sabato 28 luglio 2012

FAHRENHEIT 451 (1966), François Truffaut


Regno Unito, 1966
Regia: François Truffaut
Cast: Oskar Werner, Julie Christie, Cyril Cusack, Anton Diffring           
Sceneggiatura: François Truffaut, Jean-Louis Richard      


Trama (im)modesta – In un imprecisato, distopico futuro, un regime autarchico, in nome dell’uguaglianza, proibisce che si leggano libri, leggere infatti stimola le idee e la diversificazione delle personalità mentre per la pace è necessaria un’uguaglianza totale, soprattutto a livello ideologico e una mancanza assoluta di spirito critico. A questo scopo, il corpo dei pompieri si occupa di trovare libri nascosti e di bruciarli. Un giorno, però, il pompiere Guy Montag salva un libro – David Copperfield di Charles Dickens – e lo legge. Presto leggere diventerà un bisogno vero e proprio e, leggendo, Montag si metterà contro la famiglia e la società.


La mia (im)modesta opinione – Libri bruciati. Non si potrebbe pensare (almeno per un junkie della carta stampata quale io sono) una crudeltà e un supplizio più grande. E la tortura non si ferma a ciò ma prosegue con l’argomentazione (devo dire implacabilmente corretta) che i libri fanno le persone diverse. Chi legge l’Etica di Aristotele si sentirà superiore al suo prossimo, chi legge Shakespeare o Carroll finirà per vivere in un mondo di fantasia, disperandosi per la realtà. Ed è tanto più inquietante perché il capitano dei pompieri, durante questo suo lungo monologo programmatico, sbotta in una tirata finale sulla pericolosità del libro armeggiando con il Mein Kampf in mano. E come dargli torto? Gli scrittori di romanzi distopici hanno capito tutto da molto tempo: la decerebrata sudditanza è il prezzo da pagare per la pace, il libero pensiero porterà sempre al conflitto. Ma come rinunciare alla bellezza? Al sentimento? Come sacrificare secoli e secoli di letteratura, abbrutendo l’essere umano a ameba inerte che versa tutto il suo cervello ormai atrofizzato in un tubo catodico?


Il dilemma è irrisolvibile, sì, ma non straziante, perché non ci riguarda. Il letterato, lo studioso, l’uomo di spirito vedrà sempre nel suo inferiore o un nemico da eliminare o un allievo da esaltare e lo stesso vale per l’inferiore che vedrà in colui che nutre il suo pensiero un pericoloso sognatore, un fastidioso vaneggiatore o un martire da debeatificare, un angelo a cui tagliare le ali per ridurlo a sé. L’uguaglianza è giustizia, la libertà è il caos. Truffaut si cimenta con questi complessi temi sollevati dal romanzo di Bradbury e, smorzandone considerevolmente i toni, imbastisce una moralità leggendaria (rubo l’espressione, con il beneplacito di monsieur Laforgue) che si spoglia del romanzesco, liberandosi di trama definita, psicologia e altri elementi strettamente narrativi, per analizzare appunto la sola sfera morale di un uomo in crisi – in questo caso Guy Montag – che impara ad amare ciò che gli è stato insegnato a odiare acriticamente e alla fine compie un salto definitivo diventando da distruttore di libri a libro egli stesso in una utopica comunità di uomini-libri che imparano a memoria un volume, lo distruggono, e rinunciano per sempre al supporto cartaceo in favore di quello mnemonico.


Per condurre questa perigliosa narrazione, Truffaut adotta il colore e ruba consistentemente al linguaggio cinematografico di Hitchcock e il risultato è un film di rara bellezza e intensa poesia che dimostra sì notevoli segni di invecchiamento (il canone degli anni ’60 è inevitabilmente lontano da quello dei giorni nostri) ma adotta tecniche, inquadrature e soluzioni cinematografiche di una modernità assoluta. E dunque anche se certe scene non sono esenti da una certa maniera (l’incubo di Montag avrebbe potuto benissimo essere infilato in La donna che visse due volte e nessuno se ne sarebbe accorto), altre adottano espedienti di sconvolgente attualità: la scuola vuota e grigia che risuona di inquietanti filastrocche infantili sulla matematica, le inquadrature/fotografie della stazione dei pompieri, i primissimi piani di carta che brucia lentamente, in cui Truffaut ci fa assaporare con amaro (e compiaciuto) sadismo la distruzione delle grandi opere letterarie.


Ma oltre al tema strettamente riguardante i libri, le altre problematiche presenti nel libro di Bradbury (lo strapotere mediatico, il controllo della polizia, la paranoia sociale, l’instupidimento di massa) sono toccate solo di scorcio come a farci intuire una realtà più grande rispetto a quella che il film stesso ci presenta. Gli angoscianti programmi televisivi, l’episodio del ragazzo a cui vengono rasati i capelli in pubblico perché troppo lunghi, la manipolazione dei media e via dicendo sono elementi sì presenti ma comunque distanti, Truffaut si concentra sul dramma umano e morale del protagonista, sulla sua evoluzione interiore che lo porta a rivalutare sistemi e valori. Migliore, a mio giudizio, di altri film distopici (ma non incisivo ed epico come l’abbastanza controverso V per Vendetta di cui sono appassionato sostenitore), Fahrenheit 451 è un film davvero imperdibile, una gemma d’autore e ogni appassionato di fantascienza (ma anche di buon cinema) dovrebbe vederlo, se non per la critica sociale almeno per la magistrale prova di François Truffaut.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Ovviamente il mitico 1984 (1984) di Michael Radford, il televisivo Brave New World (1998) di Leslie Libman e Larry Williams con il leggendario Leonard Nimoy, Blade Runner (1982) di Ridley Scott e il grande Minority Report (2002) di Steven Spielberg. Per uscire dall’Olimpo dei purosangue, abbiamo Gattaca (1997) di Andrew Niccol, la perla (e pecora) nera del genere, ovvero lo stracult trash Equilibrium (2002) di Kurt Wimmer, Brazil (1985) di Terry Gilliam, l’ormai mitologico L’uomo che fuggì dal futuro (1971) di George Lucas e, infine, il mio film del cuore V per Vendetta (2006) di James McTeigue.


