film è un glorioso understatement, un assolo di buffo belcanto travestito da canzoncina pop. No, non è irriverente ai limiti della follia come ci si aspetterebbe da un God Bless America o Quella casa nel bosco, ma fa divertire, divertire eccome.


La regia è d’impronta internazionale, senza particolari impennate stilistiche, con giusto qualche riccio di visionarietà da steampunk (pensiamo a Sky Captain and the World of Tomorrow, a Matrix o alle atmosfere neogotiche di Franklyn) con ammiccamenti sparsi al film d’epoca a cui è sotteso un umorismo magari facile, ma anche di facile appeal. Il film è una gigantesca barracconata, sia chiaro, ma fa ridere per la sua mancanza di pretese – tanto brutto da essere bello, come si diceva degli atroci film del regista menagramo Ed Wood. E non che il regista stesso sia persona di gran genio: con due parodie di Star Trek alle spalle (chiamate Star Wreck) e un ruolo da frontman nella banda metallara di opaca fama Älymystö, non si può certo dire che il Vuorensola sia esperto di gran cinema.


Il film piace, però, fa ridere, è bello: dalla Presidentessa USA simil-Sarah Palin venata a tratti dal vecchio George Bush, all’assistente dispotica Vivian che fa il verso a Hitler e si concia come una supereroina anni ’80 per andare nello spazio a uccidere nazisti (!), i comprimari che riempiono le scene di questo film sono semplicemente meravigliosi. Film macchiettistico? Senza dubbio alcuno. Esagerato? Grossolano? Pomposo? Non credo, solo ben scritto e decorosamente diretto ma molto, molto divertente – ma mai graffiante. A un film così, del resto, non mi sentirei di chiedere di più, specialmente con la spazzatura che gira per le nostre sale cinematografiche (vedi, i film di Adam Sandler, che ormai gratta solo il fondo del barile).


Se ti è piaciuto guarda anche... – La tamarreide cinematografica Sky Captain and the World of Tomorrow (2004) di Kerry Conran, accoppiata all’improbabile Fascisti su Marte (2006) di Corrado Guzzanti e Igor Skofic. Abbiamo poi il Bastardi senza Gloria (2009) di Quentin Tarantino, il gran classico I ragazzi venuti dal Brasile (1978) di Franklin J. Schaffner, lo scultissimo Ilsa: la belva delle SS (1975) di Don Edmonds, Il Portiere di Notte (1971) di Liliana Cavani e Salon Kitty (1976) del mitico satiro Tinto Brass.


Scena cult – Il discorso al presidente della nazista Renate.

Canzone cult – Non pervenuta.

lunedì 14 gennaio 2013

LO HOBBIT (2012), Peter Jackson


Nuova Zelanda, USA 2012
Regia: Peter Jackson
Cast: Martin Freeman, Ian McKellen, Richard Armitage, Andy Serkis, Hugo Weaving, Cate Blanchett, Christopher Lee, Ian Holm
Sceneggiatura: Peter Jackson, Guillermo del Toro, Philippa Boyens, Fran Walsh


Trama (im)modesta – Terra di Mezzo. Il re dei nani Thròr viene scacciato insieme a tutto il suo popolo da Erebor, città-montagna e leggendaria patria dei nani, dal feroce drago Smaug, che prende possesso del monte e dell’oro che questo contiene. Molti anni dopo, lo stregone Gandalf il Grigio bussa alla porta dell’hobbit Bilbo Baggins per proporgli di seguirlo in una folle avventura: il principe decaduto Thorin Scudodiquercia ha intenzione di riconquistare l’antica casa dei suoi avi e sta muovendo verso Erebor per scacciare il drago Maug e tornare a regnare. Biblo, all’inizio riluttante, finisce per accettare e s’incammina nell’avventura più grande della sua vita.


