venerdì 26 ottobre 2012

THE LOVED ONES (2009), Sean Byrne


Australia, 2009
Regia: Sean Byrne
Cast: Xavier Samuel, Robin McLeavy, John Brumpton, Victoria Thaine, Richard Wilson, Jessica McNamee
Sceneggiatura: Sean Byrne


Trama (im)modesta – È il momento del ballo scolastico e Brent, raro esemplare di metallaro fighetto, declinerà l’invito di Lola Stone: lui al ballo deve andare con la fidanzata. Madornale errore. Brent infatti scoprirà a sue spese (spese tremende) che l’amore non corrisposto ha il sapore del sangue: il padre di Lola lo rapisce e lo porta in casa. Perché ogni ragazza avrebbe bisogno di essere la regina del ballo e poco importa se il ballo lo si fa a scuola o lo si mette in scena nel salotto di casa, con tutta la famiglia. Ma a Brent andrà peggio: l’allegra famigliola Stone ha l’hobby di collezionare “amichetti” da tenere come animali domestici. Brent non sarà d’accordo con queste risoluzioni, e per questo gli Stone proveranno su di lui tutti i mezzi di persuasione più efficaci per organizzare il ballo perfetto, e tenersi Brent per sempre.


La mia (im)modesta opinioneBella in Rosa incontra Hostel. Non c’è storia: l’Australia (come anche il Quebec, il Belgio e la Danimarca) è ormai una garanzia di altissimi livelli di cinematografia. The Loved Ones è un film sulla carta banalotto ma che viene portato avanti con un talento visivo di così rara bravura e con una regia tanto acida e tagliente che riesce a giocolare alla perfezione ora col registro grottesco ora con quello del più crudo torture porn. Perché, va detto anche questo, fra iniezioni di farmaci, trapanamenti craniali, piedi inchiodati per terra, cannibalismi, incesti, sgozzamenti, The Loved Ones è uno dei film più violenti che vi capiterà di vedere. Ma c’è di più (e questo ha dell’incredibile) in mezzo all’intero repertorio di numeri da grand-guignol, la pellicola di Byrne riesce anche a trovare ironia – un’ironia volatile, quasi invisibile, ma che si rivela bene riflettendo sul film: Lola è la classica ragazza che ha visto troppi film da ballo scolastico e ora è chiusa dentro una propria allucinazione privata.


Ironia, ho detto; e ironia che travalica gli stessi generi. Tutte le tappe chiave di film come Kiss Me o il sopradetto Bella in Rosa, che hanno creato in tutto il mondo il mito dello school prom e dei suoi riti. In The Loved Ones c’è tutto: il ballo romantico, la vestizione della donzella, la conquista dell’amato, l'incoronazione a reginetta. Solo che ognuna di queste tappe fisse viene declinata al sadico, virata al sangue. E così i gesti d’amore si fanno spaventose ferite, il fidanzamento diventa lobotomia casalinga e, viceversa, la brutale tortura si trasforma in vezzo infantile, la routine familiare in perversa barbarie. Ora, il film ha successo perché percorre questa strada fino in fondo, senza guardarsi indietro o indugiare da nessuna parte. Anzi il senso d’orrore cresce fino a un’impennata finale (aiuta anche la scelta del regista di annullare le musiche, preferendo brevi suoni o gravi silenzi) che normalmente chiamerei caduta di gusto ma che si dimentica piuttosto facilmente, considerando anche che le torture dipinte nel film sono ispirate ai crimini reali di Jeffrey Dahmer.


Altra potenza del film è lo scavo psicologico a cui i personaggi sono sottoposti. La maniera, sempre in chiave orrifica, di tratteggiare le traiettorie di affetti e azioni umane; una capacità incredibile, quella dell’autore, di incidere in profondità nella polpa dei loro personaggi e, più che raccontarne le storie, farci supporre tutto, immaginare tutto. L’inquietantezza del film è assoluta: le battutine melense scambiate tra il papà e la figliola, l’album dei ricordi di quest’ultima, la sua passione per il dolce rosa... tutto quanto, mescolato, alla strepitosa fotografia che invece esalta squallore e povertà, senza essere meno sontuosamente attenta ai colori. Dunque non solo The Loved Ones è entrato in un sol colpo nella top ten dei migliori horror di sempre; forte delle superlative performances dei suoi protagonisti, della regia d’acciaio, della cinematografia superba, si iscrive a buon diritto fra gli horror miracolosi della mia videoteca personale.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, dunque l’arciclassico Misery non deve morire (1990) di Rob Reiner e poi i più moderno ma ugualmente iconici La casa dei 1000 corpi (2003) di Rob Zombie e Calvaire (2004) di Fabrice Du Welz. Poi è chiaro il legame ai più illustri compari The Woman (2011) di Lucky McKee e Kynodontas (2009) di Giorgos Lanthimos. Altra perla, questa volta francese, è À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury mentre viene dai Paesi Bassi la saga di The Human Centipede (2009 e 2011) di Tom Six, vero tour de force dell’orrido.


