lunedì 30 aprile 2012

MAGNOLIA (1999), Paul Thomas Anderson


USA, 1999
Regia: Paul Thomas Anderson
Cast: Jason Robards, Philip Seymoyur Hoffman, Tom Cruise, Julianne Moore, William H. Macy, John C. Reilly, Melora Walters, Philip Baker Hall, Jeremy Blackman
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson


Trama (im)modesta – Los Angeles. Un ricco produttore televisivo (Robards), ormai sul letto di morte, circondato dalla giovane moglie (Moore) rosa dai sensi di colpa per averlo sposato solo per il denaro e da un infermiere (Hoffman), chiede di poter rivedere il figlio perduto: Frank (Cruise) che, dopo essere stato abbandonato dal padre, si è riciclato come guru del machismo e del maschilismo. Intanto un attempato conduttore televisivo (Hall) al cui programma partecipa il triste bambino prodigio Stanley (Blackman) scopre di avere un cancro alle ossa che lo ucciderà in pochi mesi e cerca di recuperare il rapporto perduto con la figlia cocainomane (Walters) che, nella sua disperazione, incontra un poliziotto bietolone, Jim (Reilly) proverà a uscire dalla solituidine. A questi si unisce un ex-enfant prodige dei quiz televisivi, caduto in disgrazia, derubato dai suoi genitori che cerca di fare colpo su un atletico barista.


La mia (im)modesta opinione – Un’opera, Magnolia, che, letterariamente, può essere solo paragonata a La Commedia Umana di Balzac, ovvero una serie di romanzi, racconti e saggi che hanno l’intenzione di descrivere la realtà tutta a livello enciclopedico. un’opera dove i personaggi si rincorrono, si scontrano, si incrociano. Lo stesso può essere detto per Magnolia, un film che non è cinema ma è la Vita, racchiusa in un solo, mastodontico giro di valzer che ci regala una visione a trecentosessanta gradi sia della vita che dell’arte. In Magnolia si mescolano infatti le suggestioni di tutti i generi: l’ansia del thriller psicologico, la commozione del dramma umano, lo struggimento della love story, le risatine a fior di labbra della commedia brillante, i guizzi di immaginazione del film sopra le righe.


Anderson strizza ogni minuto disponibile. Non c’è un’inquadratura che vada sprecata, una scena di troppo, un dialogo inutile. Tutto è funzionale, ogni parte è saldata con forza alla parte precedente e a quella successiva. Questo potrebbe far accostare Magnolia alle opere di Wagner e al loro horror vacui. Un film come questo, a dire il vero, non dovrebbe essere nemmeno commentato, per due motivi: il primo, una pellicola del genere si commenta benissimo da sola, è troppo grandioso per non lasciare a bocca aperta; il secondo, davanti a questo film ogni altra critica e ogni altro film si rivelano riduttivi, limitati, incompleti.


Magnolia è tutto. Condensa tutto, parla di tutto, vede tutto. La sua realtà è a tutto tondo, descrive ogni momento della vita umana, dall’infanzia fino alla vecchiaia, toccando tutti i temi possibili: la morte, le dinamiche familiari, la gloria, la vanità delle cose del mondo, il caso e la provvidenza divina, l’amore, la disperazione, la colpa, la decadenza, il tradimento. Non c’è un argomento che non sia scandagliato, approfondito, scavato fino al midollo e poi analizzato, studiato con minuzia e chirurgica precisione, suddiviso nelle sue parti più infinitesime e poi ricollegato all’insieme. Nella trama del film non c’è nulla di esaltante, eppure il film lo è, perché contiene tutto ed immerso in una filosofia profonda, amara ma puramente genuina che ci colpisce dritto al cuore.


Dal punto di vista della cinematografia, Magnolia risulta ancora una volta impeccabile. Sontuosi movimenti della camera, primi piani che sono ritratti fiamminghi (Julianne Moore qui batte tutti, è la donna più perfetta che abbia mai visto sullo schermo), musiche enormi e prostranti che lasciano svuotati e adoranti, sequenze autenticamente spettacolari, sopra le righe ma non per questo meno plausibili. I personaggi di Magnolia fanno molto metacinema: sanno di essere sopra un palcoscenico ma, al tempo stesso, sanno che quel palcoscenico è la realtà o la finge con aderenza pressoché perfetta. Le interpretazioni degli attori sono perfette fino al minimo dettaglio: stupendi sono Tom Cruise, Julianne Moore, il piccolo Jeremy Blackman e Melora Walters, tutti gli altri sono comunque ad un livello di bravura indicibile, che molti altri non potrebbero mai sognare di raggiungere.


Di Magnolia non si può dire altro. Bisogna vederlo, ma più che vederlo lasciarsi sopraffare dalla valanga delle sue scene e dei suoi personaggi, dalla perfezione delle sue inquadrature, dallo sfolgorio dei suoi dialoghi. Magnolia uscì nel Dicembre del 1999: quale film migliore per coronare il ventesimo secolo e inaugurare il ventunesimo? Ma credo che, fino ad ora, questo film rimanga ineguagliato nella sua esplorazione totale e perfetta della realtà umana, tutto il resto, al confronto, è solo uno scarso frammento.


