lunedì 23 dicembre 2013

THE DESCENT (2005), Neil Marshall


Regno Unito, 2005
Regia: Neil Marshall
Cast: Shauna Macdonald, Natalie Mendoza, Alex Reid, MyAnna Buring, Saskia Mulder
Sceneggiatura: Neil Marshall


Trama (im)modesta – Juno, Sarah, Beth, Sam e Rebecca sono un gruppo di amiche amanti dello sport estremo. Dopo una giornata passata a fare rafting in Scozia, Sarah è coinvolta in un incidente automobilistico in cui perde il marito e la figlia. Un anno dopo, il gruppo si riunisce ancora per esplorare le grotte di Boreham. Ma mentre le donne c’è un incidente, un passaggio crolla. Il gruppo cerca una nuova uscita ma Juno rivela loro di averle portate in un complesso di grotte sconosciuto. Sono bloccate dentro. La situazione già non è delle migliori ma dato che piove sempre sul bagnato, le protagoniste scoprono di non essere sole, lì a due miglia sotto terra. Mostruosi umanoidi albini danno loro la caccia nel buio...


La mia (im)modesta opinione – Lo devo confessare, ero alquanto diviso riguardo le premesse di The Descent. Ero naturalmente a conoscenza del suo assoluto successo di pubblico e critica e l’ambientazione claustrofobica, i soffocanti canali sotterranei di uno sconosciuto complesso di grotte, promettevano un grande horror. Meno mi convinceva l’idea dei mostri che davano la caccia alle donne. Con mio grande sollievo, però, l’apparentemente inesperto Neil Marshall è riuscito a fondere plausibilmente tutti gli elementi della pellicola, creando, se non un horror rivoluzionario, almeno una delle pellicole di paura più notevoli del suo decennio.


Punti di forza del film e della storia sono la crescente originalità della storia che parte da angoscioso racconto di un incidente di speleologia e diventa via via più visionario, con geniali soluzioni visive e di fotografie, virate in verde e in rosso alternate al buio assoluto, fino al lirico, catartico, allucinatorio finale. Secondo pregio è la forza del personaggio della protagonista Sarah e, in generale, di tutte le più abborracciate comprimarie. Riservandomi di parlare di Sarah più avanti, sottolineo qui quanto positivamente m’abbia colpito la resa delle protagoniste non come indifese scream queens ma come donne mature, combattive, fortissime.


Come ho detto poco sopra, il personaggio centrale è quello di Sarah. È il suo personaggio il più viscerale, intenso, simbolico. Sebbene parta come la solita donna depressa, pronta ad affrontare le sue paure, scontrandosi contro il soprannaturale (la tradizione cinematografica ne è piena zeppa), il personaggio di Sarah possiede un dipiù di furia primordiale, di significanza e di lirismo. Mentre la trama horror si svolge normalmente, con le protagoniste separate e riunite che combattono contro i mostri, mi pare degno di nota che Sarah rimanga da sola ad affrontare il tradimento e la morte (il colpo di grazia inferto a Beth, le menzogne di Juno) e la paura allo stato puro.


Il finale è amarissimo. Ma questo dipende dalla versione che avete visto. Esiste infatti una versione confezionata per il mercato americano, riconoscibile dal lieto fine, e una originale, dove il lieto fine è solo apparente, e la pellicola di Marshall rivela tutta la sua amarezza, la sua rude poesia, la sua visionarietà. Ma non travisatemi: The Descent è un film dell’orrore. I brividi che regala sono veri. La claustrofobia dei budelli pietrosi, il peso di due miglia di roccia, l’angoscia del silenzio da mantenere (le creature mostruose sono cieche, ma vedono attraverso il suono, come i pipistrelli) fanno di The Descent un horror insieme di ampio appeal e di rara bravura registica.


Meravigliosa la fotografia, incredibilmente fantasiosa considerando che per più di tre quarti il film è ambientato in una serie di caverne. Le luci dei fuochi di segnalazione, degli stick fluorescenti, del fosforo delle rocce procurano forti virate coloristiche. Grandiose le ricostruzioni del mondo sotterraneo della grotta, sempre più surreale e spaventoso man mano che l’incubo va avanti. Pavimenti di resti umani, stagni di sangue, abissi neri, cascate e la finale, biblica scalata di ossa che conduce alla luce. The Descent è, a ragione, un classico moderno del proprio genere. Da non perdere.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Il regista Neil Marshall ha citato i cult assoluti Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, La Cosa (1982) di John Carpenter e Un tranquillo weekend di paura (1972) di John Boorman come ispirazione. Classici film claustrofobici sono poi Prigionieri dell’Oceano (1944) di Alfred Hitchcock, il kafkiano Cube (1997) di Vincenzo Natali e il valido 127 Hours (2010) di Danny Boyle.


Scena cult – Sarah da sola nella grotta, piena di sangue, che lotta per la sua vita. La scalata sulla montagna di ossa. Il visionario finale.