Scena cult – Padre e figlia che ballano un lento. Allucinatissimo e pauroso.

Canzone cult – Ovviamente la brividosa Not Pretty Enough di Kasey Chambers.

giovedì 25 ottobre 2012

MAGIC MIKE (2012), Steven Soderbergh


USA, 2012
Regia: Steven Soderbergh
Cast: Channing Tatum, Alex Pettyfer, Matthew McConaughey, Cody Horn, Olivia Munn
Sceneggiatura: Reid Carolin


Trama (im)modesta – Mike è uno spogliarellista trentenne con un paio di sogni nel cassetto. Lavora in un club di Tampa, Florida; alle dipendenze del quarantenne Dallas, consumato mestierante in capo di striptease, insieme ai suoi colleghi più o meno riempitivi della pellicola (ma di questo parleremo dopo). Un giorno, durante il lavoro diurno, Mike incontra Adam, diciannove anni e zero soldi in tasca. Gli propone di lavorare al suo club come stripper e lui accetta. Mike inizierà Adam a una vita scintillante e ipersatura; che, alla fine, comincerà a corroderlo.


La mia (im)modesta opinione – Si possono dire molte cose su Magic Mike, ma non si può certo dire che manchi di originalità. Se c’è qualcosa che manca al film, devo ammetterlo, è il nerbo (il nerbo vero, la vera crudezza) anche se riesce, specialmente nel finale, a dipingere il quadro sontuoso di una malinconia grande, inspiegabile – una malinconia che si nasconde dietro lustrini, mutande di dubbio gusto e grotteschi numeri di spogliarello che coinvolgono signore di tutte le forme ed età. Motore immobile e Issione di questa sorta di piccolo planetario cinematografico è il Mike di Channing Tatum, che vive di succosa rendita, ma di cui dirò più tardi.


Altra pedina sul campo di gioco è Alex Pettyfer, che interpreta assai bene, in verità, il giovane Adam, un personaggio francamente antipatico. Non che l’antipatia del personaggio sia voluta dagli autori, certo, ma il personaggio non può che risultare antipatico nel quadro di squallore umano in cui si iscrive. Agnello in mezzo a un branco di lupi all’inizio, va bene. Lupo fra i lupi poi, ancora meglio. Ma trasformarlo in un ragazzino crapulone e imprudente, uno di quei gaudenti senza ardore, belloccio, per di più, me lo fa stare proprio antipatico. Poco importa del lungo, triste sguardo che Pettyfer ci regala a fine film o della bravura di un attore la cui carriera è forse troppo influenzata dal fisico scolpito e dal bel viso: il suo è il ruolo scomodo.


Il resto del cast, Matthew McConaughey a parte, è puramente riempitivo. La sorellina di Adam (di cui non ricordo nemmeno il nome) è un personaggio squallido recitato con lo sguardo di un pesce lesso. Giusto la figurante Riley Keough è protagonista di inquadrature parecchio suggestive. I colleghi stripper fanno la loro figura ma sono puramente accessori, e si vede. Non che questo pregiudichi il film, solo che fa pericolosamente salire l’indice di congestione e piattezza che si aggira per tutto il film – sensi questi, la congestione e la piattezza, che sono quasi ricercati dalla regia in quei campi lunghi silenziosi, nelle albe mute, nel silenzio delle isole sul fiume. Quella che abbiamo davanti è la Florida in tutta la sua coloniale, troppo matura gloria.


Grandezza della pellicola: Matthew McConaughey. È una sorpresa: di solito lo odio da impazzire. In questo film tanto fa e tanto dice che quasi mi sta simpatico. Una dolcezza che provo verso un uomo che è finito in trappola, chiuso dentro un guscio di noce che gli pare il mondo intero, pericolosamente vicino a una linea (la gioventù tramonta per tutti) che non vuole nemmeno vedere e ricopre di un finto entusiasmo per il suo lavoro, una felicità fatta col silicone e l’anabolizzante. Potrebbe anche darsi che si meriti una nomination all’Academy come migliore non protagonista. È lui la gran stella della pellicola; una stella al tramonto, certo, ma pur sempre esplosiva e accecante.