Se ti è piaciuto guarda anche... – I film omnicomprensivi come Magnolia son pochi. Tra i più importanti annovero Requiem for a Dream (2000) di Darren Aronofsky, spaccato allucinato e visionario della più cruda fetta di realtà: quella dei drogati, dei caini e dei disperati; il gigantesco film a episodi (in realtà un insieme di dieci mediometraggi) Decalogo (1989) di Krzysztof Kieślowski, immenso affresco di un mondo alla ricerca di un Dio che ha perduto; il caotico e coloratissimo Roma (1972) di Federico Fellini, sterminato inno d’amore alla vita che anima incessante la Città Eterna; l’emotivo Crash (2004) di Paul Haggis e, per finire, il capolavoro America Oggi (1993) di Robert Altman.


Scena cult – Assolutamente il momento pseudo-musicale in cui tutti i protagonisti canticchiano a fior di labbra la Wise Up di Aimee Mann.

Canzone cult – Le musiche di Jon Brion sono semplicemente perfette, nel loro equilibrio fra epica e lirica, però una canzone mi ha colpito più di tutte ovvero la stupenda One di Aimee Mann (che ha cantato quasi tutte le canzoni della soundtrack) che riflette in termini infantili ma enigmatici i complessi significati di tutto il film. «One is the lonliest number that you’ll ever do».

domenica 29 aprile 2012

HUSK (2011), Brett Simmons


USA, 2011
Regia: Brett Simmons
Cast: Devon Graye, Wes Chatam, C.J. Thomason, Tammin Sursok, Ben Easter
Sceneggiatura: Brett Simmons


Trama (im)modesta – Cinque amici si stanno dirigendo verso una casa al lago per passare un week-end a base di relax e divertimento. Mentre attraversano una solitaria zona di campagna, uno stormo di corvi si schianta contro il parabrezza della loro macchina, facendoli uscire fuori strada. Quando torneranno lucidi, dopo lo shock dell’incidente, si renderanno conto che uno di loro è scomparso. Due di loro vanno a cercarlo nel vicino campo di granturco, notando le tracce di un passaggio recente, ma quello che scopriranno andrà ben oltre le loro aspettative.


La mia (im)modesta opinione – Che cosa mi ha attizzato di più in Husk? Non lo saprei dire. In fondo è il classico horror a base di un gruppo di giovani che in vacanza in una località sperduta finisce nelle mani di un’entità crudele e malevola. Però Simmons riesce a coinvolgere lo spettatore mescolando una trama (più o meno) ben congegnata, affidata a un gruppo di attori che non sono il trito defilé di modelli e modelle che si dirigono al mattatoio ma sono anzi un gruppetto eterogeneo e “alternativo”. Che poi i protagonisti dei film dell’orrore siano fondamentalmente creature di stupidità congenita e ottusità inveterata, è fatto risaputo. Dunque Husk procede tra originalità e sciatterie a formare un horror tutto sommato avvincente e guardabile.


La principale originalità di Husk sta nel suo sviluppo. Ogni horror che si rispetti, infatti, può essere suddiviso in tre parti: c’è una presentazione in cui vediamo la situazione di partenza, solitamente normale e realistica; segue la svolta imprevista che ci sorprende con le apparenze di soprannaturale e orrifico e infine abbiamo lo scioglimento in cui uno o più protagonisti soccombono o fanno soccombere il “cattivo”. Ora, in base all’alchimia reciproca di queste parti, si caratterizza la qualità di un horror: se la presentazione è notevolmente sviluppata di solito c’è un maggiore approfondimento di temi e psicologie, se è sviluppata la svolta orrifica si hanno spesso horror mediocri che tendono a terrorizzare con i trucchetti sporchi in stile “pupazzo a molla” (ovvero qualcosa di non spaventoso ma che con il suo arrivo improvviso spiazza lo spettatore).


Un’altra categoria di horror, di solito gli indie horror, presentano la parte dello scioglimento più sviluppata. Sviluppare lo scioglimento di un horror è cosa difficile perché una volta che il trucco è stato rivelato il film dell’orrore deve volare sulle sue ali e non su quelle della paura dello spettatore. A questo punto possiamo dire che Husk sbatte le ali per un poco poi cade a terra, ma non troppo malamente. Lo scioglimento del film, dopo la scoperta del mistero, è frenetico, inquietante e alla paura si mescola l’adrenalina. Che poi il finale sia piuttosto velenoso è cosa gradita ma un po’ troppo abusata. Ma in ogni caso glielo perdoniamo: il film è, già nelle intenzioni, parecchio disimpegnato.