Canzone cult – Non pervenuta.

martedì 17 dicembre 2013

ECSTASY GENERATION (1997), Gregg Araki


USA, 1997
Regia: Gregg Araki
Cast: James Duval, Rachel True, Nathan Bexton, Christina Applegate, Kathleen Robertson, Sarah Lassez, Heather Graham, Ryan Philippe
Sceneggiatura: Gregg Araki


Trama (im)modesta – Dark e Mel sono una coppia diciottenne di amanti bisessuali e alienate. Attorno a loro ruota un sottobosco di figure più o meno bizzarre, non meno estreme e devastate di loro: Lucifer, amante lesbica di Mel; gli autodistruttivi, sessuomani Shed e Lilith; Montgomery, biondino innocente, biancovestito dagli occhi difformi. E, fra tutti loro, cammina non visto un alieno bizzarro, che ne rapisce alcuni. Così, fra sparizioni, metamorfosi, suicidi si consuma una giornata per la gioventù condannata dell’allucinata Los Angeles.


La mia (im)modesta opinione – Gregg Araki è un autore bizzarro. La sua estetica curiosa, a metà fra il B-Movie fantascientifico (visto come estremo escapismo da un mondo troppo duro) e il porno softcore, ci ha regalato film stranamente poetici (vedi Mysterious Skin) e anche assai divertenti (come il più recente Ka-Boom). Troppe volte, però, come autore, ha preferito ricoprire un facile maledettismo con onirismi tinti di Lynch e, più in generale, con le sue interessanti trovate visive. Ma proprio per questo il rischio d’incorrere nello stallo “style over substance” è grosso e pesante.


Chiariamoci. Sono io il primo che favorisce lo stile al di sopra della sostanza e devo certo ammettere che l’estetica pop di Araki mi seduce in qualche maniera. Ma in questo film (il cui titolo originale è un più sensato Nowhere), come in altri, dove il regista funge anche da sceneggiatore, vediamo una maggiore talento per il lato più cinematografico piuttosto che per quello narrativo strictu sensu. Il risultato? Araki monta un videoclip notevole, torbido e allucinato, ma né lo organizza in forma di storia né lo usa per filosofeggiare. Anzi, si potrebbe dire che sta così attento all'architettura di ogni singolo frame che finisce per dimenticare il senso generale del suo intero lavoro.


Tanto peggio è che tenta di filosofeggiare. Con appassionata superficialità mostra tutti i gradi dell’alienazione (e dell’abiezione) della fantomatica Doom Generation, la generazione superficiale, quella (secondo le stesse parole di Araki) condannata a vivere la fine del mondo. Ebbene, questa generazione viene molto descritta ma poco spiegata (tutt’al più scappa qualche riferimento alla teledipendenza, al rapporto sempre più conflittuale coi genitori, alla disperata confusione sessuale), con il risultato di dipingere un pastiche efficace ma condito da tante e tali aporie intestine da farci sovvenire il dubbio sulle effettive capacità di penetrazione di Araki all’interno della propria stessa opera.


Altra pecca del film: vorrebbe essere trasgressivo ma non riesce a esserlo. Sì la violenza grafica, verbale e psicologica è notevole, ma poco ci viene effettivamente concesso dal punto di vista più fisico. Strano, facendo vedere assai di meno, un maestro come Gus Van Sant riesce a colpirci parecchio di più. I pregi dell’eleganza: il bacio scambiato sotto la doccia dai killer dell’indimenticato Elephant è molto più significativo, estremo, conturbante di un’ora e diciotto di pruderie sfuse condite con parolacce, violenza all’ingrosso e nichilismo  gratuito.


Ma credo che Araki sia così. Profonda incompetenza nell’intreccio mescolata a visioni di profetico camp, sublime bellezza (affascinanti gli occhi di doppio colore del biondo Montgomery) e trash del più turpe. Autentica furia autodistruttiva e dozzinale retorica post-grunge. Ecstasy Generation lo boccio a metà e a metà lo promuovo: troppo mi piace quell’estetica anni ’90 fatta di LSD, troppo mi piace quell’irrequietezza. A non piacermi è il facile pessimismo, la generale tendenza radical-chic declinata in salsa camp/omoerotica. Da rivedere, ma sempre tenendo a mente le più riuscite pellicole di Araki.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Non migliore ma forse più iconico è Doom Generation (1995) sempre di Gregg Araki, seguito a ruota dai validi Mysterious Skin (2004) e Ka-Boom (2010). Andiamo più in alto, verso la Trilogia della Morte del grande Gus Van Sant: Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005). Sempre di Gus Van Sant segnalo Mala Noche (1985), Belli e Dannati (1991) e Paranoid Park (2007). Né potrei dimenticarmi dell'assoluto capolavoro Kids (1995) di Larry Clark.


Scena cult – Lo stupro di Egg, l’erotico incipit sotto la doccia, tutte le scene fra Ryan Philippe e Heather Graham.