Scena cult – La morte della vecchia signora che si suicida in mezzo ai suoi libri. Sconvolgente.

Canzone cult – Non pervenuta.

PRETTY PERSUASION (2005), Marcos Siega


USA, 2005
Regia: Marcos Siega
Cast: Evan Rachel Wood, Adi Schnall, Elisabeth Harnois, Ron Livingston, James Woods
Sceneggiatura: Skander Halim


Trama (im)modesta – Kimberly Joyce, figlia di un ricco tycoon dell’elettronica, frequenta una esclusiva scuola privata di Beverly Hills e aspira a diventare un’attrice famosa. Purtroppo la sua vita non è affatto perfetta: praticamente ignorata dai suoi genitori e circondata da persone false, Kimberly è una fredda manipolatrice che insieme alle sue amiche Randa e Brittany cerca di scatenare il caos nella sua scuola accusando il suo professore d’inglese di molestie sessuali. Per raggiungere i suoi scopi, Kimberly non esiterà a strumentalizzare parenti, amici e compagni di classe ma la guerra, perché Kimberly è in guerra contro il mondo intero, non è mai a buon mercato.


La mia (im)modesta opinione – Il diavolo porta una gonna grigia. Kimberly Joyce è la direttrice di un’orchestra grande quanto tutto il mondo. È disposta a tutto per arrivare dove vuole, non rinuncia a distruggere carriere altrui, sacrificare amicizie, andare a letto sia con uomini che con donne e tutto per far girare il vento dalla sua parte. Non c’è sadico compiacimento nel suo comportamento, Kimberly è più pratica. Non ama manipolare, è solo brava, bravissima a farlo. Insomma, le viene naturale. Girano leggende su come abbia mandato in tilt un computer che usava per il calcolo del Q.I. La sua mente è affilata e inesorabile come le lame di una falciatrice e poco importa se gli steli che sminuzza sono parenti, amici o amanti, tutti le cadono davanti come mosche. Non lo fa per cattiveria, non le piace ferire. Ferire gli altri è necessario. Amorale? Certamente. Il calcolo è il suo mestiere e nella matematica del successo l’altro equivale a uno zero, uno zero da moltiplicare, dividere o addizionare. Tutto è un numero.


Kimberly non è una cinica, dopotutto. Sa di dover fare sacrifici e li fa tutti in vista di un bene superiore, non c’è esaltazione narcisistica nel suo macchinare, non c’è vanteria infantile. Come lei stessa dice ci sono ragazze belle e promiscue quanto lei, ma lei si differenzia dagli altri per una cosa: ciò che lei chiama "the edge". The edge, il limite. Di cosa? Non si sa, ma chi vede i limiti di qualcosa, la vede nella sua interezza. Non possono esserci imprevisti, tutto è compreso nel computo. Basta un pizzico di fortuna, notevole talento (e Kimberly ne ha più di quanto si creda) e ogni palla finirà rotolando quietamente nella sua buca. Kimberly è il perfetto modello di psicopatico: una pantera tutta empatia simulata e cortesia di circostanza; priva di opinioni e parole proprie, ridice e copia all’infito quelle altrui. Mai cattiva, sempre arguta ma incapace di rimorso. L’unica cosa che mette sotto scacco questa regina è l’essere scoperta, l’essere giudicata. Le uniche lacrime che verserà saranno per se stessa, quando si renderà conto di aver sacrificato tutto per nulla e di non essere troppo diversa da uno di quegli spree killer che, nel film, ha compiuto un massacro in una scuola di Bel-Air.


Dice l’assassino: «Just like shooting the ducks in a carnival, you know? They go by a line, one at time and you’ve got your little rifle. Bam! Bam! Bam!». Così Kimberly che piange vedendo nello sguardo del killer lo stesso disperato vuoto che percepisce nel suo. Solo che se per qualcuno ci sono i proiettili, per Kimberly ci sono le idee. E nessuno è risparmiato, nemmeno se stessa, davanti alla finale inutilità del tutto. Ma, nonostante il personaggio di Kimberly appaia tanto drammatico, il film del dramma non ha che la parvenza mascherato com’è sotto le spoglie di una caustica e velenosa commedia liceale. Sì ci sono gli intrighi, sì c’è una rapida e incisiva escursione nel terreno del thriller legale ma la verità è che Pretty Persuasion fa ridere. Fa morire dal ridere. La Los Angeles del film è un luogo grottesco, comico se visto dall’esterno ma più che di comicità, riguardo questa pellicola, io parlerei di umorismo. Se il comico fa ridere in maniera abbastanza gratuita, l’umorismo fa ridere solo per accidente nello scavare le piaghe e le pieghe del mondo e della società.