Ho molto apprezzato, nel film, il non concentrarsi sul lato erotico dello spogliarello quanto sul suo essere, in definitiva, grottesco, insensato, persino squallido. Se per le controparti femminili dei nostri protagonisti tutto il gioco si basa su giochi suadenti, quasi raffinati, per gli stripper di Magic Mike tutto si riduce a un involontariamente buffo sovraccarico di innuendi sessuali (spesso non troppo velati). No, il film non denuncia l’oggettivizzazione del corpo di questi poveretti, altrimenti sarebbe stato molto più forte e crudo… e io l’avrei apprezzato di più. Il problema è proprio questo: non si capisce di cosa il film stia parlando, manca uno scheletro saldo, una struttura portante. Nonostante la bravura di Soderbergh, Magic Mike sembra una storia di qualcosa, ma non si sa di cosa.


Non parlo per facile moralismo ma per senso della drammaturgia. Uno spettacolo deve essere costruito intorno a qualcosa, si dice che è buono se è costruito intorno a qualcosa di forte. Magic Mike è costruito sul nulla: quello che ci resta, dopo la visione, è l’alone di una tristezza, un senso di piattezza inquietante, il potere corrosivo di un mondo che non può che attirare ma che nemmeno è condannato o celebrato. Né il film è lo studio su un personaggio specifico, dato che né Mike né Adam sono oggetto di un’analisi vera e propria. Infatti è importante, per un film, possedere dei dialoghi ben scritti e un’evoluzione originale (e Magic Mike la ha) ma se manca la trama tutto si perde, almeno parzialmente. Dunque mi chiedo: Steven Soderbergh, qual è il punto?


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per una migliore trattazione di temi come lo sfruttamento sessuale, la malinconia e la solitudine abbiamo due film, da me recensiti, che vanno sotto il nome di My OwnPrivate Idaho (1991) di Gus Van Sant e di Body Without Soul (1996) di Wiktor Grodecki. Per la figura del macho man che affronta l’inarrestabile declino, c’è il mitico Frank Mackey di Tom Cruise in Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson. Inquietante filmetto con al centro il mondo delle stripper è Exotica (1994) di Atom Egoyan; mentre per una gemellanza con Magic Mike il solo film immaginabile è il Coyote Ugly (2000) di David McNally.


Scena cult – Le inquadrature del bacino del Missisipi, tristi e colossali, e la meravigliosa scena del club; come anche lo spogliarello selvaggio del vecchio Dallas.

Canzone cult – Ovviamente la Victim di Win Win e Blaqstarr.

lunedì 22 ottobre 2012

JUAN DE LOS MUERTOS (2011), Alejandro Brugués


Cuba, Spagna, 2011
Regia: Alejandro Brugués
Cast: Alexis Díaz de Villegas, Jorge Molina, Andros Perugorría, Andrea Duro, Jazz Vilá, Eliecer Ramírez
Sceneggiatura: Alejandro Brugués


Trama (im)modesta – Juan è uno scioperato perdigiorno che vive a Cuba. La vita di Juan è caratterizzata dalla grande povertà ma anche dalla gioiosità più scalmanata. Vecchio topo di città, pieno di amici, pieno di amanti, Juan è felice e soddisfatto senonché un bel giorno, a Cuba, esplode un’epidemia di zombie. Ben presto Juan si adatta insieme ai suoi amici nel suo nuovo mondo e organizza insieme all’amico di una vita Lazaro, a suo figlio Vladi, al travestito La China e a un gigante nero che sviene alla vista del sangue, senza nome. Dopo varie avventure e vicissitudini, Juan ritroverà la figlia e la speranza di scappare da Cuba verso una vita migliore.


La mia (im)modesta opinione – Signori e signore, vi presento l’horror indipendente dell’anno. Strano a dirsi per il primo film indie prodotto da Cuba, che, fra le altre cose, è, fra le produzioni cubane, la più costosa di sempre. Juan de los Muertos è un film semplicemente geniale, divertentissimo e, meraviglia delle meraviglie, drammaturgicamente perfetto. La trama contiene al suo interno abbastanza, proporzionato spazio per la commedia horror cazzara, il profondo impegno sociale mascherato da satira, il fine riferimento cinematografico e, addirittura, la costruzione di brillanti personaggi chiusi dentro una storia di granito. Esagero con l’entusiasmo? Forse, ma è incredibile vedere film come questi; che non perdono in tensione comica nulla per l’intera durata del film; una comicità imprevedibile, insieme grossa e velenosa, profondamente intelligente, fantasticamente irta di arguzie e battutacce  e soprattutto incredibilmente acida nei confronti del mondo contemporaneo e dell’establishment cubano dell’epoca.