Canzone cult – Grande colonna sonora. Cito Life is Sweet dei The Chemical Brothers remixata dai Daft Punk, il remix di Daydreaming dei Massive Attack, i Radiohead con How Can You Be Sure e la Kiddie Grinder di Marilyn Manson.

venerdì 13 dicembre 2013

CHARLIE COUNTRYMAN (2013), Fredrik Bond


USA, 2013
Regia: Fredrik Bond
Cast: Shia LaBeouf, Evan Rachel Wood, Mads Mikkelsen, Rupert Grint, Melissa Leo
Sceneggiatura: Matt Drake


Trama (im)modesta – Dopo aver perso la madre, Charlie fa un viaggio a Bucarest dove, per un curioso groviglio del caso, conosce Gabi, bella e triste musicista il cui padre è morto a bordo dello stesso aereo che aveva portato Charlie in Romania. Ma le frequentazioni di Gabi non sono delle migliori: Charlie si ritroverà alle calcagna lo spietatissimo ex-marito di lei, un gangster dal grilletto facile che traffica eroina attraverso l’Europa dell’Est.


La mia (im)modesta opinioneThe Necessary Death of Charlie Countryman (abbreviato ora al solo nome del protagonista per la distribuzione internazionale) è un film d’esordio e si vede. Una pellicola che potrebbe parere firmata dalle mani di un autore giovanissimo ma la cui sapiente tecnica tradisce certo un tocco più attempato. Frederik Bond, svedese, si è fatto le ossa prima alle accademie di cinema newyorchesi per poi lanciarsi in una fortunata (e premiata) carriera di regista pubblicitario. Un tocco, quello del pubblicitario, che il film sente, se non pesantemente, almeno pervasivamente.


Visivamente, musicalmente e drammaturgicamente ogni scena del film è una meravigliosa chicca a sé stante. Questo è ovvio: Bond è specializzato in pubblicità, ossia in video di breve durata capaci di concentrare con la massima concisione ed esattezza un’idea, una sfumatura. E in questo lo svedese par bravo. Ma un film non è uno spot pubblicitario, deve avere più che unità vera e propria almeno una parvenza di coesione stilistica. Ed è qui che casca l’asino. Complice una sceneggiatura difficoltosa e disarmonica, certo degna di un autore più rodato ed esperto, il Charlie Countryman di Frederik Bond appare un film confuso fra la storia romantica e il dramma criminale, fra l’adrenalina degli inseguimenti e le visioni dell’acido lisergico.


I personaggi sono approfonditi ma appaiono piatti perché alquanto banali. Li salvano soltanto le interpretazioni del vigoroso cast capitanato da Shia LaBeouf che pare star vivendo una nuova rinascita all’interno del cinema indipendente dopo la brutta parentesi iniziata con Transformers, continuata con l’ultimo terribile Indiana Jones e, a quanto pare, conclusasi fra l’inizio di quest’anno e la fine di quello passato. Sempre perfetta è la bellezza lunare di Evan Rachel Wood, vera eroina di favola nera. Altre figure notevoli sono quelle del regale Mads Mikkelsen e di Ruper Grint, a cui purtroppo è riservata una parte assai limitata.


La colonna sonora è da visibilio, specialmente quando commenta inseguimenti al ralenti o vedute a volo d’uccello sulla Bucarest notturna. Il dilemma è sempre lo stesso in ogni caso: Charlie Countryman è un film esteticamente notevole ma poco compatto, anzi abbastanza confuso. Ciò per fortuna non ne pregiudica troppo la visibilità. Ossia, vi divertirete di più a guardare il fantasioso ma pasticciato Charlie Countryman piuttosto che l’oscuro ma denso (?) Solo Dio Perdona. Una pellicola dal piglio giovanissimo, dunque, entusiasta ed esagitata. Da vedere, non da adorare.


Se ti è piaciuto guarda anche...Project X (2012) di Nima Nourizadeh, che condivide con Charlie Countryman lo scrittore Matt Drake. Cito poi lo Spring Breakers (2012) di Harmony Korine, il già detto Solo Dio perdona (2013) di Nicolas Winding Refn, 21 & Over (2013) di  Jon Lucas e Scott Moore. Parlando poi dell’indiscutibile spirito goliardico che attraversa tutto il film non si possono non citare il trashissimo EuroTrip (2004) di Jeff Schaffer e l’inglese The Inbetweeners (2011) di Ben Palmer.


Scena cult – Il trip di acido di Charlie (Shia LaBeouf ha effettivamente assunto acido lisergico durante le riprese, per un effetto di maggiore realtà) e lo spettacolare inseguimento in metro.

Canzone cult – Iniziamo con Stars dei The xx, la psichedelica Intro degli M83 e Shot in the Back of the Head di Moby e, sempre di Moby, il remix della canzone After realizzato da Drumsound & Bassline.

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