La trama contorta e occasionalmente involuta (perché il personaggio di Devon Graye, Scott, ha visioni rivelatrici sull’origine della maledizione?) è il marchio di fabbrica della After Dark, casa produttrice di indie horror che ci ha regalato lo stupendo Dread e il meno bello ma comunque inquietante Seconds Apart. Il film però ha il pregio di non deludere del tutto, grazie alla brillante idea alla base e ai momenti più creepy che riescono a costruire un’efficace atmosfera horror, che però risulta bella alla prima visione, noiosa alla seconda. È vero, il film avrebbe potuto essere un po’ più inquietante ma io preferisco metterlo nella categoria degli horror flicks estivi: brividi a buon mercato, sceneggiatura tutto sommato intelligente e un cast affiatato.



Se ti è piaciuto guarda anche... – I film come questo, su un gruppo di ragazzi che finisce in mano a un’entità malevola, non si contano nemmeno. Se però si volesse vedere un horror estivo, di facile digestione, la merce migliore sul mercato è costituita da La maschera di cera (2005) di Jaume Collett-Serra, che strappa qui e lì qualche brivido e ci regala Paris Hilton che muore in maniera violenta in un solo film; la tappa obbligatoria di tutti gli amanti dell’horror, ovvero il primo Final Destination (2000) di James Wong, film volgare ma, a suo modo, rivoluzionario del genere; The Descent (2005) di Neil Marshall, originale e inquietante horror a base di buio e claustrofobia; e, per finire, il violentissimo Frontiers (2007) di Xavier Gens e il più pecoreccio ma molto interessante Dead Snow (2009) di Tommy Wirkola.


Scena cult – Alla prima visione di Husk non si può che restare colpiti dai cadaveri viventi che cuciono le loro maschere da spaventapasseri con le dita infilzate di chiodi arrugginiti.

Canzone cult – Non pervenuta.

sabato 28 aprile 2012

SOMOS LO QUE HAY (2010), Jorge Michel Grau


Messico, 2010
Regia: Jorge Michel Grau
Cast: Francisco Barreiro, Carmen Beato, Alan Chàvez, Paulina Gaitan
Sceneggiatura: Jorge Michel Grau


Trama (im)modesta – Un uomo di mezza età muore in un centro commerciale. Era il padre di Alfredo (Barreiro), Juliàn (Chàvez) e Sabina (Gaintan) e il marito di Patricia (Beato). Ora che il padre è morto, tocca ad Alfredo prendere il posto del capofamiglia e occuparsi di tutte le tradizioni della casa. Sì, perché ogni casa e ogni famiglia ha i suoi usi, le sue tradizioni, i suoi riti. E c’è bisogno di qualcuno per portarli a termine, qualcuno che sappia prendere le redini e dominare ogni situazione. Se poi vivi in una famiglia di cannibali, le tradizioni sono più dure da seguire di quanto si pensi.


La mia (im)modesta opinione – Raffinato, crudo, elegante, scioccante, di asterea freddezza, di inconfessabile brutalità. Tutto questo è il cinema messicano contemporaneo, pieno di registi indipendenti che guardano all’Europa e alla sua produzione autoriale in equilibrio fra finezza e scanzonatezza. E questo Somos lo que hay non si distacca troppo (per fortuna!) da questo filone. Un dramma borghese condito di feroce follia, più che un horror (etichetta sotto la quale il film è venduto). La pellicola di Grau non vuole farci spaventare, ma vuole presentarci il dramma di una famiglia. Si dirà: «Allora dove sta l’originalità?» Ma nella famiglia, ovviamente. Se Iñárritu, con il suo Biutiful, sommerge il malcapitato spettatore sotto una valanga di lacrimevole pietismo, Grau  tratteggia il dramma di una famiglia indigente ma lo fa con una vena di cupezza che trasforma il trito e tristissimo quadretto familiare in un’inquietante galleria di personaggi pazzi e dannati.


La famiglia svolge dei cruenti “rituali” che consistono nel rapimento di una vittima prestabilita, nella sua uccisione, nella dissezione e, infine, nella cena a base di carne umana. Non temete: il sangue è singolarmente poco per una pellicola del genere. La vera violenza è quella psicologica il cui impatto però, a causa della regia compunta e lucidissima di Grau, è infinitamente attutito. Vivo e tangibile è il dramma di Alfredo, assassino brutale dal cuore tenero, omosessuale represso e cacciatore spietato, paffuto e tormentato ragazzo ma anche killer freddissimo e calcolatore. Stupendamente interpretato da un bravissimo Francisco Barreiro che regala al suo personaggio uno stupendo sguardo da animale braccato, sempre sospeso fra la lacrima e l’omicidio.