Nonostante lo humor nero (mai la violenza è stata così divertente, e divertita), la vera accostolata del film è la satira politica – una satira certo di bandiera, basti pensare che l’infezione di zombie inizia in una protesta di filo-americani, che però riesce anche a concedersi sottigliezze sotto le sottigliezze, righe fra le righe e si vedono balzi d’arguzia affilata affiorare nell’ombra. Come tutte le grandi pellicole, anche Juan de los Muertos getta una grande ombra. E dunque vediamo una protesta sorda e ripetuta contro i media manipolatori, contro l’ottusità della pubblica opinione, contro le falle economiche del fisco, contro le giovani generazioni costrette a scappare dall’inferno, contro i pochi che restano e, eroicamente, si sacrificano. Juan assume dunque, sul finale del film, un’aria di eroe popolare, un bastian contrario del vivere civile, un vero cubano delle strade che è tutt’uno con la terra che gli appartiene a ne divide pregi e difetti, virtù e povertà.


Ma è anche il resto del cast a illuminare il resto della pellicola – una pellicola che sembra scritta a quattro mani da Matt Groening e Quentin Tarantino: c’è l’esilarante Sancho Panza della situazione, il vecchio satiro Lazaro; c’è suo figlio, fighetto del quartiere e latin lover della situazione; c’è La China, esilarante travestito tutto bistrato e truccato, che bazzica il quartiere in compagnia di El Primo, taciturno molosso di colore che sviene alla sola vista del sangue. Juan de Los Muertos è illuminante anche per questo: per la sua ironia affilata sulle regole stesse dello zombie movie. Ogni topos del genere viene fatto a pezzi con divertita crudeltà, in certi punti si accenna anche alla comparsa, nel cinema zombie, di morti viventi che corrono da velocisti invece che arrancare, come ai loro inizi. Lo ripeto, la sceneggiatura del film è un fuoco di genialità, la regia stessa (ma regista e sceneggiatore, qui, coincidono) è un delirio visivo di campi lunghi, inquadrature-citazione, fotografia da paura. Unico difetto: gli effetti speciali, alquanto manchevoli.


Veniamo poi alla protagonista muta della pellicola: la tetra maestà di La Habana, città dormiente, torpida ma anche caldissima, ferace, selvaggia; si tocca veramente la poesia in certe scene di devastazione collettiva ai più sacri monumenti del regime di Castro. Tutte le apici della malinconia e insieme del riso amaro si toccano quando, dietro ai due protagonisti, si spengono per sempre le grandi scritte al neon che recitano: «Habana Libre». Cuba è la vera protagonista dell’opera di cui si racconta, il grembo materno dove i personaggi sono solo larve che si muovono nel corpo che li sta gestando. La città è alla sua bellezza più fulgida in tutte le occasioni: sotto il sole dorato del mezzogiorno, ai primi grigiori dell’alba, nella torrida notte tropicale. Ogni ambiente è fotografato: dai grandi palazzi del potere centrale ai poveri sobborghi, quasi più belli dei monumenti. Juan de los Muertos è un film che semplicemente non ci si può perdere, stupendo al suo massimo, un inno d’amore alla Cuba che non c’è più.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Primo riferimento: il grande Shaun of the Dead (2004) di Edgar Wright; il classico assoluto 28 Giorni Dopo (2002) di Danny Boyle; la serie tv The Walking Dead (2010) creata da Frank Darabont; L'alba dei morti viventi (2004) di Zack Snyder e Cimitero Vivente (1989) di Mary Lambert. Horror sempre geniale, ma da questo diverso, è TheCabin in the Woods (2011) di Drew Goddard. Altro intrigante horror è Vacancy (2007) di Nimród Antal, solo un innocuo grand guignol all’apparenza, che nasconde inquietanti interrogativi sulla vittima, sul carnefice e su di chi sia il posto davanti alla telecamera e di chi dietro.


Scena cult – Troppe per potersene ricordare. Cito l’unica che non fa ridere: la gloriosa ultima scena.

