domenica 8 aprile 2012

MISS BALA (2011), Gerardo Naranjo


Messico, 2011
Regia: Gerardo Naranjo
Cast: Stephanie Sigman, Noe Hernandez, Irene Azuela, Miguel Couturier
Sceneggiatura: Gerardo Naranjo


Trama (im)modesta – Laura Guerreo (Sigman) è una graziosa ragazza messicana che vive e lavora insieme al padre e al fratello e cerca di sbarcare come può il lunario in un Messico dilaniato dalla lotta fra bande e cartelli della droga. Nella speranza di guadagnare del denaro, si iscrive ad un importante concorso di bellezza. Ma per un rovescio di fortuna, Laura si ritroverà invischiata negli affari criminosi di un cartello della droga guidato da Lino (Hernandez) che, in cambio del suo aiuto nelle operazioni criminali, le promette la vittoria al concorso. Laura non potrà far altro che assecondare il suo destino.


La mia (im)modesta opinione – Debutto a Cannes nella sezione Un Certain Regard, nomination (sfumata) all’Oscar come migliore film straniero, acclamato film di denuncia sociale originale e innovativo, una regia sobria ed elegante che evita l’enfasi retorica della mexploitation che tanto abbiamo conosciuto grazie a Robert Rodriguez, il soggetto basato su un autentico fatto di cronaca avvenuto in Messico qualche anno fa, questo Miss Bala aveva tutte le carte in regola per diventare un grande film, purtroppo gliene manca una sola: il nerbo.


Ed è proprio il nerbo, il turgore stilistico il grande assente del film. Ma forse è un assente consapevole: come già detto, la regia è elegante ma non accademica, sobria ma non per mancanza di idee, la storia è drammatica ma non enfatica ed è ambientata in un Messico duro, aspro e violento che però ci appare come incredibilmente placido e “ordinario” perché proprio in questo paese paura e sopruso sono all’ordine del giorno, pane quotidiano. Idea che traspare anche dalla bella prova di Stephanie Sigman che, si vede, è profondamente turbata e moralmente strattonata ora da una parte ora dall’altra ma non si scompone mai, non crolla mai, non si lascia mai andare.


Questa normalità del clima di terrore e paura è sottolineata da Naranjo con un approccio sempre calmo, disteso, sempre profondamente (e forse dolorosamente) consapevole di un paese dove si viene perquisiti all’entrata dei locali pubblici, dove si viene aggrediti dalla polizia per strada e dai criminali in casa propria, dove quella di rimanere uccisi in una sparatoria o rimanere invischiati negli affari dei cartelli mafiosi è una paura reale e tangibile. Ma è proprio per questo senso dilagante di ordinarietà che il film pare insapore sciapo, quasi annacquato: indubbiamente una colpa della storia.


La storia risulta troppo liscia, serica, distesa. Non c’è concitazione: vediamo emozioni e sentimenti ma non li proviamo, non li sentiamo nostri. Di chi è la colpa, dunque? Della regia e della storia stessa. La regia pecca di eccessiva economia, risulta castigata, troppo austera e disadorna. La sobrietà narrativa è uno strumento efficace ma solo se la si usa per raccontare storie sopra le righe e paradossali e qui arriviamo al secondo colpevole del parziale fallimento del film: la storia. La storia è straordinaria, quasi eclatante ma nel suo essere troppo spartana ruzzola nella normalità e dunque nella mediocrità e dalla mediocrità alla banalità il passo è breve.


Il film soffre inoltre di una trama eccessivamente scarna, quasi anoressica e filiforme come la sua protagonista che è presente in ogni scena e dà persino il nome alla pellicola. E anche la protagonista finisce per diventare quasi una zavorra per la storia appesantendola con i suoi piagnucolosi silenzi, la sua grigia mosceria, la sua confusione e passività davanti alle cose e agli eventi. Ma se la protagonista della storia è passiva e confusa (e la protagonista è la storia) come può non risultare il film incerto, inconcludente e vagamente frustrante per lo spettatore?


A questo punto dunque allora anche la regia essenziale e non partecipativa pregiudica il film: quello di Naranjo alla storia è da un lato un approccio originale e consono ma dall’altro finisce per essere barboso e grigio, larvato da una sorta di pedanteria priva però di quell’esaltazione moralistica (esaltazione non per forza ruffiana) tipica di questi film di denuncia sociale. Non c’è dramma, Laura Guerrero è un personaggio alla lunga fiacco e la sua disperazione, troppo diluita e uniforme, è gratuita e degradante. Non c’è gloria nella sua vittoria, non c’è appagamento: solo perplessità e straniamento.


È solo il finale che riscatta il film: lo squallore cittadino sbattuto contro l’abbacinante biancore sovraesposto del palco, stuprato dalle luci accecanti dei riflettori, la crudeltà del destino infame che spetta a Laura (ma a cui lei si è piegata dall’inizio del film). Insomma la conclusione ideale per una parabola degna non di Inferno o Paradiso ma solo di neutrale Purgatorio. Un prodotto dunque, questo Miss Bala, che sembra appetibile per la sua eleganza e la sua originalità ma che si rivela una scatola di latta vuota e fredda. Guardatelo, ma solo se avete tempo da perdere.


Se ti è piaciuto guarda anche...Machete (2010) di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis, perché è mexploitation dura e pura, divertente e scandalosa che mescola la denuncia sociale più dura a un’exploitation sempre sapida e divertente. Bordertown (2006) di Gregory Nava, altra durissima denuncia sociale, altro fatto realmente accaduto, un esempio di come Miss Bala avrebbe dovuto essere: maggiore forza, una più vigorosa stilizzazione, una trama meno dispersiva. The Devil’s Double (2011) di Lee Tamahori, ancora una storia di patti “diabolici” con il mondo del crimine, di eccessi malavitosi e drammi morali di protagonisti innocenti. Non è un paese per vecchi (2007) di Joel ed Ethan Cohen, un altro esempio di una storia che pecca di eccessiva sobrietà, una sobrietà in questo caso giustificata dalla fedeltà allo stile letterario dimagrato e asciutto di Cormac McCharty.


Scena cult – Il finale moralistico che conclude la parabola esistenziale di Laura e riscatta in calcio d’angolo tutto quanto il film che, senza di questo, sarebbe precipitato senza freni negli abissi della noia.

Canzone cult – Non pervenuta. La musica, in questa pellicola, viene usata in modo minimale dal regista che la sua per sottolineare questo o quello stato emotivo.

 

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