Il resto della famiglia non è da meno. Si va dal fratello minore Juliàn, rissoso e manesco, a Sabina, la piccola della casa, autentica diabolique in erba, (fintamente) innocente fino alla morbosità, perpetuamente biancovestita che freddamente dirige i destini della casa: spinge Alfredo a eleggersi capofamiglia, risponde insolente alla madre-padrona di Carmen Beato, zittisce con un solo cenno Juliàn. E si può dire che se Alfredo è il personaggio più profondo e complesso della storia, Sabina è il più affascinante in quel suo miscuglio di innocenza e manipolazione. Quarto e ultimo personaggio del dramma è la madre Patricia, casalinga invecchiata e imbruttita, madre autoritaria e odiosa che sembra un incrocio fra Pina Fantozzi e Margaret White, la tremenda madre della Carrie di Stephen King.


Altro elemento degno di nota è la relativa mancanza di gore all’interno del film. La regia di Grau glissa con grazia sulla violenza più brutale perché il suo obiettivo non è quello di far inorridire o spaventare, ma quello di scandagliare un mondo diverso, un heart of darkness privato dove il mondo è chiuso fuori, un vuoto d’aria sociale che ha le sue regole, le sue leggi. Leggi brutali, sì, feroci, senza dubbio, bestiali, assolutamente, ma non per questo meno reali, vere e tangibili. E su questo vince il film: senza inutili concettosità, la trama si fa essenziale e la storia, seppur con qualche oscurità, procede spedita e svelta.


Ma oltre a una regia elegante senza esser fredda, a una sceneggiatura essenziale ma non scarna e a delle interpretazioni tecnicamente perfette e calibrate al millimetro, il film gode di una colonna sonora sublime, tutta costruita intorno al suono languido e cupo del violoncello e a quello disturbante e distorto della musica techno che al violoncello si mescola promiscuamente. A tutto si aggiunge un’unica canzone senza nome, cantata da una donna sulla metropolitana in una delle sequenze più belle di tutto il film, che nel suo essere dolorosa e insieme potente trasforma un film originale ma forse un po’ troppo abbottonato in una sobria e pessimistica riflessione sull’individuo e la società.


Se ti è piaciuto guarda anche… - Pochi film eccellono nella rappresentazione delle famiglie malate e criminali. Se il greco Kynodontas (2009) di Giorgos Lanthimos la butta sul miscuglio di raffinato e allucinatorio, la gustosa e godereccia americanata Wrong Turn (2003) di Rob Schmidt apporta qualche originalità al genere della cannibal family trasformando i mostri cannibali in cacciatori deformi e astuti. Altre perle del genere sono il recentissimo The Woman (2011) di Lucky McKee, geniale e violentissimo, e la perla vintage Spider Baby (1968) di Jack Hill, vero cult classic del genere cannibale.


Scena cult – La scena della metropolitana, dove sulle note di una canzone vengono esplorati, con pochissime e intensissime inquadrature, tutti i caratteri dei quattro personaggi principali. Gemma di sintesi ed espressività.

Canzone cult – Ma ovviamente la canzone della scena sopradetta. Una canzone cantata a cappella, tutta affidata alla potenza della voce, dura e scabra come un osso, dal sapore arcaico e mistico che canta il dolore e la sofferenza della vita.

giovedì 26 aprile 2012

THE EDGE OF LOVE (2008), John Maybury


Regno Unito, 2008
Regia: John Maybury
Cast: Keira Knightley, Sienna Miller, Matthew Rhys, Cillian Murphy
Sceneggiatura: Sharman Macdonald


Trama (im)modesta – Negli anni turbolenti della Seconda Guerra Mondiale, Dylan Thomas (il torbido Matthew Rhys) è una sorta di genio tutelare dello spirito nazionale inglese: protagonista della mondanità londinese, le sue poesie vengono trasmesse da tutte le radio come propaganda dell’esercito e della nazione. Thomas è diviso fra l’amore della moglie, Caitilin (Sienna Miller al suo meglio), e quello dell’antico amore della giovinezza, la dolce e remissiva Vera (Keira Knightley). Nella loro vita entrerà il gelido e flemmatico William (Cillian Murphy, a dire il vero un po’ poco a suo agio), generale dell’esercito inglese, che sposa Vera ma che verrà distrutto dalla gelosia e dal sospetto di una relazione fra lei e il poeta.


La mia (im)modesta opinione – Quello di Dylan Thomas è un personaggio autenticamente diabolico. Non so se il vero Dylan Thomas sia stato effettivamente così, ma non si può fare a meno di vedere strane scintille in fondo agli imperturbabili occhi verdi di Matthew Rhys. Il suo Dylan Thomas non appare per tutto il film ma la sua presenza è pervasiva, quasi endemica: se ne sentono le poesie declamate alla radio ma lui parla poco, è al centro di ogni situazione e conversazione ma latita ai bordi della pellicola, non sembra fare nulla eppure è il motore di tutta la storia con il suo cuore di poeta dissimulato sotto un’aria di freddezza e vagheggiata crudeltà. Un uomo, direi quasi, che è vittima di se stesso, che vuole amare ma i cui sentimenti sono corrosivi e distruggono tutto ciò che lo circonda: lo stesso fuoco che lo scalda, brucia tutti gli altri. Tutti lo amano: non fa nulla per essere amato. Fa muovere tutta la storia: resta immobile. Sembra un eroe: è in preda a se stesso.