Canzone cult – Non pervenuta.

mercoledì 17 ottobre 2012

BREAKING BAD, Stagione 2 (2009), Vince Gilligan


USA, 2009
Regia: Bryan Cranston, Charles Haid, Terry McDonough, John Dahl, Johan Renck, Peter Medak, Felix Alcala, Michelle MacLaren, Phil Abraham, Adam Bernstein, Colin Bucksey
Cast: Bryan Cranston, Aaron Paul, Anna Gunn, Dean Norris, RJ Mitte, Giancarlo Esposito
Sceneggiatura: J. Roberts, George Mastras, Peter Gould, Sam Catlin, Moira Walley-Beckett, Vince Gilligan, John Shiban


Trama (im)modesta – Dopo essere entrati in contatto con un grosso spacciatore ed essersi messi in guai ancora più grossi, il signor White e Jesse si mettono in affari per conto proprio. Walt deve ancora pagare le esose bollette mediche e Jesse, dopo essersi scontrato con gli odiamati genitori, ha perso tutto. Mentre la loro fama si sparge in città, i cristalli blu di Walt cominciano a valicare i confini nazionali. Sia il signor White, seppur con il suo pseudonimo di Heisenberg, sia Jesse attirano l’attenzione dei cartelli della droga messicani. E mentre entrambi cercano di ricostruirsi una vita, Walt con la sua salute e la sua famiglia e Jesse con una nuova casa e una nuova fidanzata, la situazione precipita ancora. Ad aiutare i nostri eroi, ecco entrare in scena due nuove pedine: il viscido e diabolico principe del foro, l’avvocato Saul Goodman; e il raggelante signore della droga Gustavo.


La mia (im)modesta opinione – Dopo una folgorante ma non adamantina prima stagione, Breaking Bad prosegue veloce, ingrandito, rafforzato. Gli episodi ora sono tredici ma scorrono tutti velocemente: con ogni puntata così prontamente saldata all’altra, pare di mangiare noccioline. Breaking Bad torna per una seconda stagione, dunque, che si annuncia più problematica e complessa della prima. Nota positiva: se nella prima stagione era Walt White a titaneggiare sullo schermo, adesso c’è altra gente sotto i riflettori. Finalmente si aggiungono nuovi brillanti personaggi e si approfondiscono le psicologie dei comprimari della prima stagione. Eccezion fatta, ovvio, per Skyler e Marie, che rimangono le due sorelle più noiose e irritanti della storia del drama.


Oltre a Walt White che, oltre a un momento decisivo della penultima puntata, non si spreca in numeri mirabolanti come quelli dei suoi inizi, i grandi poli d’attrazione della seconda stagione sono il socio di Walt, il giovane tossico Jesse Pinkman, e suo cognato, Hank Schrader. Quella di Jesse è una storia triste. Se nella prima stagione avevamo avuto un piccolo assaggio della sua vita privata, in questa seconda stagione lo vediamo farsi di carne e sangue. Non è credibile come tossicomane, ma lo è come persona. Persona vera, reale, umana. Il suo pianto disperato nell’ultima puntata è stato una scena sconvolgente, nel suo essere toccante. Jesse Pinkman era il teppistello della porta accanto; ma ora gli si danno sentimenti, consistenza, cuore.


Stupendo è anche il rapporto che Jesse instaura con Walt. Se nella prima stagione i due erano semplicemente soci, adesso cominciano ad essere amici, a sostenersi, a esserci l’uno per l’altro. Certo i litigi non mancano affatto, anzi gli insulti e i ceffoni volano che è un piacere ma anche nello scontro l’accoppiata Jesse/Walt ha una chimica magica, da paura. Una relazione che si salderà più fortemente anche nella terza stagione, la loro è una delle bromance più belle e commoventi che abbia mai visto; l’amicizia che nasce quando si deve mantenere un segreto inviolabile, l’amicizia che c’è fra due persone che hanno visto e sopportato di tutto e adesso possono farsi forti dell’esperienza vissuta insieme.


Altro grande personaggio della stagione è Hank Schrader, cognato di Walt e agente della DEA. Capiamoci, non che in questa stagione le vicende familiari di Walt diventino più interessanti, anzi. Ma la figura tormentata del poliziotto che comincia a perdere colpi, che scopre di poter tremare davanti alla vista dell’orrore del mondo, che trova in sé una rabbia nuova, una ferocia contro il destino stesso che ha così deciso di ingiuriarlo, fanno di Hank una figura monumentale, quasi eroica. Paradossalmente, è proprio nella fragilità più estrema e nella vertigine del vuoto che ci si accorge della forza erculea di un uomo d’acciaio com’è Hank. Inoltre, va detto, Hank è il protagonista di una delle scene più pulp della stagione.


Sorvolando sopra le mogli di Walt e di Hank, tutte e due perfettamente insignificanti, e scavalcando anche l’azzoppato figlio di Walt (se gli sceneggiatori l’avessero fatto muto sarebbe stato così tanto intrigante), passiamo ai meravigliosi comprimari da romanzo criminale che fanno capolino sul nostro palcoscenico. Prima arriva Saul, bastardissimo azzeccagarbugli con le mani in pasta praticamente dovunque; dunque, silenziosamente, incontriamo Gustavo “Gus” Fring, sommo signore della droga, eminenza grigia del crimine di New Mexico e stati limitrofi, sconcertante ritratto della Banalità del Male, con quella sua faccia liscia e inespressiva e gli occhialetti da impiegato di terz’ordine che nascondono intelligenze diaboliche e affilate minacce.