La mia (im)modesta opinione – Pubblicato nel 1937, Lo Hobbit fu un libro importante nella vicenda letteraria di Tolkien: fu il preludio, infatti, dell’opera più conosciuta del proprio autore, Il Signore degli Anelli, inglobando pure elementi vari che torneranno nel magnum opus di questo Omero del fantasy, ovvero la mitologia fittizzia de Il Silmarillion. Sebbene tutte le opere di Tolkien fossero dominate da estrema complessità tematica e stilistica, da un retroterra narrativo non da poco e da una creatività metodica e implacabile che creava veri atlanti di storia inventata e lingue mai esistite, Lo Hobbit fu pensata come una fiaba, un racconto per ragazzi. Ne risulta che nei suoi stessi elementi, il tono del libro sia estremamente colloquiale, i toni favolistici, i contenuti leggeri e adatti per un pubblico composto da bambini “dai 5 ai 9 anni”, come diceva la prima recensione che uscì sul volume.


Il film di Jackson nasce (e non mentiamoci) come bieca operazione commerciale, che non si concede indolenze o pigrizie. Diciamolo pure, insomma: Lo Hobbit è un libro piccolo, ma proprio breve; e i produttori hanno trovato tanti contenuti da tirarci fuori (a forza) una trilogia? Mi spiace ma quello di Jackson è un film che, per quanto ben fatto, è ruffiano e approfittatore. E l’unico difetto del film è, infatti, di tentare di allungare il brodo in tutte le maniere possibili e immaginabili, cercando di simulare l’andamento di epillio del romanzo originale, ma riuscendo solo a suonare incredibilmente ingenuo e sciocco. Il personaggio di Radagast e le scene a lui dedicate sono degne di un cartone della Disney, le apparizioni di Ian Holm e il minuscolo cameo di Elijah Wood sono solo diversivi per far brillare il film più nuovo e scarno della luce dell’inimitabile fratello maggiore.


Un soverchio di spettacolarità, dunque, quando è tanto palese che tutte le sequenze più incredibilmente fastose (una per tutte: la città dei nani di Erebor) sono anche le più inutili. E se un film che dura due ore e quarantacinque insiste tanto nell’allungare il brodo con parentesi inutili e che finiscono per risultare nel ridicolo involontario, sono costretto a dichiararlo ruffiano e ipocrita. Ma Lo Hobbit non è del tutto falso: il fascino per l’avventura, lo sguardo che si perde nelle immensità di montagne e vallate, le scene di battaglia e tempesta (accessorie o meno che siano) tradiscono tutte, se non una passione, un trasporto che a Peter Jackson forse mancava dopo aver finito la sua storia trilogia ed essere stato costretto a lavorare entro l’esiguo recinto del film “normale”, affatto epico e spettacolare come la Trilogia dell’Anello.

  
Un’opera dove artista e commercialista s’incontrano, dunque; simpatica, coinvolgente, gustosa per  i graditi ritorni (enfatizzati fin troppo, quanto credono che siamo stupidi?) di vecchi volti conosciuti in precedenza: la Galadriel di Cate Blanchett, il Saruman di Christopher Lee, l’Elrond di Hugo Weaving e, soprattutto, il Gollum di Andy Serkis, protagonista della sequenza di maggior valore dell’intera pellicola. Il cast è assai affiatato e questo fa piacere ma non per questo tutto è perfetto: Ian McKellen pare sentire un po’ troppo il peso degli anni e di una parte ripresa per motivi chiaramente economici, mentre il Bilbo di Martin Freeman convince solo a metà e appare spaesato, quasi fuori posto all’interno delle vicende del film, come se fosse un osservatore nell’ombra, un protagonista passivo affatto fondamentale.