Altre due pedine del gioco: Cat, la moglie, e Vera, la vecchia fiamma. La Miller e la Knightley sono due sirene e il loro volto deve aver fatto innamorare il regista che le isola di continuo in stupendi primi piani che mozzano il fiato. Passionale, sanguigna e sempre in preda a una sorta di divina mania è la Cat di Sienna Miller, una donna esuberante ma schiacciata dalla lontananza del marito, sempre perduto nei meandri della sua poesia e del suo sentimento. Riflessiva, equilibrata e tenerissima è la Vera di Keira Knightley, innamorata del marito ma anche lei sopraffatta dall’ombra di Dylan con le sue ambiguità sentimentali, le sue passioni, le sue lontananze. Se Cat è dilaniata dalla mancanza d’amore che il marito appare dimostrarle (ma lui l’ama), Vera è sempre onesta e genuina ma su di lei pesa l’ombra del dubbio: il figlio è suo o del marito? I due hanno davvero avuto una relazione? Qual è la natura esatta della loro relazione? Non lo sapremo mai. Degli amori infelici di Dylan Thomas vedremo solo gli effetti, mai le cause.


Ultimo personaggio dell’opera, vittima involontaria della distruttiva affettività di Dylan è William. Onest’uomo, un po’ freddo e glaciale ma animato da fortissimi sentimenti. E se Dylan e Vera sono i motori del dramma (più lui che lei) e gli oggetti dell’eterna contesa e Cat è una comprimaria, dilaniata dall’amore e dal sospetto, William è la vittima di tutto il film. Su di lui si accanisce la storia (gli orrori della guerra), si accanisce la società, si accanisce l’amore. Sopravviverà a tutto. Il caso di William è quello dell’attore che soffre per la sua parte: nell’economia della narrazione è un personaggio pressoché vuoto e scialbo (direi inutile, ma inutile non è), nell’economia della storia in sé, è una pedina mossa da chissà che volontà. William sa questo e ne soffre, soffre per la sua impotenza, soffre per la sua freddezza, soffre per la sua vita.


Quello che abbiamo davanti con The Edge of Love è un film stupendamente musicato, diretto, scritto e interpretato. La fotografia è qualcosa di magico seppur appaia un po’ troppo patinata in certe scene. Unici problemi? La mancanza di una trama portante si fa sentire specialmente nella parte medio-finale e il che causa un paio di sbadigli e, poi, Cillian Murphy. Cillian Murphy è un attore bravo e fascinoso ma la cui fisionomia un po’ androgina e pazzoide mal si sposa con il ruolo di militare tormentato dagli orrori vissuti in guerra. Se Matthew Rhys è perfetto nel ruolo di Thomas, Murphy cerca di fare buon viso a cattivo gioco e ci regala una stupenda interpretazione ma semplicemente il suo aspetto è troppo poco plausibile.


The Edge of Love mi è parso molto bello, al di là di ciò che la critica cinematografica “seria” possa dire. Dove loro vedono maniera io vedo finezza, dove loro vedono prolissità io vedo languore. Le atmosfere sono più o meno le stesse del feuilleton bellico Black Book ma qui c’è maggiore raccoglimento, meno adrenalina anche se l’immagine patinata e raffinata deli anni ’40 è la stessa per entrambi i film. Keira Knightley e Sienna Miller al loro meglio, bellissime e ammalianti. Bravo al regista John Maybury che sta attualmente lavorando a una rielaborazione del Macbeth di Shakespeare di nome Come Like Shadows con Gerard Butler e la divina Tilda Swinton.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per la serie “Poeti sul grande schermo” segnaliamo Poeti dall’Inferno (1995) di Agnieszka Hollad, sulla vita di Paul Verlaine e Arthur Rimbaud; Sylvia (2003) di Christine Jeffs, che con stile ancora un po’ immaturo racconta la vita di Sylvia Plath; Bright Star (2009) di Jane Campion, sugli amori infelici di John Keats. Menziono anche il mio odio/amore segreto: il Gothic (1986) di Ken Russell che, come tutti i film di Russell, mi ha sempre affascinato ma lasciandomi come una sensazione di pesantezza e dissonanza.  


Scena cult – La prima volta che vediamo Caitilin McNamara arrivare sullo schermo: prima un gioco di ombre nella cabina buia di un treno poi un primo piano sensuale, stupefacente di Sienna Miller che fuma una sigaretta. La stella più brillante del film.

