venerdì 6 aprile 2012

QUILLS (2000), Philip Kaufman


USA, Regno Unito, 2000
Regia: Philip Kaufman
Cast: Geoffey Rush, Kate Winslet, Joaquin Phoenix, Michael Caine, Stephen Moyer
Sceneggiatura: Doug Wright


Trama (im)modesta – Il Marchese DeSade (il magistrale Rush) è incarcerato nel manicomio di Charenton per via dei suoi scritti immorali e scandalosi. Le sue opere vengono pubblicate di nascosto grazie alla servetta Madeline (Winslet) che funge da tramite fra Sade e il suo editore consegnando di nascosto i manoscritti a un corriere. Per frenare la pubblicazione delle opere del Marchese, Napoleone manda lo spietatissimo dottore Royer-Collard (un Michael Caine in stile Tomàs de Torquemada) a “curare” lo scandaloso internato affiancando alla direzione del manicomio il mite abate Coulmier (Phoenix). Ma bisogna stare attenti: la follia è un terreno insidioso sul quale camminare.


La mia (im)modesta opinione – Diciamolo subito: Quills non è un film storico in quanto i dettagli storici sono volutamente distorti e anche l’interpretazione del carattere e dello spirito sadiano ne risultano deformati e fuorvianti. Nonostante luoghi e personaggi siano realmente esistiti, ogni altra cosa è diversa: Justine venne pubblicato tredici anni prima dell’incarcerazione di Sade, Sade non somigliava affatto a Geoffrey Rush (che , nonostante questo, ci fornisce un’interpretazione che rasenta il sublime), l’incarcerazione di Sade fu dovuta più agli episodi di violenza commessa su serve e prostitute che ai suoi scritti (per cui comunque fu accusato di pornografia), e il film sbaglia nel dare l’impressione che Sade fosse un martire del libero pensiero. Diciamo subito anche questo: Quills non è un film sul sadismo o su Sade. È un film sulla follia.


È la follia infatti che si muove costantemente al centro del palcoscenico, la follia manifesta degli internati al manicomio di Charenton ma soprattutto quella larvata e perversa che scorre nelle vene della società (la sposa-bambina del dottor Royer-Collard, l’ottusa e grottesca imperiosità del macchiettistico Napoleone, le feroci umiliazioni a cui è sottoposta la moglie del Marchese) che il regista Kaufman ha affrescato con tanto acume. E in mezzo a queste due fazioni (coloro che alla pazzia di sono arresi e coloro che invece ne sono guidati) sta proprio il Sade di Geoffrey Rush, indispensabile perno attorno al quale gira questo mondo falsamente manicheo, sintesi suprema della ferocia della pazzia e dell’ipocrisia borghese che della pazzia si fa omertosa e dolorosa maschera.


E allora vediamo un Sade istrione, motteggiatore, gigione e beffardo. Un satiro che fa satira, la cui maschera è il volto che nasconde e vice versa e che si presenta non come persona ma come nodo concettuale del film, come pietra dello scandalo (una pietra luminosa e squillante come quella incastonata nell’anello del Marchese). Ma torniamo alla follia. Lo sceneggiatore premio Pulitzer Doug Wright (che è anche autore della pièce dalla quale il film è tratto) dipinge la follia come una vera e propria energia fisica, un contagio infuocato che si sparge come una pandemia, miete vittime, ha sintomi subdoli e la cui presenza necessaria è quasi resa sana dalla “catarsi” della scrittura perché qualora la follia si spargesse verrebbero aperte (come si dice nel film)  «le porte dell’inferno».


È questo ciò che vediamo nel catartico falso finale dell’incendio a Charenton: il Marchese rinuncia al veicolo della scrittura per il travaso della sua pazzia e la stessa pazzia esplode con spargimento di fuoco e sangue e con numerosissime vittime che nella follia sprofonderanno o per la follia moriranno. Come già detto, sbagliato sarebbe leggere la figura di Sade come martire del libero pensiero in quanto il Sade di Quills è una figura storica e letteraria puramente strumentale, esplicativa e simbolica. Non per questo, però, va detto che lo sceneggiatore non abbia letto o studiato Sade: tutti gli errori della pellicola sono chiaramente voluti e ricercati.