Complessivamente la stagione è buona, lo svolgimento della trama occupa un po’ troppo spazio ma forse è una cosa necessaria. Punto forte della serie sono quelle scenette che non ti aspetteresti mai e che, fra uno sbadiglio e l’altro, conducono al sublime finale della penultima puntata che, da sola, vale la serie tutta intera. Intendiamoci bene però: la serie mantiene ancora un livello generale da capogiro, solo che, in questa stagione, si perde un po’ per strada. il bello di Breaking Bad è proprio la soluzione fra mondo criminale da rivista pulp e bigia quotidianità. La chimica è fragile e forse gli autori sbagliano, di volta in volta, il dosaggio. Ma è per un buon fine. Grandissimi, ancora una volta, tutti gli attori, tutti gli autori e ancora stupende le musiche e la fotografia. Alla fin fine, il crimine paga.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Citazione al cinema nostrano: Romanzo Criminale (2005) di Michele Placido. Poi snocciolo una perla orientale, ovvero Brother (2000) di Takeshi Kitano; insieme al grande Il cattivo tenente (1992) di Abel Ferrara. A Breaking Bad assomiglia vagamente anche il classico del crimine Donnie Brasco (1997) di Mike Newell e il granitico American Gangster (2007) di Ridley Scott. Volendo spaziare fra i generi, per la dipendenza dalle droghe abbiamo il sommo Requiem for a Dream (2000) di Darren Aronofsky, Candy (2006) di Neil Armfield, Panico a Needle Park (1971) di Jerry Schatzberg e Drugstore Cowboy (1989) di Gus Van Sant.


Scena cult – Penultima puntata, in casa di Jesse. E ho detto tutto.

Canzone cult – Iniziamo con il pezzo di storia By the Number di John Coltrane, proseguiamo sulle note di Nancy Sinatra e la sua It's Such a Pretty World Today; e approdiamo ai Calexico con Banderilla per finire con la malinconica Life di Chocolate Genius.

martedì 16 ottobre 2012

THE CAMPAIGN (2012), Jay Roach


USA, 2012
Regia: Jay Roach
Cast: Will Ferrell, Zach Galifianakis, Dylan McDermott, Brian Cox, Dan Aykroyd
Sceneggiatura: Chris Henchy,  Shawn Harwell


Trama (im)modesta – Cam Brady è un famoso politico, cinque volte membro del Congresso, corrotto fino al midollo con tutti i vizietti di italiana stirpe che il caravanserraglio del nostro ex-Premier ci ha insegnato: escort, volgarità gratuite, slealtà di ogni tipo, droghe, festini selvaggi. Dopo l’ennesima gaffe, due importanti e ricchissimi industriali decidono di creare dal nulla un nuovo candidato-fantoccio che risponda ai loro desideri. La loro scelta ricade su Marty Huggins, mite e delicato padre di famiglia, che, da un giorno all’altro, si trova catapultato nel mondo infuocato dell’agone politico. Così, fra un’ipocrisia e l’altra, la campagna elettorale va avanti senza esclusione di colpi, fino alla votazione finale.


La mia (im)modesta opinione – Si può dire di tutto, guardando questo The Campaign, opera partorita dal grande Jay Roach, papà cinematografico del mio santo personale: Austin Powers. Mentre lo guardavo, devo confessarlo, ero davvero entusiasta. Entusiasta non per la particolare grandezza cinematografica del film (che comunque è molto, molto valida) quanto per l’apparizione di un genere di commedia che ritenevo ormai scomparso per sempre: il comico puro, mescolato alla satira più perversa e spietata. Del resto, cosa ci si poteva aspettare dal produttore di Borat? The Campaign è un film che funziona su tutti i livelli, non c’è scena che non finisca in gag e non c’è gag che appaia stanca, o peggio ancora sciocca. Anche quando tutto questo fosse sufficiente da solo (e lo è) il film si porta ancora più avanti e rompe il muro del suono della modernità: la satira è affilatissima, scorretta al massimo; le citazioni alla cultura pop sono vulcaniche (il pugno al cagnolino di The Artist? Geniale); tutto, insomma, riesce a far ridere senza essere un comico troppo alla grossa.