Ottimo lavoro per lo script che, sebbene pecchi d’eccessiva ingordigia e avrebbe dovuto senza dubbio essere assai più stretto, riesce a restituire il buon affresco del lavoro di un maestro dell’epica alle prese con la sua opera prima, un fantasy epico, dunque, ma ancora stupendamente ingenuo. Il personaggio di Thòrin Scudodiquercia è l’immensa figurazione di un eroe epico (coraggio, alti ideali, forte sentire) basata su un personaggio poco o nulla approfondito e, a dirla tutta, alquanto bidimensionale, come, del resto, tutti gli altri dimenticabili membri della Compagnia, a cui nessuno fa veramente caso. Il mio giudizio, dunque? Un film senza dubbio bello e coinvolgente ma vagamente volgare nel volersi ricoprire di trucchi e ceroni e sbattere se stesso in faccia al malcapitato spettatore che non sa se spalancare la bocca alle meraviglie sullo schermo o far correre la mano verso il portafogli, per assicurarsi della sua presenza.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovvimente la Trilogia de Il Signore degli Anelli: ovvero La Compagnia dell’Anello (2001), Le due torri (2002) e Il ritorno del Re (2003), tutti e tre di Peter Jackson. Per il genere epic-fantasy abbiamo poi il serial Game of Thrones (2011) creato da David Benioff e D.B. Weiss, il bel primo volume de Le Cronache di Narnia: Il Leone, la Strega e l’Armadio (2005) di Andrew Adamson, il guilty pleasure supremo, ovvero Troy (2004) di Wolfgang Petersen e l’Excalibur (1981) di John Boorman. Per il lato goliardico e scherzoso che permea buona parte del film, possiamo richiamarci al primo Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson e al forse anche migliore sequel Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon.


Scena cult – Il nano Thorin che si leva fra le fiamme a combattere il suo nemico. Quando qualcosa è epico è epico. Poi l’apparizione di Galadriel, una Cate Blanchett, un’attrice straordinaria che dopo un’annata un po’ vuota promette di tornare a riempire le sale con moltissimi film.

Canzone cult – Il canto dei nani, Misty Mountains, da me dimenticato e sollecitamente segnalato dalla collega Babol.

sabato 12 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED (2012), Quentin Tarantino


USA, 2012
Regia: Quentin Tarantino
Cast: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington
Sceneggiatura: Quentin Tarantino


Trama (im)modesta – Django, uno schiavo brutalmente separato dalla moglie, viene liberato, una note, dallo stravagante cacciatore di taglie tedesco, il Dottor King Schultz: Django è infatti l’unico che saprebbe riconoscere tre pericolosi banditi a cui il tedesco sta dando la caccia. Nel corso del viaggio, Django e il Dr. Schultz diventano amici, così il cacciatore di taglie fa una proposta all’ ex-schiavo: lavorare insieme per l’inverno e, arrivata la bella stagione, andare a cercare la moglie di Django, che è stata acquistata dal ricchissimo Calvin Candie, un proprietario di piantagioni. Dopo aver stanato e ucciso i criminali di cui seguivano le tracce, i due partono alla volta di Candyland, l’immensa proprietà del bieco Candie. Ma non tutto va come previsto...


La mia (im)modesta opinione – Dopo la commercialissima parentesi di Bastardi senza Gloria, un film in cui Quentin Tarantino copiava se stesso, il Sommo Maestro del Pulp torna sulla verace via del buon cinema. Django Unchained è un grande film (divertente, iperviolento, scalmanatissimo ed efferato) ma solo a brevi tratti sembra un film di Tarantino. Mi spiego meglio: a voler confrontare non tanto gli straordinari esordi, quanto le opere della sfolgorante maturità (mi riferisco a Kill Bill, ovviamente, e alla piccola gemma Death Proof), a Django Unchained manca quel nonsoché, quell’aroma di acidissimo umorismo mixato in salsa pop, quella res tarantiniana che contraddistingueva i grandi capolavori dell’ante-Kill Bill. Ma, nonostante tutto, è un film assai memorabile; senza dubbio uno dei migliori e maggiormente notevoli dell’anno.