Canzone cult – Due: la prima è Maybe It’s Because I Love YouToo Much cantata da una sublime Keira Knightley, pezzo forte della pellicola più per lo stile che per la canzone in sé, e la seconda è la Careless Love della mia amata Madeleine Peyroux, autentica fusione fra Norah Jones e Billie Holiday.

mercoledì 25 aprile 2012

THE WICKER TREE (2011), Robin Hardy


Regno Unito, 2011
Regia: Robin Hardy
Cast: Brittania Nicol, Henry Garrett, Graham McTavish, Honeysuckle Weeks, Christopher Lee
Sceneggiatura: Robin Hardy


Trama (im)modesta – Beth (Nicol) e Steve (Garrett) sono una giovane coppia di missionari cristiani. Lei (una specie di incrocio fra Teresa d’Avila e Hannah Montana) è la classica cristianella texana tutta zucchero e miele, lui è un cowboy che prova a essere devoto e casto (hanno pure gli anelli della castità!) ma il cui spirito campagnolo lo porta verso istinti molto più bassi. Nella loro opera di evangelizzazione delle genti di Scozia, vengono invitati dalla popolazione neopagana di un villaggio a partecipare ad un festival. Inutile dire che faranno tutti una brutta fine.


La mia (im)modesta opinione – Okay, Robin Hardy non è un genio: ha diretto solo quattro film negli ultimi trentanove anni, tre dei quali fanno parte della trilogia del The Wicker Man, che si propone di esplorare il tema del paganesimo nelle isolate e rurali terre scozzesi. Nel lontano 1973, The Wicker Man entrò nella lista dei cult assoluti del film inglese venendo definito dalla rivista americana Cinefantastique: «…il Quarto Potere del cinema horror». E, dobbiamo ammetterlo, il primo film del trittico era assai suggestivo anche se grossolano nella messa in scena, nelle musiche e nelle ambientazioni. C’era tutto: il violento e sconvolgente colpo di scena finale, la religiosità fanatica, l’esoterismo e il paganesimo con il loro riti ancestrali e cruenti.


Insomma, l’eredità di The Wicker Man è un’eredità assai pesante, resa ancor più pesante dal tremendissimo remake americano con Nicholas Cage Il Prescelto che è stato tanto brutto da far apparire l’originale un capolavoro per il solo confronto. The Wicker Tree non è il sequel del precedente film di Hardy ma ne è, per così dire, l’erede spirituale, il fratellastro. La storia è praticamente ricalcata dal primo film però Hardy è capace di svolgerla con un registro fra l’irriverente, il comico e il compiaciuto che salva il film dandogli come un’aria scanzonata e ironica.


Fare altrimenti avrebbe rovinato tutto: il film sarebbe sembrato serioso e, per di più, una copia pedissequa di trama e colpi di scena del precedente. Qui sta il colpo di genio di Hardy: l’ironia tragica. Si definisce ironia tragica quell’espediente usato nella tragedia greca per cui il pubblico conosce già lo sviluppo della storia mentre non la conosce l’eroe del mito che noi vediamo avvicinarsi irrimediabilmente alla tragedia sentendoci impotenti e aumentando il pathos. La stessa cosa accade in questo film: sin dall’inizio sappiamo come va a finire, ci sembra che ogni passo, ogni parola, ogni gesto di Beth e Steve sia precisamente direzionato al sacrificio finale. Eppure lo si guarda lo stesso. Merito dell’ironia tragica.


Oltre che con l’ironia tragica il film acquista leggerezza anche tramite una critica alla religione non sempre troppo sottile o originale ma i cui colpi vanno sempre a segno grazie ai ridicolissimi protagonisti, veri manichini che si tirano addosso tutti gli stereotipi del texano religioso e alla assoluta weirdness di certe situazioni. Beth è la tipica principessina da supermercato americana che vuole arrivare vergine al matrimonio e parla d’amore e vomita melensaggini senza nemmeno conoscere la religione in cui crede, Steve è il classico, virile cowboy dalla maschie passioni che si ritrova, suo malgrado, attaccato ad una fidanzatina chioccia e puritana che lo costringe ad un’eternità di docce fredde (anche se troverà modo di consolarsi).


Vediamo questi due buffoni predicare una religione stucchevole e melensa, le cui contraddizioni i suoi stessi sostenitori ignorano e i cui principi si è felici di tradire in nome di un sano e gustoso peccato. Oltre alla critica alla religione, nel film aleggia una certa demenzialità tutta british, uno humor macabro e nerissimo che trasforma un blando horror in una tutto sommato carina commedia nera. Ma questo umorismo è solo falsamente involontario. Mi spiego meglio: tutto ciò che succede, le situazioni che strappano risate, i crudeli cultisti che inciampano, si fanno male, motteggiano su omicidi e tassidermia si comportano au naturel, cioè come accadrebbe nella realtà, perché vogliono essere lontani dagli stereotipati cattivi inarrestabili e infrangibili degli altri horror.