Kimberly è sola, senza affetti veri. Il suo fidanzato, per sua stessa ammissione, non gli piace, lo tiene come si terrebbe un cane, le sue amiche sono oggetti carini che la fanno diventare verde d’invidia ma di cui sbarazzarsi è facile, facilissimo. L’aggressività è sfogata tramite un sarcasmo gustosissimo ma amaro. Le risate, quelle, sono assicurate. Ma, se all’inizio il film suona come una commedia alla Mean Girls, alla fine la storia vaga più dalle parti di un Cruel Intentions più umano e cupo. La scorrettezza e l'acidità delle idee incrina sempre la facciata sorridente e luminosa della teen comedy. Si va dalle battute antisemite del padre balordo e crapulone James Woods all’umorismo politicamente corretto che nasconde dietro di sé gli strali della sconvenienza più assoluta (meravigliosa la rimbeccata di Kimberly a un compagni di colore:  «Zitto Senegal!») . Pretty Persuasion è la storia di una beffa che finisce male, il divertente e saporoso crollo del muro delle apparenze che svela una realtà che forse faceva meglio a rimanere nascosta.



Il film non è certo privo di difetti. Cambiando registro, dal comico al tragico, circa a metà non riesce mai del tutto a spogliarsi delle vestigia della commedia e dunque il senso del tragico che ne impregna la parte finale è stranamente dissonante, attutito. La macchina filmica è perfettamente ben congegnata, lo script brillante, pieno zeppo di arguzie pungenti e comicità irriverente e irresistibile. Le grandi lodi però vanno alla meravigliosa Evan Rachel Wood, ai tempi soltanto diciassettenne, che gestisce una parte sicuramente molto più matura adombrando il resto del cast, la brillantezza dello script che sa ben gestire la transazione danzerina  fra tragico e grottesco e la grazia di una regia levigata che però non sfocia mai nel lezioso. Inoltre Pretty Persuasion è uno dei film più divertenti e cattivi che mi sia capitato di vedere, corrosivo come pochi e scorretto come rari, senza contare, poi, un cameo della meravigliosa Octavia Spencer, che appare come una donna intervistata in un programma televisivo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Fratelli rispettivamente maggiore e minore del film sono la pietra miliare Cruel Intentions (1999) di Roger Kumble e Mean Girls (2004) di Mark Waters. Cugino di primo grado di Pretty Persuasion è il vansantiano Da Morire (1995) e altri lontani parenti sono Schegge di Follia (1989) di Michael Lehmann e il classico immortale The Crucible (in italiano La seduzione del male) in entrambe le sue versioni: la prima del 1957 adattata da Jean-Paul Sartre e diretta da Raymond Rouleau e la seconda, più sontuosa, del 1996 diretta da Nicholas Hytner e adattata dal grande Arthur Miller, autore, fra le altre cose, dell’opera teatrale originale. Altre vaghe arie di famiglia appaiono con Election (1999) di Alexander Payne, Hard Candy (2005) di David Slade, Le regole dell' attrazione (2002) di Roger Avary e La ragazza della porta accanto (1993) di  Alan Shapiro.


Scena cult – Tre. La telefonata erotica di Hank Joyce, padre di Kimberly, che viene origliata da quest’ultima e poi usata come strumento di ricatto, Kimberly che getta al cane i sonniferi del padre in un gesto di innocente crudeltà e il finale nichilista che vede Kimberly piangere davanti la televisione.

Canzone cult – Strana, bella musica abbiamo qui. C’è la sorniona samba Summer Rain di Smokey & Miho, il funky da blaxploitation Stiffed dei The SEX-O-RAMA Band e What Goes On dei The Velvet Underground.


mercoledì 25 luglio 2012

DEADGIRL (2008), Marcel Sarmiento, Gadi Harel


USA, 2008
Regia: Marcel Sarmiento, Gadi Harel
Cast: Shiloh Fernandez, Noah Segan, Jenny Spain, Eric Podnar, Candice Accola
Sceneggiatura: Trent Haaga


Trama (im)modesta – J.T. e Rickie, due liceali, dopo aver marinato la scuola, decidono di esplorare un manicomio abbandonato che si trova fuori città. Addentrandosi sempre più a fondo tra corridoi e scantinati, i due finiscono in una camera sotterranea in cui trovano una donna nuda, legata e semicosciente. Come presto scopriranno i due, la donna non può morire: può essere pugnalata a morte, strangolata, le si può spezzare il collo o spararle addosso, la donna torna sempre in vita ma sempre in uno stato animale. Inutile dirlo, presto la donna (essendo tra le altre cose, bellissima) diventerà il giocattolo sessuale di J.T. e di un altro suo amico, Wheeler, mentre Rickie si rifiuterà sempre di approfittare di lei. Cominciano a nascere problemi quando i tre ragazzi scoprono che un morso della donna può trasformare in non-morti gli esseri umani comuni.


 La mia (im)modesta opinioneDeadgirl è un film malato, perverso, disumano, crudele e assolutamente non raccomandabile a chiunque abbia scarsa sopportazione delle situazioni al limite. Ma, oltre a essere tutte queste cose, Deadgirl è anche, penso, uno degli horror indipendenti più profondi e geniali che io abbia mai visto. Il senso di disgusto morale e di “sporcizia” che viene dal film si prova proprio perché la storia, nella sua interezza, fa appello al lato più scuro dell’essere umano, alle sue pulsioni più crudeli, al lato più aberrante del suo desiderio. Qual è allora quel quid che fa prendere le distanze Deadgirl da un altro, anonimo, film di zombie con vaga componente necrofila come, ad esempio, Necromentia? Ma ovviamente la profondità e la complessità dei temi sollevati che vanno dalla scoperta del sesso come esperienza indissolubilmente e nascostamente legata alla morte, a quello della frustrazione nei confronti di una vita che oscilla fra apatia e desolante abbandono umano, a quello di una frustrazione che va risolta costruendosi un mondo a parte, uno squallido teatrino della perversione sessuale dove, per poche ore, si possa diventare i padroni della vita (o della morte, fate voi) e non i suoi succubi.