Protagonisti del film sono i due “onorevoli” che si contendono il seggio. Due omuncoli paradossali, eccessivi; ma del tutto esilaranti. All’angolo destro del ring c’è Cam Brady (finto) padre di famiglia, puttaniere incallito, venduto fino all’ultimo centesimo a ogni industriale, del tutto disinteressato alle sorti dei suoi elettori. Davanti a lui sta Marty Huggins, rotondo ed effeminato signore di campagna, pieno di hobby delicati, amante dei suoi dolci carlini. Inutile dire che, nel corso del film, Marty subirà un completo restyling da parte di Tim Wattley (Dylan McDermott mi ha fatto morire dal ridere) che lo farà diventare il classico macho-man americano, fanatico di fucili e pistole, con due bei baffoni alla Tom Selleck. Inutile dire come entrambi i personaggi siano utili allo strumento satirico degli autori: con Cam Brady vediamo il lato scintillante e corrotto dell’arena politica, con tutte le volgarità nascoste, il perbenismo che nasconde torride telefonate a prostitute; con Marty Huggins la svendita della politica, la disponibilità degli elettori a farsi infinocchiare dal primo venuto a cui basta, per ottenere il trionfo, solo adattarsi a uno stereotipo nazionale.


La bassezza umana, poi, dell’intero circondario di politici e aiutanti è meravigliosa. La campagna stessa, tutta basata sulle bastardate reciproche, ne è un esempio. I due candidati che litigano per dare un bacio a un bambino, i dispetti da terza elementare, gli insulti, i reciproci sgambetti, tutto è teso a dipingere una classe politica rozza, corrotta, debosciata e disinteressata a elettorati e famiglie. Persino una velata allusione ai brogli elettorali è fatta. Tutto merito, dunque, di una grande sceneggiatura che, però, è colpevole, in certi momenti, di aver inanellato una serie di gag di sicuro effetto ma di quando in quando di scarsa pertinenza allo svolgimento della trama. Ma questo, per fortuna, capita solo per poche scene (la riunione di famiglia degli Huggins in cui ognuno racconta i propri segreti) che hanno la fortuna di essere divertentissime e, per questo, vengono senz’altro perdonate.


Il cast, poi, è azzeccatissimo. Si va da un Will Ferrell al suo meglio, a un Zach Galifianakis di rara bravura capace di impersonare, con assoluta credibilità, entrambi i lati del suo personaggio: delicato e morbido santarellino di provincia da un lato, e minaccioso guerrafondaio dall’altro. All’equazione si unisce un Dylan McDermott incredibile, stupendo nella sua impassibile freddezza. Una piccola parte la ha pure il grande Brian Cox e l’ex blues brother Dan Aykroyd nella parte del corrottissimo industriale. La regia di Jay Roach (ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo) giostra il film con arte consumata: la comicità è perfetta, sopra le righe al punto giusto, tagliente ma non offensiva, intelligente seppur sboccata. Grazie agli autori il film riesce a evitare la trappola della demenzialità fine a se stessa e così contribuiscono a confezionare un film che figurerà senza timore alcuno fra le migliori commedie dell’anno.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Il richiamo al grande classico è uno: l’augusto Mr. Smith va a Washington (1939) di Frank Capra. Per un altro filmone granitico sulla politica corrotta potete vedere l’acclamato ma, a mio parere, noioso Le Idi di Marzo (2011) di George Clooney, oppure il molto più esaltante Good Night and Good Luck (2005) sempre di George Clooney. Abbiamo inoltre il grandissimo Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula. Se vogliamo buttarla sul comico, invece, a venirne in mente è ovviamente The Dictator (2012) di Larry Charles.


Scena cult – La telefonata di Cam Brady alla prostituta, ascoltata erroneamente da una devota famiglia cristiana a tavola.

Canzone cult – Non pervenuta.

lunedì 15 ottobre 2012

TED (2012), Seth MacFarlane


USA, 2012
Regia: Seth MacFarlane
Cast: Mark Wahlberg, Mila Kunis, Seth MacFarlane, Joel McHale, Giovanni Ribisi
Sceneggiatura: Seth MacFarlane, Alec Sulkin, Wellesley Wild


Trama (im)modesta – Boston, 1985. Il bambino John Bennett esprime un desiderio: che il suo orsacchiotto di peluche prenda vita e sia il suo migliore amico. Sorpresa inaspettata, il desiderio si avvera e l’orsetto Ted prende davvero vita, diventando il miglior amico di John. Passano molti anni, John è ormai trentacinquenne, fidanzato da quattro anni con la bellissima Lori e ancora amico di Ted che, da tenero e dolce orsacchiotto, è diventato un alcolista debosciato con un debole per le escort, le droghe leggere e le feste selvagge. John e Ted sono ancora strettissimi amici ma Lori chiede a John di crescere e di separarsi dall’amato orsetto di peluche. Ma abbandonare il mondo della propria infanzia si rivelerà più arduo del previsto.