Al di là del lato contenutistico e intellettuale, anche la parte tecnica della pellicola è assai incoraggiante: belle sono le interpretazioni, bella è la messa in scena, belle le ambientazioni, sensuale e boccaccesco è l'erotismo sparso in giro per la pellicola ma, soprattutto, abile è la regia nel gestire un intreccio non complesso ma molto variegato di sottotrame e personaggi. Kaufman è un narratore sapiente ma, devo dirlo, difetta di stile visivo. Non ci sono particolari guizzi di visionarietà o folgorazioni mentali come, d’altra parte, il film non è affatto lambiccato o concettoso solo ben congegnato e finemente pensato. La fotografia è fumosa, ovattata e caliginosa, rende bene l'atmosfera grigiastra e fosca dell'epoca ma nulla di più.


Altra nota di merito è lo scavo psicologico a cui vengono sottoposti tutti i personaggi (è raro vedere un film che si occupi di approfondire i personaggi e mantenga anche una solida coerenza concettuale) ma soprattutto l’ironia un po’ abbozzata che fa capolino qui e lì in mezzo al dilagante senso di tragedia che pervade la storia, vero e proprio ritratto virato "in nero" di un'epoca e di un personaggio. Ma bisogna esser giusti: questo film presenta non pochi difetti. Se la deformazione storica pare a volte un po’ troppo eccessiva, anche certe rifiniture, certi dettagli, sembrano ruffiani e artisticamente goffi (si veda il finale che vorrebbe tanto essere caustico ma risulta solo banale e ipocritamente melenso).


Nonostante tutte queste contraddizioni, Quills è una pellicola che mi sento di consigliare fortemente, per la sua carica virulenta, per le sue interpretazioni sbalorditive (Geoffrey Rush è un attore superbo, capace come pochi altri di plasmare gesti, sguardi e parole per dare forma ai propri personaggi), per la sceneggiatura sapida e attenta e per la regia tutto sommato elegante e, in certe sequenze, quasi sontuosa nel dipingere un microcosmo putrido e soave, fatto di carni palpitanti e merletti sudici, città fumose e celle livide, prigioni cariche di orrori ed eleganti magioni che trasudano tradimenti.


Se ti è piaciuto guarda anche... The Libertine (2004) di Laurence Dunmore, perché è una messa in scena ruvida e cruda dei fasti e delle sozzure dell’Inghilterra del XVII secolo, perché l’interpretazione di Johnny Depp è decisamente una delle migliori della sua carriera, perché è un film magari non bello o particolarmente esaltante ma sicuramente originale e vigoroso. Amata Immortale (1994) di Bernard Rose, perché è un’altra riflessione sul genio e la società e perché Gary Oldman è incredibilmente bravo nei panni di Ludwig Van Beethoven. Le relazioni pericolose (1988) di Stephen Frears, altra crudeltà, altri salotti francesi, monumentali interpretazioni (la Close avrebbe dovuto ricevere l’Oscar, altro che Jodie Foster!) e dialogo tagliente come un bisturi. Hamlet (1996) di Kenneth Branagh, perché è una riflessione di ampio respiro sul tema della pazzia che si mescola all’epica, al dramma familiare, alla storia d’amore infelice.


Scena cult – Nulla in questo film è stato più disturbante del sogno dell’abate Coulmier che mescola sacro e profano, tenerezza e perversione. Scena di cui non rivelo nulla per non rovinare eventuali sorprese.

Canzone cult – Kaufman ha scelto una canzone da trasformare in leitmotiv del film: Au Clair de la Lune, tradizionale filastrocca infantile francese, cantata nel film dall’inglese John Hamway

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