La forza di Deadgirl sta nel prendere gli stereotipi del genere horror e di rivestirli di un significato nuovo, misterioso, sovraccaricandoli di chiavi interpretative e barbagli di psicologia morbosa. È come se i registi avessero preso i conosciuti strumenti del genere e avessero ideato una maniera nuova di utilizzarli – una maniera che ricorda da lontano il primo Romero con i suoi malcelati e taglienti commentari sociali o il Craven di Scream che prende gli stilemi dell’horror e li svuota di qualsiasi significato, mostrandone tutta la ridicolaggine e la fallacia. Definire Deadgirl un film dell’orrore, dunque, mi pare semplicistico, anzi limitato. Questa pellicola potrebbe essere vista come la riproposizione, per immagini, della discesa dell’uomo nella follia. Spinto dalla paura (simboleggiata dal cane nero) l’individuo abbandona la via chiara del cosciente e si perde nei condotti polverosi e contorti della propria mente (ovvero del manicomio abbandonato diviso in una zona illuminata dal sole e una minacciosa e sotterranea) fino a toccare con mano la totale abiezione dei propri desideri e sprofondare in un vortice di pazzia.


Dentro la camera nascosta del manicomio (e della mente umana) non c’è più bisogno di mentire, non c’è più bisogno della convenzione sociale: il desiderio è spoglio, nudo e crudo e può manifestarsi in tutta la sua più lurida abiezione. Ma non è un desiderio inerte, supino è un desiderio disgustoso e animalesco, un desiderio feroce, sanguinario, bestiale. In questo senso si può dire che Deadgirl esprime una concezione piuttosto pessimistica della condizione umana. Chi è più animalesco? La misteriosa donna legata nello scantinato o coloro che si divertono a stuprarla a ripetizione per il puro gusto di farlo? Ma la donna dello scantinato non è altro che l’appalesamento esteriore della realtà interiore dei personaggi, una cruda (e crudele) fantasiola narcisistico-masturbatoria che prende carne (ma non vita!) per confondere la realtà di dentro con quella di fuori. Deadgirl è il primo horror puramente “filosofico” che mi capita di vedere e sono contento di questa potente e disturbante analisi del cuore di tenebra dell’uomo. Cosa è più disgustoso, dunque, l’orrore del film o quello dell’animo umano?


Deadgirl è un film miracoloso, un film che trascende lo stesso genere a cui appartiene e proprio questa profondità, questa spiegazione per simboli di uno stato mentale, sociale e umano che l’uomo moderno sperimenta giorno dopo giorno fa perdonare al film tutti i possibili difettucci (se così si possono chiamare) che solo a un esame parecchio fiscale della pellicola possono saltare fuori. Niente virtuosismi di regia o da parte degli attori, tutti qui fanno solo il loro lavoro e lo fanno con sufficiente dignità e disinvoltura. Con piacere, però, devo dire che quando la tensione dell’horror si allenta emerge un divertente e divertito (ma soprattutto iper-macabro) humor nero che arricchisce i film con tutti i succhi più corrosivi di un’ironia così acida che potrebbe ustionare. I miei più sperticati complimenti vanno a Jenny Spain, che interpreta la donna del seminterrato: bisogna avere l’intestino foderato d’acciaio per sostenere una parte così forte e dura, bisogna avere coraggio a recitare per tutto il film completamente nuda facendosi toccare e palpeggiare da metà del cast e soprattutto bisogna essere unici per mescolare in maniera tanto perfetta nel proprio viso bellezza e ferocia, grazia e ferinità.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Certamente vicino a Deadgirl è il francese À l'intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury, non tanto per tematiche quanto per analisi della brutalizzazione dell’essere umano. Intriganti sono anche il grande classico Videodrome (1983) di David Cronenberg e il meditativo Session 9 (2001) di Brad Anderson. Variante divertente/orrifica sul tema è l’ormai proverbiale Denti (2007) di Mitchell Lichtenstein ma il vero fratello di sangue di questa pellicola è lo strabiliante The Woman (2011) di Lucky McKee insieme al poco, pochissimo riuscito episodio Jenifer (2005) di Dario Argento di Masters of Horror.



Scena cult – La divertentissima scena dell’uccisione del cane da parte della donna. Un mix di grottesca e spaventosa tenerezza, amore oltre la morte e humor macabro. Da fare impazzire.

Canzone cult – Non pervenuta.

martedì 24 luglio 2012

HOLY ROLLERS (2010), Kevin Asch


USA, 2010
Regia: Kevin Asch
Cast: Jesse Eisenberg, Justin Bartha, Ari Graynor, Danny Abeckaser, Q-Tip, Jason Fuchs
Sceneggiatura: Antonio Macia


Trama (im)modesta – Brooklyn, 1998. Samuel Gold ha vent’anni, è un giovane ebreo ortodosso che si prepara a diventare rabbino, a celebrare un matrimonio combinato dalla sua devote famiglia e a lavorare nel negozio del padre. Inutile dirlo, questo rassicurante ma estremamente asfissiante clima di rigidi dogmi morali e religiosi comincia a star stretto a Sam che accetta subito la proposta del fratello del suo migliore amico, Yosef, di un lavoro internazionale: trasportare da Amsterdam a New York “medicine per gente ricca”. Queste “medicine” sono in realtà pasticche di ecstasy e Sam, da semplice corriere, sedotto da una mondanità che mai aveva sperimentato, diventerà un esponente di punta del gruppo.