Partiamo dalla regia. Tarantino riparte con le citazioni folli e perpetue: da Griffith a Via col Vento, da Battle Royale (citata attraverso il Dies Irae di Verdi, che apriva con toni d'apocalisse il film giapponese tanto amato da Tarantino stesso) a Bob Hope. Ci sono camei di Jonah Hill e del mitico Franco Nero, protagonista di un saporoso dialoghetto in cui il “vecchio” Django chiede il nome al suo successore. Il buon Quentin si diverte un sacco, e si vede: la sua regia è spigliata e briosa, i combattimenti sono un autentico divertimento ma, quando ce n’è bisogno, la tensione sa essere  sconcertante. Merito pure, ovviamente, della grandiosa sceneggiatura che mescola alla perfezione il registro epic-western e quello grottesco creando momenti di macabrissima ironia (l’assassinio dei tre fratelli Brittle) o inaudita suspance (come la scena della cena a casa di Candie).


Gli attori, poi, riescono con strabiliante nonchalanche e facilità a sorreggere sulle proprie spalle l’esito dell’intero film (un film durevole, due ore e quarantacinque): Jamie Foxx è bravo ma abbastanza ingessato, come protagonista è tutto sommato simpatico ma non convincente né particolarmente memorabile, colpisce tutt'al più la sua effettiva somiglianza con gli eroi della blaxploitation; Cristoph Waltz, al contrario, è semplicemente spettacolare, meriterebbe un Oscar che sarebbe certamente più meritato di quello ricevuto per il brillante ma abbastanza sciapo Hans Landa; Leonardo DiCaprio supera se stesso, crea un cattivo insieme tremendo e sciroccato, il suo Calvin Candie è un personaggio senza dubbio macchiettistico ma assolutamente magnifico nella sua mescolanza di crudeltà e raffinatezza campagnola da gentiluomo del sud, un cattivo davvero memorabile.


Fra musiche e scene da antologia, una fotografia che pare strappata a un vero spaghetti western d’epoca, Django Unchained trionfa, ma non esalta particolarmente; un film stupendo, sì, ma un classico solo in potenza, abbastanza lontano dalla grandezza di istant cult assoluti come Pulp Fiction, il primo Kill Bill o anche l’opera minore Jackie Brown. Certo fa piacere vedere una delle antiche glorie di Tarantino risorgere sullo schermo, parlo del grande Samuel L. Jackson che a far la parte del vecchio maggiordomo pare una versione invecchiata e stanchissima del mitico Jules Winnfield, ritiratosi a vita campagnola. Django Unchained  è il ritorno sperato di un grande maestro, un Tarantino come non lo conoscevamo: più acuto e più imborghesito, più esperto e (stranamente) più statico e lento.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente i precedenti film di Tarantino: Le Iene (1992), il classico intramontabile Pulp Fiction (1994), Jackie Brown (1997), l’astro Kill Bill Vol.1 (2003) e Vol.2 (2004), Grindhouse – A prova di morte (2007) e il recentissimo e pallidissimo Bastardi senza Gloria (2009). Quanto ai western, segnaliamo l’eponimo Django (1966) di Sergio Corbucci, la trilogia del dollaro di Sergio Leone: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966). Altri capolavori del western sono Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, Ombre rosse (1939) di John Ford, Duello al sole (1946) di King Vidor, Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann e I Magnifici Sette (1960) di John Sturges.


Scena cult – La cavalcata degli incappucciati. Perfetta unione di sublime e grottesco.

Canzone cult – Segnaliamo l’Ancora qui della nostrana Elisa, la grande Unchained di James Brown e 2Pac e la Ode to Django di RZA. Ci sono poi le mie tre cult personali Freedom di Anthony Hamilton e Elayna Boynton, l'infuocata Too Old To Die Young di Brother Dege e la danza della morte Ain't No Grave del mitico Johnny Cash.



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