La mia (im)modesta opinione – Ci sono autori che lavorano per il mondo dello spettacolo che hanno lasciato un’impronta profondissima nel sostrato culturale della nostra società. Seth McFarlane è uno di queste persone. Sceneggiatore, attore, doppiatore, cabarettista e cantante statunitense, quella di McFarlane è un’esperienza di conoscenza dello showbiz a trecentosessanta gradi; accompagnata da una grande conoscenza della cultura popolare moderna e da un occhio critico davvero non da poco, capace di andare a fondo di stereotipi e tabù dello spirito moderno e di svergognarne senza pietà nevrosi e ipocrisie. Dopo quella titanica pletora di scorrettezze che sono stati I Griffin, suo opus magnum, il signor McFarlane si è dato al cinema diregendo, scrivendo e doppiando Ted, storia di un orsacchiotto particolarmente volgare.


Con queste referenze e, dunque, queste aspettative mi aspettavo da Ted una delle commedie più esuberanti e incontenibili che avessi mai visto, ma ne sono rimasto in parte deluso. Non che il film manchi di divertimento; anzi, ci sono due o tre scenette che non mi dimenticherò troppo facilmente. Ma il problema più grande è che, come capita ormai a quasi tutte le commedie, il film manca di quella intelligente demenzialità capace di farlo diventare un vero classico, come ci si sarebbe aspettato. Mi spiego meglio: classici del comico sono i film di Jim Abrahams e dei fratelli Zucker, le grandi parodie con Leslie Nielsen e Charlie Sheen che riciclavano ad arte tutti gli stereotipi filmici ereditati dagli anni ’70 e ’80 frullandoli in film che erano sì dei trip ad alto tasso di cretinaggine ma che riuscivano discretamente bere a mescolare assurdo e parodia dello stereotipo.


Così parte Ted, e così continua; ma a un certo punto si perde per la strada. E temo che la puzza che sento sia quella di una velata denuncia ai giovani d’oggi, incapaci, anche da adulti fatti e finiti, di staccarsi dal mondo ludico della non-responsabilità, e di una spensieratezza che perde facilmente ma che con ardore continua sempre a ricercare, mandando al contrario il giro dell’orologio. Ovviamente questo spunto in Ted è presente ma si perde in una trama che si scorda di essere paradossale e delirante come ci si aspetterebbe e si butta sulla trama usata della commedia americana, rovinandosi. Insomma Ted si va a smarrire nel labirinto del semiserio e, eccettuata qualche gag al vetriolo che è davvero esplosiva, finisce per perdersi nella banalità.


Peccato, un film come Ted poteva mirare davvero davvero in alto. È zeppo di sequenze da antologia come le citazioni ad Airplane!, Flash Gordon e alla cultura generale in genere. Poteva muoversi sulle tracce interessanti degli spunti da commentario sociale mascherato da farsa, ha scelto di volare più basso. Il cast, devo dirlo, non è troppo indovinato. Mark Wahlberg è antipatico come sempre, Mila Kunis è troppo bella per essere vera (mi rammento che diavolessa era ne Il Cigno Nero) e solo Seth McFarlane insieme agli esplosivi comprimari riesce a dare turgore alla vicenda. Segnalo inoltre un esilarante cameo di Ryan Reynolds in un inedito ruolo di amante gay del collega di John.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Dissacranti, kitsch, ipercolti, pazzissimi. Così sono i film familiari a Ted. Iniziamo con i grandi classici Shrek (2001) e Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, continuiamo con il folle Zoolander (2001) e il più ordinato ma non meno esplosivo Tropic Thunder (2008) di Ben Stiller. Citiamo poi le grandi parodie “classiche”: Una pallottola spuntata e il suo sequel, Una pallottola spuntata 2½, (1988 e 1991) di David Zucker; l’immortale, primo Airplane! (1980) di Jim Abrahams e David e Jerry Zucker; i portentosi Hot Shots! e Hot Shots! 2 (1991 e 1993) di Jim Abrahams e, ovviamente, l’altissimo, onnipotente Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks.


Scena cult – Oltre al meraviglioso cameo di Ryan Reynolds, cito il trip mentale di John alla vista di Sam J. Jones, adorato interprete di Flash Gordon, suo film preferito.

Canzone cult – Non pervenuta.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...