La mia (im)modesta opinioneHoly Rollers è un film che si muove costantemente sul ghiaccio sottile. Non che inciampi da qualche ma noi crediamo di vederlo barcollare e ci immaginiamo il pesante e rovinoso tonfo senza che questo mai accada. Tutto questo è perché ciò che il film riproduce, è insieme l’affresco e la diagnosi di un preciso spaccato di mondo, ovvero la comunità ortodossa ebraica, che resiste sempre di meno alle incessanti spinte della modernità e, nel suo ostinato arroccarsi su costumi atavici ed esclusivisti, finisce per porsi sotto una luce ora drammatica ora grottesca ma che comunque ne denuncia sempre la soffocante grettezza. Personaggio-simbolo della decadenza di questa comunità è il sopraffino Sam Gold di Jesse Eisemberg, personaggio esemplare, sì, ma che sfugge ad ogni analisi semplicistica a cui lo si potrebbe sottoporre.


Il personaggio di Sam può essere spiegato attraverso un episodio del film. Il rabbino, alla sinagoga, sta leggendo un passo della Torah in cui Dio chiede ad Adamo: «Dove sei?». Il rabbino commenta questo passo dicendo che ogni uomo deve sempre essere in grado di dire dove stia, se più vicino o più lontano da Dio. Sorvolando su tutte le facezie esistenzial-religiose a cui questo episodio si presta, Sam Gold è un individuo che comincia a chiedersi quale sia il suo posto: vicino a Dio (e dunque vicino alla famiglia, ai suoi valori e via dicendo) o lontano da Dio? Il dilemma, purtroppo, è irrisolvibile. Perché, specialmente per un personaggio dell’estrazione di Sam, vicino o lontano da Dio sono due concetti che non prevedono gradazioni intermedie. Il mondo là fuori o la famiglia sicura e amorevole? Non solo non si può scegliere ma della scelta non esiste nemmeno la semplice speranza come si vedrà dall’inatteso finale.


Bisogna ringraziare, ovviamente, l’abilità della regia e la solidità dello script che anche se non conducono il film con la robusta sicurezza che sarebbe stata necessaria, riescono a farlo funzionare bene. Certo una migliore gestione dei tempi sarebbe stata più apprezzabile dato che il film risulta assai lento e meditativo, privo di avvenimenti, ma anche così la pellicola riesce a farci non solo gustare il sapido aroma della ribellione e l’opprimente peso dei gravi valori familiari ma anche a farci vivere in prima persona tutto il dissidio di Sam, un personaggio che sceglie di non scegliere, rifiuta il carcerario abbraccio del nido familiare ma anche la vita, spesa sul filo della dissipazione, di Yosef e Jackie, due personaggi invero alquanto eterei. Inutile dirlo, la storia non ha un lieto fine ma nemmeno uno brutto. Diciamo che finisce come ci si aspetta che finisca, né più né meno.


Un bel film, in definitiva, quello di Kevin Asch. Avrebbe potuto volare più alto ma già così fa un lavoro più che sufficiente coadiuvato da un sublime cast di attori capeggiato da un superlativo Jesse Eisenberg (che fa un lavoro addirittura migliore di quello, già validissimo, fatto nel fincheriano The Social Network) e dalla bionda vamp Ari Graynor, toccante fidanzata dello spacciatore Jackie Salomon simile, per levità e mestizia, alla Penny Lane di Quasi Famosi. Altro valore aggiunto al film è la sbalorditiva fotografia capace di riprodurre alla perfezione le umidi caligini di Amsterdam, la cristallina e gelida aria di New York e lo squallore da salotto macerato dagli anni e dalle tradizioni dei malinconici quartieri ebraici.



Se ti è piaciuto guarda anche... – Ancora più inquietante affresco del fondamentalismo religioso di stampo ebraico è il Kadosh (1999) di Amos Gitai. Meno socialmente impegnato ma assolutamente più affascinante sono lo stupendo The Believer (2001) di Henry Bean, la commedia dolceamara Arranged (2007) di Diane Crespo e Stefan C. Schaefer, il drammatico Europa Europa (1990) di Agnieszka Holland e il più affascinante Camminando sull'acqua (2004) di Eytan Fox. In ambito israeliano abbiamo interessanti pellicola, fra cui Eyes Wide Open (2009) di Haim Tabakman, su un padre di famiglia ebreo che scopre la propria omosessualità, e Ajami (2009) di Scandar Copti e Yaron Shani.


Scena cult – L’involontariamente comico incontro fra i due “promessi sposi” in cui si rivelano tutte le piccole e grandi nevrosi che affliggono la gioventù ebrea ortodossa, ossessionata già a vent’anni dal numero (esorbitante) di bambini da avere e dai soldi che il marito è capace di portare in casa.

Canzone cult – Fra tutte Darkness Before the Dawn di MJ Mynarski e Paul Comaskey, Beat Box di Matisyahu e Donne Moi di Jaime Allen (a.k.a. Solaris).

domenica 22 luglio 2012

THE KING IS ALIVE (2000), Kristian Levring


Danimarca, 2000
Regia: Kristian Levring
Cast: Miles Anderson, Romane Bohringer, David Bradley, David Calder, Bruce Davison, Brion James, Peter Khubeke, Vusi Kunene, Jennifer Jason Leigh, Janet McTeer, Chris Walker, Lia Williams
Sceneggiatura: Kristian Levring, Anders Thomas Jensen


Trama (im)modesta – Per un guasto alla bussola, un autobus di turisti si perde nel deserto della Namibia e finisce in un villaggio fantasma abitato da un solo uomo, Kanana. Mentre uno dei passeggeri va a cercare aiuti in un villaggio vicino, tutti gli altri lo aspettano. Per tenere il morale alto, Henry, l’intellettuale del gruppo, propone di mettere in scena il Re Lear di Shakespeare. Dopo che il progetto ha preso piede, il teatro si confonderà con la vita e le suggestioni della poesia del Bardo si mescoleranno alla paura e alla morte che i dispersi affrontano nel deserto.
  