Dico che il film è “tutto sommato” carino perché oltre a questi vari pregi, il film di Hardy dimostra dei limiti evidenti e soprattutto non trascurabili: in prima istanza, la mancanza di un personaggio o una trama forti; in seconda istanza, la lentezza degli sviluppi della storia (il regista sa che il pubblico conosce già gli esiti della storia ma forse ignora che conoscere il finale rende noioso tutto ciò che sta prima); in terza istanza, un senso dell’horror più moderno che manca, forse nel 1973 un film come The Wicker Man poteva colpire, ma sono passati quasi quarant’anni: il concetto di orrore si è sviluppato, è inutile cercare di colpire con stili invecchiati e inefficaci.


Quanto agli attori sono tutti bravi. Segnalo solo Brittania Nicol per aver reso la nauseante zuccherosità della sua missionaria cattolica e il cameo di Nostro Signore Christopher Lee (già presente come antagonista in The Wicker Man) che anche una parte minuscola la fa diventare da standing ovation. Un film da vedere più per dovere intellettuale che per effettivi meriti artistici, questo The Wicker Tree, ma che comunque è una tappa necessaria se si è fan del super cult di Hardy.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente l’originale The Wicker Man (1973), cult imprescindibile anche se un po’ troppo stagionato; poi per l’atmosfera del villaggio pagano chiusa e opprimente c’è il The Village (2004) di M. Night Shyamalan, vera perla che si frantuma nel finale ma still worth watchin’, la favola nerissima Il mistero di Sleepy Hollow (1999) del mitico Tim Burton e il gran classico della mia infanzia Grano rosso sangue (1984) di Fritz Kiersch, tratto dal racconto di King I figli del grano.


Scena cult – Le uniche scene che mi hanno colpito sono quella della scoperta delle macabre statue di cera che contengono i cadaveri delle passate Regine di Maggio e il cameo di Christopher Lee (che per fare un film così o è stato pietoso oppure è stato disperato).

Canzone cult – Come il precedente The Wicker Man, anche questo film è musicato quasi del tutto con tremende colonne sonore e canzonette folk scozzesi per sottolineare e simboleggiare il paganesimo campagnolo che pervade tutto il film. Ma non ci posso far nulla: le canzoni mi davano fastidio prima e me ne danno ancora.

domenica 22 aprile 2012

L’ONDA (2008), Dennis Gansel


Germania, 2008
Regia: Dennis Gansel
Cast: Jürgen Vogel, Frederick Lau, Max Riemelt, Jennifer Ulrich, Jacob Matschenz
Sceneggiatura: Dennis Gansel, Peter Thorwarht


Trama (im)modesta – Reiner Wegner (Vogel) è un insegnante alternativo che non sopporta gli accademismi e la barbosità degli studi cattedratici. Durante la settimana a tema, in cui ogni studente sceglie dei corsi monotematici da seguire per l’intera settimana, a Wegner viene assegnato il tema dell’autarchia e del totalitarismo. Vedendo come i ragazzi sottovalutano l’argomento della dittatura, credendolo ormai sorpassato e obsoleto, Wegner propone un esperimento: creare un movimento (appunto L’Onda del titolo), ideare un’uniforme e un logo (in questo caso l’uniforme è una camicia bianca per bene e il logo la versione stilizzata del dipinto del giapponese Hokusai, La grande onda di Kanagawa), organizzare un sito web e fare proseliti. In pochi giorni, L’Onda prende piede e Berlino si trova invasa di graffiti e adesivi raffiguranti il logo del movimento, ma il pericolo del fanatismo è dietro l’angolo e i protagonisti ne faranno esperienza a loro spese.


La mia (im)modesta opinione – I film come L’Onda sono importanti. Solo un film è capace di trasmettere non solo a livello mentale ma anche a livello visivo quella che è la fenomenologia del Male. In questo caso il Male si nasconde in Germania, nella gioventù tedesca presuntuosamente convinta che la passata esperienza nazista possa salvarli dal ricadere nella trappola autarchica. Ciò che urta di più in questo film è che la storia narrata è vera: gli eventi si svolsero alla fine degli anni ’60 in California, il movimento si chiamava La Terza Onda e anche lì ci furono ghettizzazioni, atti minori di bullismo e discriminazione.


È interessante vedere come regia e sceneggiatura non arrossiscano davanti al dire i nomi ad alta voce, elencare i colpevoli e nominare le vergogne. Perfino l’argomento del nazismo, vero tabù in Germania (il saluto nazista è proibito sia in Austria che in Germania, come anche la svastica), è affrontato a faccia aperta, senza tentennamenti o riserve. Questo esplicito riferimento al passato nazista della Germania (passato che i tedeschi fanno finta di non vedere, bollandolo come passato oscuro) rende L’Onda un film particolarmente caustico e velenoso per la società tedesca, ma lo salva dai limiti di un nazionalismo troppo chiuso grazie all’universalità del messaggio: o si sceglie la forza attraverso la disciplina, l’unione, l’azione e l’unità o si sceglie il caos indifferenziato, con il dettaglio che la disciplina, unione, azione e unità sono foriere di violenza e discriminazione e il caos garantisce una relativa pace.