La mia (im)modesta opinioneThe King is Alive è un film volutamente difficile, scabro, involuto. Adattandosi pressoché pedissequamente ai dettami del Dogma 95 (il movimento cinematografico d’avant-garde che si propone di “purificare” il cinema dall’intrusione degli interessi economici e degli effetti speciali rinunciando a fotografia, scenografia e di ogni altro espediente scenico, eccettuato quello della camera a mano), la pellicola di Levring risulta incisiva ma rude, quasi di foggia barbarica nel suo incedere severo e spigoloso e nel suo evitare ogni carezzevolezza, ogni tipo di amabilità. La storia è sicuramente fuori dall’ordinario ma la mancanza di maniera è assoluta e trascende la stessa nozione di sobrietà nel suo spogliarsi di colonne sonore, di dialoghi che non siano strettamente necessari, persino di ragionamenti ché i moventi di moltissime azioni del protagonisti sono solo intuibili, forse deducibili ma mai chiarificati e resi manifesti.


Come spesso succede, però, più a fondo ci si inoltra nel terreno del realistico più è facile sbucare nelle regioni dell’onirico, ed ecco allora il villaggio fantasma farsi proscenio del dramma, il deserto estendersi sconfinato come in una favola con le sue sabbie abbrustolite dal sole e il suo firmamento torrido e la sua polvere odiosa che dovunque si infiltra. In fondo il realismo è la più cruda forma di escapismo. Il film è, per sua stessa struttura, denso di mille e mille sottigliezze celate sotto l’apparente crudezza di una messinscena estremamente povera. Il risultato è la percezione degli elementi della storia come allegorie. Il deserto diventa una condizione umana, il Re Lear di Shakespeare, pronunciato prima senza convinzione e poi con lapidaria solennità, è la fragilità dell’uomo che si affanna inutilmente nel deserto della vita mentre aspetta che qualcuno lo aiuti e la cui attesa coincide con la vita stessa.


The King is Alive è un film crudele, impietoso, un film che è anche oscuro ed ermetico tanto che si attirato addosso la critica di essere «weird for the sake of weird», troppo cervellotico e forse anche un po’ radical-chic ma tutto ciò è errato dato che nessuno, all’interno della storia, elucubra e ogni elemento legato alla razionalità del reale è un solo, piccolo elemento che si carica di altri significati, significati puramente intelligibili ma mai presenti. Come può un film senza concetto risultare concettoso? Lo dice anche l’intellettuale Henry mentre spiega come recitare la tragedia del Bardo, bisogna leggere le parole e trovare in esse il proprio significato. Ed è per questo che il gruppo di superstiti al deserto, nell’ipnotica scena finale, cita questi o quei versi della tragedia che commentano stati d’animo e situazioni umane. Questo, dunque, è il cinema veramente colto che da spunti brillanti trae conclusioni forse insufficienti ma di sicuro originali e inaspettate.


È vero anche che un film come questo è abbastanza difficile da digerire: i tempi morti abbondano, così come i silenzi enigmatici e alcuni (non troppo necessari) nessi narrativi. Per contro il film annovera certi grandi personaggi come l’intellettuale-artista Henry (un personaggio molto eastwoodiano, virilmente silenzioso e volitivo, eppure profondamente commosso dalla bellezza del mondo) e la complicata francese Catherine, interpretata da una grandissima e fascinosa Romane Bohringer aggressiva e virginale insieme, troppo timida per recitare ma intimamente desiderosa di interpretare un ruolo, quello di Cordelia, che pare scritto proprio per lei. In definitiva The King is Alive è un film che va visto “per forza”, se non per i suoi meriti artistici, almeno come erudita esplorazione di un movimento d’avant-garde che ha avuto tanto peso nell’evoluzione del cinema nordico moderno (il fondatore del Dogma 95 fu infatti il mitico Lars von Trier che, in effetti, non perse molto tempo a lasciar perdere le regole che prima aveva accolto).


Se ti è piaciuto guarda anche – Per esplorare i film del Dogma 95 vi consiglio il precursore Festen (1998) di  Thomas Vinterberg, Italiano per Principianti (2000) di Lone Scherfig e l’italiano Così x Caso (2004) di Cristiano Ceriello. Per qualche versione alternativa delle opere di Shakespeare, abbiamo L’ultima tempesta (1991) di Peter Greenaway, Scotland, Pa. (2001) di  Billy Morrissette, Looking for Richard (1996) di Al Pacino, Cesare deve morire (2012) di Paolo e Vittorio Taviani e Rosencrantz e Guilderstern sono morti (1990) di Tom Stoppard.


Scena cult – Il mesto notturno finale, davanti al fuoco, dove i versi del Bardo sono pronunciati con amarissima consapevolezza e profondo dolore.

Canzone cult – Tre solo le canzoni che figurano nella soundtrack del film. La mia favorita in assoluta però è il vintage Every 1’s aWinner degli Hot Chocolate.

mercoledì 18 luglio 2012

CRACKS (2009), Jordan Scott


Regno Unito,  Irlanda, 2009
Regia: Jordan Scott
Cast: Eva Green, Juno Temple, María Valverde, Imogen Poots, Ellie Nunn
Sceneggiatura: Jordan Scott, Ben Court, Caroline Ip


Trama (im)modesta – Stanley Island, Inghilterra, 1934. Di è il membro più promettente della squadra di nuoto della scuola, una squadra composta da varie ragazzine capitanate dalla maliarda Miss G. (una Eva Green che, questa volta, m’ha fatto davvero innamorare). Un giorno arriva nella scuola una bella aristocratica spagnola, Fiamma, che col suo fascino mondano si attira l’ammirazione e l’invidia di tutte le ragazze della squadra. La tensione cresce ancora di più quando l’affascinante Miss G. comincia a nutrire una insana affezione nei suoi confronti. E la crosta di ghiaccio sottile su cui camminano tutte le protagoniste farà presto a incrinarsi, mostrando quanto sia nero il cuore dell’animo umano.


La mia (im)modesta opinione Cracks è un film strano, a suo modo; fascinoso come pochi, tutto olezzante di segreto e di mistero, completamente costruito su doppi sensi, allusioni e fraintendimenti, nulla viene mai detto ad alta voce, tutto sussurrato, comunicato attraverso gesti e sguardi distratti. Ambientate sullo sfondo di una brumosa e molle isola inglese, le sue scene risuonano di musiche pervasive e avvolgenti che restituiscono come l’impressione di un ammorbante senso di segreto e mistero il cui significato autentico, allo spettatore, è precluso per tutta la durata del film. La pellicola, come si intuisce chiaramente fin dall’inizio della storia, è tutta una sovrastruttura cristallina che copre col suo scintillio e la sua levigatezza tutto un cuore di acque torbide e scure, che tanto somigliano alle opache e nerastre acque marine in cui le giovani protagoniste si tuffano. Motore del vortice che sconvolgerà la quiete oleosa di questo mare così tetro è la Fiamma Coronna di Marìa Valverde, in pratica l’unico personaggio genuino e sincero della pellicola, che sarà vittima delle doppiezze innocenti delle ragazze sue compagne e di quelle molto meno candide della splendida Miss G.


Ma prima di parlare della grande stella di questo film (ovvero la superba Eva Green, che si sta avvicinando sempre di più al gotha dei miei attori di culto) bisogna descrivere bene il contesto in cui le vicende si svolgono. La Stanley Island su cui galleggiano le vicende delle protagoniste di Cracks è un posto certamente concreto, mai sfumato nel sogno, eppure nella sua concretezza è un luogo immaginario, isolato, un improbabile teatro in cui i protagonisti sentono il bisogno di straniarsi, di lambiccarsi in sogni impalpabili. Da qui il tono cerebrale e direi quasi acquatico del film, sottolineato anche da una fotografia plumbea, piovigginosa, quasi acquitrinosa. Dove c’è la possibilità di una situazione idilliaca o luminosa, la regia preferisce virare tutto al nero. Non che in Cracks manchi la luce, anzi, ma la luce, quando c’è, è smorta, caliginosa, offuscata. Stanley Island è un mascheramento dell’Inferno in Terra perché una volta arrivati non la si può lasciare e, come i castelli incantati delle favole, è un luogo che piega il desiderio, intorpidisce la volontà e muffisce il pensiero.


 Vittima suprema e suprema carnefice di questo luogo è la Miss G. di Eva Green. Ex-studentessa della scuola che non ha mai lasciato e in cui, adesso, lavora, Miss G. è agitata da una turbinosa ma svigorita volontà di evasione e da una sottesa e ammorbante lussuria che si sfoga segretamente nel suo rapporto di saffica e costante confidenza con le belle allieve. Miss G. è una femme fatale, una diabolica, un vampiro e una sirena. Come non vedere la sua natura perversa nelle sue pose da imperatrice e nei suoi sguardi ora furenti ora febbricitanti ora profondamente dolorosi? Con quel suo pallore chimerico e la sua liquida mutevolezza sia d’umore che d’espressione, Miss G. sembra non tanto far parte del paesaggio dell’isola ma essere tutt’uno con esso. Un’emanazione spirituale e fisica di un torpido enclave, sigillato dal resto del mondo, che è insieme rifugio e carcere. Ma non bisogna farsi ingannare: Miss G. è la forma più compiuta di un’influenza malevola che scorre in ogni fibra e in ogni sasso dell’isola, un’influenza che plasma lentamente anche le ragazze del collegio che però, in extremis, riescono a liberarsene e a fuggire.


Se la bellezza vampiresca e acquatica della Green ruba i riflettori a tutti quanti, non bisogna sottovalutare le performances delle altre due attrici principali: la stupenda Juno Temple e la di poco inferiore Marìa Valverde. Non che il film sia privo di difetto alcuno, anzi, un altro regista avrebbe dato un apporto più onirico-psicologico alla vicenda usufruendo anche di mezzi tecnici ed espedienti artistici più efficaci ma, alla fin fine, il film della Scott (che è la figlia del più famoso Ridley) è più che accettabile come esordio alla regia di una figlia d’arte e anche se di tanto in tanto si presenta un po’ disorganizzato e inorganico l’elegante script e la convinta performance di Eva Green lo fanno tirare avanti più che dignitosamente. Un film, dunque, lento e affascinante, non esente da macchie, certo, ma certamente degno di una visione (che sia una, però!) anche di striscio.


Se ti è piaciuto guarda anche... – Per ammirare Eva Green in tutta la sua bellezza e potenza attoriale in un film altrettanto bello e potente nulla è meglio dello stupendo Womb (2010) di Benedek Fliegauf, vera rêverie acquatica e filosofica. Per le insane passioni di esimi dottori e insegnanti ci sono il grande classico crepuscolare Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti e il meraviglioso La Pianista (2001) di Michael Haneke e il magistrale Diario di uno Scandalo (2006) di Richard Eyre. E, per concludere, l’esplorazione di una psiche attraverso le “crepe” della normalità: Il Cigno Nero (2010) di Darren Aronofsky.


Scena cult – Due su tutte: il banchetto di mezzanotte nel dormitorio delle ragazze, autentico momento di estasi pagana, e la culminazione del dramma della storia (una scena che non descrivo, per non rovinare il film a nessuno) dove Eva Green pare diventare un’autentica nosferatu.