Altro punto interessante è quello dell’identità. Wenger dimostra ai suoi alunni come il marciare in perfetto sincrono possa permettergli di lavorare e pensare come una creatura unica. La camicia bianca, divisa del movimento, annulla le differenze razziali, sociali e culturali. Il saluto comune ai membri del gruppo, i simboli e le ideologie provvedono a creare una copertura efficace e così L’Onda parte. Avere un’identità particolare comporta delle responsabilità: bisogna farsi carico dei propri limiti e difetti, bisogna accettare i propri problemi, bisogna sopportare la propria dose di dolori pubblici e privati. Ma L’Onda lava via tutto: con la camicia bianca addosso non si è più ricchi o poveri, non si è figli di genitori distanti, non si è più chiusi in relazioni frustranti perché il gruppo, l’identità collettiva annulla le magagne particolari.


Il dilemma del film è proprio questo: essere se stessi e accettare esclusione, dolore e solitudine o rinunciare a se stessi e trasformarsi in creature indottrinate e acritiche? La pace che il far parte del gruppo garantisce è una pace vera ma che si basa sullo schiacciare la pace altrui: meglio provare un senso di tregua dalla vita subito o aspettare in eterno che arrivi? Il film ci fa capire che entrambe le strade portano nello stesso luogo: da nessuna parte. E, possiamo dirlo, il pessimismo de L’Onda è una pillola amara, amarissima, ma necessaria.


Gli studenti de L’Onda sono un gruppo eterogeneo, perfettamente plausibile: si va dalla ragazza alternativa, al riccastro bullo, allo sportivo muscoloso e bietolone, al frustrato fanatico fino al buffone della classe. L’Onda travolge tutti, scatena violenza, ispira superbia, spinge al vandalismo. Basta una camicia bianca, degli ideali posticci in cui credere, un saluto in codice e una causa comune e la situazione è pronta a sfuggire di mano. Interessante è il vedere la facilità con cui tutte queste persone, così diverse e con problemi così diversi, siano pronte a rincorrere una bandiera qualsiasi pur di avere qualcosa per cui schierarsi. Nel film si critica l’egoismo che porta alla competizione fra singoli: ebbene quello de L’Onda non è altruismo, ma egoismo su larga scala che porta un gruppo ad agire come un’entità unica. Molte menti, un singolo egoismo.


Un film così corale e, dunque, così delicato (è cosa difficoltosa tenere in equilibrio tanti personaggi insieme) trova la sua forza sia nella sceneggiatura rapida e sagace, capace di colpire al punto giusto senza mai sprecarsi o sbavare, sia nella regia ferma e vagamente videoclippara di Dennis Gansel che racconta una storia giovane con uno stile giovane, fresco, pieno di energia e voglia di fare. Bravi sono anche gli attori. In testa il professor Wegner di  Jürgen Vogel, poi tutta la compagine degli studenti, sopra tutti quanti l’inquieto e inquietante Tim (singolarmente somigliante sia caratterialmente che fisicamente all’Alex, studente frustrato e pluriomicida, dell’Elephant di Gus Van Sant)


Se ti è piaciuto guarda anche... – La fenomenologia del male collettivo è oggetto di vari film, fra i più importanti ci sono L’Allievo (1998) di Bryan Singer, basato su una storia di King, legge il male e la follia come contagi mentali connaturati negli uomini; The Experiment (2001 e 2010), film e remake omonimo diretti rispettivamente da Oliver Hirschbiegel e Paul Scheuring, e Stoic (2009) di Uwe Boll, ispirati a fatti realmente accaduti, analizzano lo sviluppo del male come allontanamento dalla civiltà; Elephant (2003) di Gus Van Sant, Bully (2001) e Ken Park (2002) di Larry Clark, analizzano il male come frutto di un ambiente esterno alienante, amorale e indifferente. Altri film simili a L'Onda per il tema della scuola alternativa sono i francesi La Classe (2008) di Laurent Cantet, vincitore della Palma d'Oro a Cannes, e il commovente Les Choristes (2004) di Christophe Barratier.


 Scena cult – La marcia sul posto in classe, vero pezzo da antologia, e la sequenza adrenalinica del vandalismo notturno a Berlino. Capolavori.

Canzone cult – La colonna sonora di questo film è un concentrato di rock e musica tra il tamarro e il discotecaro. Si va dal gruppo indie rock The Killians (presenti con Fight The Start e Short Life of Margott) ai cantanti rock tedeschi (che cantano in inglese come la Spending My Time degli Orange but Green), ci sono i pezzi elettronici (come la stupenda Bored di Ronda Ray con Markie J.) e rock più commerciale (la Execution Song dei Johnossi). Ma le tre canzoni che mi sono piaciute di più sono la scatenata Rock& Roll Queen dei The Subways, la torbida ed elettronica Everything is UnderControl dei Coldcut e la tamarra e coattissima Home Zone dei Digitalism. 

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