Canzone cult – Tutta musica di violini e due sole canzoni retrò. Ne cito solo una, Puttin’ on the Ritz, cantata da Fred Astaire, protagonista anche di una famosissima scena del mio amato Frankenstein Jr. (1974) di Mel Brooks.

martedì 10 luglio 2012

BATTLE ROYALE (2000), Kinji Fukasaku


Giappone, 2000
Regia: Kinji Fukasaku
Cast: Tatsuya Fujiwara, Aki Maeda, Takeshi Kitano, Chiaki Kuriyama, Taro Yamamoto, Kou Shibasaki, Masanobu Ando
Sceneggiatura: Kenta Fukasaku


Trama (im)modesta – In un non precisato ma prossimo futuro, gli studenti cercano di boicottare il sistema scolastico giapponese. Spaventato dalle escandescenze della gioventù, il governo giapponese passa il Millenium Educational Reform Act, detto anche BR Act. Ogni anno viene scelta una classe delle superiori che parteciperà alla Battle Royale, un gioco al massacro in cui gli studenti sono costretti a uccidersi fra loro nell’arco di tre giorni. Se non ne sarà rimasto solo uno, le bombe che ognuno di loro porta attaccate al collo esploderà, uccidendoli.


La mia (im)modesta opinione – Il problema di questo Battle Royale non è tanto la povertà di soggetto (anzi, il soggetto è brillante e rivoluzionario, considerando che questo film, ispirato dal romanzo omonimo, uscì ben 12 anni fa) quanto la scarsa capacità narrativa tipica del cinema giapponese. Ebbene sì, il Giappone possiede tecniche narrative tutte sue che chi si è pasciuto della narrativa occidentale/europea non può che valutare negativamente. In Battle Royale, oltre a varie idee alquanto brillanti, regia e sceneggiatura danno fondo a un intero repertorio di teatralità non necessaria, retorica pomposa e manierismo sentimentale che, personalmente, hanno gravemente rovinato il film.


Peccato, certi punto della messinscena sono sinceramente crudeli, sadici fino all’inverosimile ma vengono rovinati dalla componente umana della situazione, ovvero da una recitazione troppo teatraleggiante e manierata, specialmente per quel che riguarda l’odiosissimo protagonista, interpretato dall’ancor più odioso Tatsuya Fujiwara, con quel faccino idiota da giapponesino di plastica che riesce a trasformare in parodia involontaria anche i momenti più drammatici. Più bravi sono gli altri attori, su tutti l’imperturbabile Takeshi Kitano, che fa, come al solito, la sua porca e luciferina figura e anche la tarantino girl Chiaki Kuriyama, che io ho riconosciuto subito con il nome di Gogo Yubari.


Non che questo film mi abbia deluso alla grande, ma dopo un così superbo incipit e con trovate così geniali, come quella della musica, con tutto il potenziale di crudeltà che potrebbe sprigionarsi dalla pellicola, Battle Royale si è rivelato un film sconciato, non tanto dal sentimento, quanto da una sentimentalità troppo esagerata e sospirosa che, con il suo prendersi così ossessivamente sul serio, ha contribuito a far sfaldare il tessuto stesso della storia, un tessuto che magari poteva essere organico e omogeneo ma che risulta scaglionato in una serie di episodi dove si presta una vaga attenzione alle psicologie dei personaggi, analizzandole, per altro, con parecchia superficialità e faciloneria. Basti dire che prima di morire almeno una mezza dozzina di personaggi dichiari il proprio amore nascosto alla propria cotta di sempre con tanto di musica drammatica e paroloni da dramma barocco.


Non finisce qui. Lo spirito così profondamente nipponico del film fa sì che si mescoli stereotipo da manga ad agghiacciante tragedia con sconvolgente facilità e ingenuità. Pare stranissimo che la stessa mente che si sia ingegnata dei trucchi di crudeltà e sarcasmo tanto perversi riesca pure a mettere in scena omicidi e soprattutto suicidi sanguinolenti con cuor così leggero. Ma questa è proprio la tendenza di molti prodotti della cultura giapponese che ha una visione tutta diversa del suicidio e una idea radicalmente diversa della narrazione, legata com’è alle storie sempre uguali e tragiche del teatro nō o del kabuki. Però questo non significa che il film non sia privo di pregi. Anzi, i pregi ci sono e notevoli.


Per prima, la musica. Trovata geniale e beffarda il commentare quasi tutte le scene con sinfonie, messe da requiem, valzer. Su tutti titaneggia il gigantesco incipit commentato dal Dies Irae di Verdi. In definitiva Battle Royale sconta i propri difetti in quanto è la prima pietra su cui è stato fondato il genere del reality violento che ha trovato in The Hunger Games di Gary Ross la sua (finora) cristallizzazione più perfetta. Ma per arrivare alla punta di diamante del genere la strada è ancora lunga. In fondo anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo.


Se ti è piaciuto guarda anche... – La citazione a The Hunger Games (2012) di Gary Ross è d’obbligo, poi abbiamo lo zoppicante ma fascinoso Breathing Room (2008) di John Suits e Gabriel Cowan, il gran capolavoro “povero” 13 Tzameti (2005) di Géla Babluani, il brillante La habitacìon de Fermat (2007) di Luis Piedrahita e Rodrigo Sopeña, il violento Hunger (2009) di Steven Hentges, non grandissimo ma comunque degno di una visone fugace e il claustrofobico Iron Doors (2010) di Stephen Manuel.


Scena cult – La raggelante spiegazione delle regole della Battle Royale a opera di un agghiacciante video in cui una giapponesina parla di omicidio come se si trattasse di caramelle.

Canzone cult – Molta bella musica nel film, ma il Dies Irae di Verdi è il brano più figo di tutti.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...